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Autore: Nadine_Rose    02/02/2022    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
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Nella foto, dal set del film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah e Matteo in luna di miele a Ischia.

 

Capitolo 55

 

Parlarsi

 

“L’amore è un gesto di disarmo. Esso ci impone sempre di parlare la lingua dell’altro, di imparare un’altra lingua, una lingua differente dalla nostra. L’amore non è mai amore per l’eguale ma per il prossimo in quanto figura dell’alterità.

[…] Quando dichiaro l’amore a qualcuno, quando dico «ti amo», dichiaro di amare nell’altro proprio quello che non so capire, che mi sfugge, il segreto inaccessibile della sua vita. Per questo si ama innanzitutto la libertà dell’altro. È la meraviglia dell’amore: amare l’assoluta libertà della lingua dell’altro.”

Massimo Recalcati

 

Il signor Gennaro entrò per primo in casa, palesando il suo malumore con un’andatura spedita e, al contempo, pesante. Di colpo, frenò i suoi passi dinanzi al tavolo di una cucina impeccabilmente in ordine, a dimostrazione della condotta irreprensibile di Sarah, nonostante il trattamento ricevuto. E fu proprio nell’osservare il vaso con i fiori freschi di calendula dalle sfumature gialle e arancioni posizionato al centro della tavola su un candido centrino ricamato che la sua irritazione accrebbe, ancor prima che Matteo aprisse la bocca.

“Se siete venuto a dirmi che ho sbagliato, potete anche risparmiarvelo”, gli disse, mentre udiva i battiti sempre più accelerati del proprio cuore fondersi con un intercalare arrogante che lui stesso non avrebbe mai e poi mai pensato potesse appartenergli, soprattutto nei confronti di una persona estranea e matura.

Si volse prontamente il signor Gennaro e, mentre il sopracciglio gli s’inarcava in un’espressione sorpresa e irata, dovette trattenersi dal dargli uno schiaffo, ben sapendo che tal gesto istintivo avrebbe potuto compromettere l’efficacia della sua paternale. Lo lasciò quindi parlare.

“Perché lo so già”, proseguì Matteo