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Autore: Cladzky    01/02/2022    2 recensioni
La vita di una Polistes dominula, dall'alba a quella successiva, fra larve, morte, fiori e paesaggi siciliani.
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    Il viaggio di ritorno fu più lungo di quanto si aspettasse: dopo ben due minuti ancora non aveva superato la collina di senecione ai cui piedi era appena giunta, oltrepassando il campo di terreno brullo. Un’ombra alla coda dell’occhio le fece abbassare quota fino a raschiare terra, schivò delle giovani marruche e sparì con un guizzo sotto una pila di ciottoli, dove si fece andare il sangue alla testa con un movimento sull’asse di volo e si fermò con uno strattone, tenendosi salda a penzoloni dalla superficie fredda del masso all’ombra, molto più morbida di quanto si aspettasse. L’ombra, proiettata diagonalmente dal sole, si portò velocemente sul tracciato secco che lei stessa aveva percorso due istanti fa, entrando da sinistra e ingrossando sempre di più. Provò a trattenere il fiato e strinse la presa sul masso di spugna filamentosa, ma non riuscì a smettere di tremare, osservando la bocca dell’insenatura in cui si era infilata. Ormai tutto il polline le era scivolato di dosso, ridotto in polvere disidratata. L’ombra si era finalmente allineata con il suo precedente tragitto e di colpo si connesse con la sfumatura azzurrina cui apparteneva. Il gruccione piombò con uno schiocco d’ali lì di fronte e infilò il volto affilato nell’insenatura, protendendosi tanto in avanti da alzare le piume del collo, aprendo il duro becco e scuro per chiuderlo immediatamente abbastanza forte da farle sentire un colpo d’aria calda sulla schiena. Con la testa a guardarsi oltre la spalla, mirò quell’essere mai così vicino prima d’ora, che per lei era sempre stato un’ombra da evitare secondo il consiglio delle anziane. Ebbe un moto nel cuore e affossò la testa sul torace, girando di centoottanta gradi, non perchè potesse difendersi ma per l’irrazionale istinto di poter essere meno vulnerabile se aveva il nemico innanzi a sé. Studiandoselo meglio aveva un aspetto ancora più spaventoso di quanto descrittogli, specie con un aspetto tanto vivo, con le semichiuse e spettinate ai lati del corpo, le palpebre degli occhi sgranate e rugose, a scoprire delle scintille rosse, quasi magenta e soprattutto una bocca fetidica, scoperta da quel portale in ranfoteca, che metteva in mostra le sue interiore mollicce di una lingua ruvida che non smetteva più di tremolare che dava su una gola di muscoli biancastri in continuo movimento compressorio e fu lì, appicicata al palato, che la vide. La zampa recisa nella deglutazione dell’ape di poco fa, così fresca da sembrare di poter scalciare. Fu la visione di pochi secondi. Il gruccione, continuando a sbattere il muso da ogni parte, aveva capito di non potere sgusciare abbastanza in profondità da entrare, fermandosi con abbastanza centimetri da lei. Richiuse il becco, si guardò deluso in giro, sbuffò e si tirò indietro, dopo aver riempito l’intero anfratto del suo alito, sbloccando l’ingresso alla luce del mattino.

    “Sia lodata” Si ricordò di respirare, mentre osservava la bestia passare gli artigli sul terreno, sollevando un polverone, e volare via, generando una tale corrente dentro la spelonca da farle perdere la presa dal soffitto. Prefigurando di sbattere sulla roccia, fu abbastanza sorpresa di cadere sullo stesso morbido materiale a cui si era tenuta aggrappata. Non aveva mai sentito di nuvole dentro le caverne, ma se per questo neppure di api che aiutavano le vespe. Si rimise in piedi abbastanza a fatica dato il terreno non proprio stabile. Appendirvici come liane era facile, ma da calpestare era come fare pressione su delle molle. Quando credeva di essere riuscita a issarsi, ecco che distribuì troppo peso in avanti e la nuvola si era piegata sotto di lei, facendola piombare di faccia. Non si fece male a contatto con il terreno, infatti il suo viso passò attraverso i suoi filamenti, fino a bloccarsi a livello delle spalle, troppo larghe per la rete. Scosse il capo e tendette le antenne. Non convinta, stirando il collo, riuscì a raggiungere uno dei verdi filamenti più vicini e dargli un morso. Muschio, constatò sputando immediatamente dopo. Provò ad alzarsi una prima volta, ma finì solo per fare la verticale. Ritentò, abbassando l’addome che andava arricciando, per spingere indietro piuttosto che verso l’alto, solo per sentirsi gli angoli del suo capo bloccati dalla matassa di piante legate troppo strette, per quanto flessibili. Il suo viso a punta aveva facilitato l’incastro, ma la sua nuca piatta non le permetteva di liberarsi. “E mi sta pure venendo sete”, si disse.

    Proprio allora, riposando fra uno sforzo e l’altro, bastò il rumore di una goccia che casca in una pozzanghera a soverchiare il lontano indugiare del mare sulla spiaggia. Drizzò ogni suo muscolo. Quel muschio non poteva essere nato dal nulla. Assetata moltiplicò i sui sforzi, ma finì solo per sentirsi decapitare a forza di tirare contro quelle funi. Camminò intorno per trovare una sistemazione più favorevole ma fece solo un giro con perno la testa. Provò a mettersi di profilo per slittare tra le funi, ma si sentì quasi strappare antenne, troppo protendenti. Avrebbe potuto provare a strappare quei filamenti a morsi, ma in tutto quel movimento si era solo intrappolata ancora di più nella matassa e non poteva più sollevare le mandibole verso un legame che un altro lo tratteneva. Prese a maledirsi per la sua avventatezza. Da quanto tempo si trovava in questa situazione? Trenta secondi? Che ritardo, disperò mentre lottava per togliersi un legaccio di muschio che le stringeva un’antenna alla fronte che già un altro gli passava sopra l’ocello, mentre un altro ancora le si era attorcigliato sugli gnatiti, chiudendole la bocca in un sapore d’alga. Cominciava a farle male il collo dall’angolo retto che era costretto ad assumere. Ponderò sulle sue possibilità, ma non le veniva in mente nulla. Possibile che fosse appena scappata ad un gruccione solo per finire vittima di un maledetto strato di muschio? Riuscì con uno strattone a divincolare almeno le antenne, doloranti da quella stretta. Con movimenti palpitanti e lenti di queste ultime, scansionò il circondario. L’infiltrazione continuava a battere il suo tamburello di scherno goccia dopo goccia, a pochi passi ma irraggiungibile per la sua ligula. Ma ecco un altro rumore, la camminata di sei zampe leggerissime, le giungeva. L’individuo non creava rumore eccetto nello strappare le unghie dal muschio sul quale poggiava senza sforzo. Il rumore era troppo indistinto da poter riconoscere che razza di animale fosse e avrebbe dovuto passarsi le stregghie sui suoi flagelli per acuirli, ma preferì usare i suoi tarsi per moltiplicare i suoi sforzi di liberarsi da quella maglia troppo flessibile per spezzarsi. L’oggetto era più vicino dell’acqua. Cosa poteva vivere in quella spelonca bagnata? Un gerride forse uscito dallo stagnetto non sarebbe stato un problema in un contesto normale: aveva sentito dire che fossero piuttosto leggeri e poco armati, ma questo non era un contesto normale e l’avrebbe sopraffatta così com’era sistemata. Sfoderò il pungiglione inquieta, ma come avrebbe potuto pungere un gerride se neanche riusciva ad alzare la testa dalla sua buca d’intrecci? Peggio ancora se si trattava di qualcosa di più pesante, come uno scarabeo, allora non ci sarebbe stato nulla da fare neanche se fosse stata libera se non fuggire. Provò quantomeno a dargli le spalle, mostrando il fondo dell’addome da cui fuoriusciva a battiti accellerati l’arpione velenoso. Era il massimo che poteva fare. Nella fretta mise nuovamente male il peso, avvicinando troppo le zampe l’una all’altre sei per alzare meglio la sua unica arma, con il risultato di concentrare il peso abbastanza da far sprofondare anch’esse e, prima che se ne rendesse conto, nel movimento scoordinato di issarsi alle funi vegetali per risalire, si erano ingarbugliate nelle stesse. Per la prima volta nella sua giovane vita, un’area del suo cervello, finora rimasta inutilizzata, cominciò a dosare adrenalina nella sua emolinfa, destandola dal suo torpore mentale di impassibilità all'ineluttabile natura. Se prima il dibattere del cuore era un riflesso incondizionato del suo corpo al pericolo, ora era la cosciente risposta all’angoscia di morire che le tagliava il respiro.

    “Indietro!” Inalò e provò a gridare a chiunque le si avvicinasse la peggiore delle minacce, con la voce rotta, sapendo di non poter essere compresa,  “Sono una vespa!”

    “Anch’io” Replicò una voce agrodolce di tono ed età alle sue spalle. Che miracolo, sospirò la giovane, sentendo svanire quel terrore per l’ignoto che l’attanagliava e lasciandosi andare, senza più lottare contro i suoi legacci. Questa salvatrice le giunse accanto, posandole un tarso fra le ali per reggersi meglio e si genoflesse. Presto potè percepire delle mandibole, più grandi delle sue, lavorarle intorno una zampa, fino a sciogliere, con un sentito taglio, il muschio, per poi spostarsi e lavorare alla successiva. Cominciò a conversare, fra una lacerazione e l’altra, parlando come se non avesse interlocutori al di fuori di sè. “Hai un nome”.

Non capendo bene se fosse una domanda, replicò imbarazzata, data la loro disposizione.

“Cinquantasette Quarti”, disse mentre scuoteva con cautela la gamba liberata per paura di incastrarla di nuovo.

“È un nome curioso” Osservò l’altra, finendo di districare la seconda, pulendosi la bocca.

“A me sembra chiaro” Obiettò, con voce sinceramente sorpresa “Sono la cinquantasettesima vespa nata nella quarta generazione di quest’anno”.

“Oh” Sospese un momento il lavoro quella più attardata “Quindi sei una di quelle vespe”.

“Che vuoi dire?” Cercò di voltarsi Cinquantasette Quarti, solo per rimanere invischiata in funi ancora non rimosse, limitandosi a parlare ancora una volta al pavimento dell’anfratto sottostante lo strato di muschio. “Tu non sei come me?”.

“Affatto” Si fermò per strappare il terzo blocco e riprese, camminandole sopra la schiena per giungere dall’altro fianco. La giovane trattenne una risata a sentirsi lisciare il dorso dalle sue setole fini “Stavo giust'ora allargando il nido”.

“Oh!” S’illuminò nel buio umido della pianta l’operaia, stringendo dalla sorpresa le zampe libere su sè stesse e arricciando l’addome. “Non c'è da stupirsi se hai mandibole così forti allora. Anch'io stavo per diventare un'impastatrice cartonaia, ma hanno detto che sono troppo lenta a lavorare il legno e come vedi non sarei mai riuscita a uscire da quest'impiccio non fosse stato per te. Dimmi, è curioso trovarti qua sotto però, è già tanto che io sia giunta fin qui. Oh, forse ho capito, ti serviva dell'acqua da collante, vero? Ero certa di avere fatto una bella scoperta a trovare questa infiltrazione e invece vedo che già tu...”

“Per favore, risparmia parole e movimenti, ti stai annodando nel filo che ho sciolto” La rimbrottò senza rabbia nella voce la grossa vespa. “Chiamami Sappho”.

“Sappho?” Non riuscì a trattenersi Cinquantasette Quarti, per poi scuotere la testa in disapprovazione di sè stessa, mordendosi la ligula al non essere riuscita a rispettare un'ordine appena datogli. "A me questo sembra un nome curioso".

"Non mi è stato dato, me lo sono scelto".

"Scelto?" Rizzò il capo dalla sorpresa solo per essere sbattuta giù di nuovo con forza elastica "Non sapevo che la vostra casta avesse questa libertà".

"Non è un diritto della mia casta, chiunque può farlo".

"Davvero?" Cinquantasette Quarti roteò i sensori flagellati, ma ancora non sentiva ormoni conosciuti. E dire che di muratrici ne aveva incontrate, ma questa era tutta particolare, non solo nel discorrere. Se solo avesse potuto vederla in faccia! Invece poteva solo basarsi sulla sensazione di quel tarso posatole sul dorso, lieve ma inamovibile nella morsa di arolio e pulvilli chiusi sottovuoto. Ogni tanto le sfioravano il fianco due mandibole spesse come ossa rinsecchite, preavviso di una grossezza che tradiva quel leggero movimento. Forse è una regina, rimuginò. Aveva sentito, per voci di corridoio, che fosse appena stata prodotta una nuova madre per poter dividere l'alveare sovrappopolato, ma non sapeva fosse già uscita dallo stadio larvale. Certo, certe cose rimanevano nello stretto cerchio della sua corte fino al volo nuziale e in tal caso, se aveva incontrato chi pensava che fosse, aveva fatto proprio una bella figura a osare discutere con una regina. Le avrebbe evitato così tanto timore riuscire a capire con chi stesse parlando. Tutto quel che sapeva era che si trattava di una vespa, ma era poi vero? Dopotutto aveva solo la sua parola come prova. Ma che assurdità, se non fosse stata una vespa come avrebbero potuto comunicare altrimenti? Inoltre, avesse voluto farle del male, perché liberarla e non approfittarne? Eppure, quella prova di sincerità nelle intenzioni, non acquietava la sua preoccupazione per quegli ormoni così strani. Inoltre, il ridicolo di essersi infilata in una tale condizione per la sua goffaggine, era quasi peggio dell’idea che ne sarebbe lentamente morta sola e lontana da casa, non fosse passato qualcuno a salvarla. Senza contare poi la colpa più grave di tutte. Erano passati quasi sei  minuti e ancora il suo viaggio di ritorno non era concluso. Che ritardo, si diceva, che ritardo per il vespaio.

“Fatto” Esclamò la voce e, senza che se ne fosse accorta, tutti i suoi arti da esapoda erano ora liberi. Provò a issarsi in piedi, ma il tarso di Sappho spinse contro i suoi sforzi, facilmente abbassandola di nuovo al suolo. “Ancora no”, fu quel che bisbigliò prima di abbassarsi a lavorare sul nodo che le stringeva il volto.

Ecco, si era abbassata al suo cono di visione con una testa piuttosto ingombrante, ma decisamente triangolare come la sua, ma era talmente buio sotto il muschio che i dettagli del viso andavano persi in quell’ombra marcia. Le sue mandibole, ancora chiuse, non completavano la forma geometrica del volto, anzi, protendevano in lame molto seghettate, mentre le sue antenne, sollevate in verticale fuori dall’intrico, uscivano dalla sua visuale tanto erano lunghe. Aprì la bocca, si avvicinò alle lenti dei suoi occhi e la richiuse con uno scatto che fendette l’aria nel generare un rumore di forbici. Invece che tagliarle il bulbo oculare, quelle sciabole si chiusero sopra la corda fibrosa che le attraversava la fronte e copriva l’ocello. Passò poi, con similare avventatezza nell’usare quelle mandibole, a strapparle di dosso ogni restante filamento. Al passaggio di quei coltelli, Cinquantasette Quarti considerò saggio chiudere ognuno dei suoi cinque condotti visivi e aspettare che fosse finita. L’ultimo schiocco giunse poco dopo.

“Ora puoi alzarti” Fu più lontana la voce di Sappho, già sollevatasi. Subito riaccese i suoi occhi composti e tentò di buttare la testa all’indietro così da rimetterla parallela al corpo, ma una fitta di dolore al collo glielo impedì e gemette. Tornò in piedi, a capo chino, con il volto segnato da quella morsa e ancora dolorante da quella innaturale posizione che era stata costretta ad assumere. Senza essersi spostata, la voce riprese. “Tutto bene?”

“Solo un po’ di torcicollo” Rispose mugugnando, guardando la buca nel muschio in cui poggiava, scavata da chi le stava di fronte. “Conosci un rimedio?”

“Potrei provare a scrocchiartelo a posto”.

“Aspettare che sparisca sembra un’ottima idea” Con fatica riuscì a sollevare lo sguardo da terra. Di fronte a sé si parò l’alta figura della sua salvatrice, grossomodo delle dimensioni che si era immaginata, ma nondimeno sorprendenti, frapposta fra lei e l’entrata, così abbacinante, seppure alle prime luci del mattino, ai suoi occhi finora forzati al buio del sottostrato, tanto che, per contrasto, Sappho le sembrava nera come inchiostro. Ma è solo la silhouette, si diceva, scuotendo la testa per togliersi i frammenti di verde dal viso. Tornò a osservarla, ma all’infuori di sfumature arance alle estremità del corpo, non vide il manto caratteristico della sua razza. Anzi, parlando di manto, le peculiarità crescevano, considerando che, pur in contrasto con il sole, neanche un minimo di peluria appariva a fargli da aurea bianca sulla sua cheratina dai riflessi di ceramica. Quelle antenne, così lunghe come aveva già visto, erano ancora più lunghe viste per intero e proiettavano un’ombra, sul suo viso, ipnotica nella forma incurvata che avevano sul finire i flagelli, quasi a formare due cerchi, in maniera che non aveva visto neppure coronare le più bizzarre falene.

“Beh, neppure un grazie?” Chiese quella, voltandosi un poco per osservarla meglio coi suoi occhi laterali. Così facendo, scoprì un profilo ben riconoscibile nel suo vitino lungo e sottile a terminare in una goccia d’addome. Quelle lunghe, opache ali rossicce lasciavano traslare una luce di sangue a coprirla. Dove gli ormoni erano illeggibili, le proporzioni rievocavano la base dell’apprendistato larvale delle nutrici.

“Sei una vasaia!” Strepitò e subito si alzò in volo, salendo verticalmente. Da quell’altezza aveva ancora di più l’aspetto di una grossa formica piuttosto che una vespa. Gli erano state riferite molte cose terribili sulle vasaie, ma non che fossero delle ottime volatili in ambienti stretti. Difatti non la seguì. Sappho levò gli occhi al soffitto, dove Cinquantasette Quarti si era appena aggrappata, ciondolando appena le antenne con fare svogliato.

“Sì” Ammise, abbassando la lunga coda svilita “Ma non avere paura”.

“Parli così perché vuoi che scenda” Insistè la più piccola “Ma non fido. Mi hai già mentito dicendo di essere una vespa, ma so come siete in realtà”.

“E come siamo?” Si strofinò le zampe frontali, inclinando il capo.

“So che le vostre larve sono carnivore” Cercò di ripassare a memoria ogni avvertimento delle nutrici “E che paralizzate altri animali da trascinare ai vostri nidi per sfamarle”.

“Non fate così anche voi?” Si toccò la guancia Sappho.

“Sì, ma non è una questione di morale, è che non voglio fare la stessa fine” E detto questo scattò verso l’uscita con un sonoro ronzio da riecheggiare nell’intero anfratto da quanto si sforzava a filare. Era vero che le vasaie non si muovevano bene, con la loro aerodinamica, in spazi angusti come quello, ma appena uscite sarebbe stata tutta un’altra faccenda. Si diceva che fosse impossibile seminarle, quindi era meglio mettere più vantaggio possibile fra loro e sperare che si trattasse di un'esagerazione. Nel mentre sorvolava rapidamente la sconosciuta, lasciandosela alle spalle, avvertì però il sentore di una vecchia conoscenza. Possibile che non se ne fosse andato? Rallentò la sua fuga, indugiando all’uscita, giusto in tempo per vedere saettarle davanti, rovesciato, il collo arruffato di un rettile in affondo. Quel lampo azzurrino calava la testa dalla cima del masso sotto il quale si era rifugiata. Era stato lì tutto il tempo. I gruccioni erano animali così pazienti, osservò, mentre quel becco semichiuso sferzava l’aria come la punta di un arpione; dopotutto, uno di loro, poteva vivere la vita di dieci delle loro regine. Non poteva fermarsi in tempo, allora virò, nella speranza di essere più veloce. Evitò il becco, che le sibilò accanto, ma rasentò il piumaggio bianco del muso con le zampe, generando così tanto calore in quel breve attrito, fino a inciampare, con tutto il femore, sul sopracciglio sporgente, sollevato in una smorfia di cieca fame. Da lì non potè più fare affidamento agli occhi, perché la vista divenne una cascata: Prima saliva il marroncino della cresta d’uccello, ci affondava col muso, risaliva, il pesca del cielo, il verde del mare, il terreno ingiallito e via di nuovo. Quel caprioleggiare durò un infinitesimo che si protrasse troppo a lungo. Quando, con grande rinculo, riuscì a piantare le proprie setole a qualcosa, subito venne attirata verso il basso. Poteva sentire un cuore battere. Poteva vedere la nuca del gruccione e a destra la sua coda. Era finita sul fianco dell’animale, ora sceso in posizione eretta a terra. Prima di poter registrare altro, la gravità si fece più pesante per poi invertirsi tanto improvvisamente da strappare quasi ogni sua zampa dalle penne cui si era aggrappata. Queste ultime si erano allontanate dal fianco dove erano foderate. Il gruccione aveva dipanato le ali nella più completa confusione. I suoi occhi rossi cominciarono a scansionare l’ambiente frenetici dopo così tanta attesa. Con ancora la testa che le girava, vide quei bulbi a palla smettere di vagare e puntare su di lei, stringendosi. Il rapace ansimò quanto la sua preda, immobile, alzando appena le piume della cresta, come a prendere per bene la mira. A malapena reggendosi sul margine superiore dell’ala sinistra, Cinquantasette Quarti realizzò che stava letteralmente guardando la sua morte in faccia. Il suo cuore riprese a mancare dei battiti. Quell’istinto di prima riaffiorò. Il gruccione reclinò la testa e parte del busto in una torsione innaturale, mentre avvicinava simultaneamente l’ala alle sue fauci prive di denti. Senza il tempo di scaldare le ali per volare, la vespa mollò la presa lasciandosi cadere. Vedette appena il becco chiudersi sull’ala stessa, prima di agitare abbastanza i muscoli per ronzare via. Non fece in tempo a percorrere dieci centimetri che della pelle squamata di chiaro si alzò a colpirle il ventre dal basso e tagliarle il respiro. Vide il cielo allontanarsi, sentì il duro terriccio rinsecchito farle da letto e un sabbione penetrargli i polmoni, sollevato dalla stessa zampa artigliata che nel suo scalciare furioso l’aveva sbattuta al suolo. Ancora occupata a contare le nuvole, una d’arcobaleno e ben appuntita piombò su di lei con due occhi tanto sfavillanti da lasciare una scia al passaggio. Un colpo di reni, se così possiamo dire per un insetto, e riuscì a rotolare su un fianco, l’istante prima che il terreno dove stava esplodesse in zollette di sabbia. Rimessasi in piedi lo vide. L’occhio, nel suo cerchio perfetto, era tanto vicino da specchiare i suoi, che a loro volta andavano a incorniciarlo e s’aprì in quella pausa un varco sull’infinito, la stessa durata di quell’attimo. Dacché era inchiodato a terra, il becco si disincastrò diagonalmente verso di lei, cogliendola nel mezzo di un tentativo di fuga in volo. Evitò il morso, ma finì colpita in pieno da quel manrovescio, stringendosi nello schock a quel materiale così freddo e scheggiato. Il gruccione alzò la testa, disturbato dall’avere un insetto afferrarsi alle sue narici, e di scatto, con un trillo rimbombante, lanciò via quel fastidio verso l’alto. In quel momento, sospesa a mezz’aria e paonazza, Cinquantasette Quarti realizzò di non poter più andare avanti così, ed erano passati solo dieci secondi da quando aveva messo piede fuori dalla spelonca. Forse avrebbe potuto trovare un nascondiglio sotto cui riposare, ma dove? Non aveva il tempo di cercarne nessuno. Conosceva quale fosse l’unica azione che l’avrebbe salvata dal gruccione ma davvero doveva tornare lì? L’uccello fece un salto. Con una spinta in avanti evitò un altro morso e per poco gli finì sul capo. Tanto peggio. Estrasse l’arma e inoculò il proprio veleno sulla fronte verdognola del gigante piumato. Non restò a vedere il risultato che, usando la stessa come piattaforma, balzò verso il masso e scivolò nuovamente lì sotto, al freddo e il buio, ma al sicuro. Si agganciò al soffitto e rilassò ogni muscolo di colpo, rimanendo appesa a peso morto. Fuori, il gruccione sbatteva i suoi speroni dal dolore in versi infernali. Dentro, la vasaia parve osservarla con aspetto sornione dal basso.

“Quindi hai scelto il male minore”.

“Oh, sia lodata” Mormorò, rendendosi conto solo ora che si distendeva quanto ogni fibra del suo corpo le facesse male per quelle botte. Non doveva però apparire troppo malconcia agli occhi di quell’altro animale, dunque agitò il pungiglione insanguinato. “Ora sono bloccata con te, ma ti avviso che ho ancora del veleno”.

“Tienilo per te. Avessi voluto paralizzarti e trascinarti al nido lo avrei già fatto quando ne avevo l’occasione”.

“E perché mi hai aiutato?”

“Perché non ho ancora deposto le mie larve, sciocchina” Esclamò con naturalezza Sappho, dirigendosi verso il cuore dell’anfratto senza alcuna difficoltà a pestare il tappeto di muschio. Fuori, l’ombra del gruccione smise di ballare e riprese il volo, certo non troppo lontano. La vasaia sparve nel buio.

“Aspetta, ho ancora delle domande” E subito dietro venne Cinquantasette Quarti, ancora galvanizzata dal pericolo per poterlo riconoscere. Avanzò sempre a testa in giù, insicura di atterrare nuovamente. Quel buco andava piuttosto in profondità. Riuscì a raggiungere, correndo a fatica, la sua camminata “Tanto per cominciare non mi hai ancora risposto”.

“Come?” Chiese senza sollevare il capo.

“Hai detto perché non mi hai uccisa, non perché tu mi abbia aiutata”.

“Ti stai lamentando?”

“Dico solo che è strano” Camminò in tondo la vespa “Ci hanno sempre detto di starvi lontano”.

“Saggio consiglio” Annuì Sappho “Ma oggi mi sentivo di buon’umore”.

“E quindi?”

“Quindi non mi pesava aiutare qualcuna che ho visto in difficoltà”.

“Perché?”

“Perché mi facevi pena” La guardò negli occhi.

“Pena…” Biascicò confusa Cinquantasette Quarti. La pena le era comprensibile fintanto si finalizzava il discorso al bene del vespaio. Aiutare un’operaia a trasportare un pesante carico, assalire chi predava una sua compagna, trasportare ferite al sicuro, era tutto un sacrificio per la comunità che portava via tempo alla sua tabella di marcia. Ma aiutare qualcuno che non fosse del proprio alveare? Sarebbe stato un sacrificio che non avrebbe contribuito ad alcun miglioramento nella vita della sua gente. Scosse la testa “E che ti importa? Non sei una vespa!”

“Non hai mai provato pena per qualcosa al di fuori di una vespa?”

Stava per rispondere immediatamente, ma ci pensò meglio. Ritornò alla vista di quell’ala d’ape che svolazzava recisa e così l’arto amputato in bocca al gruccione.

“Forse”.

   
 
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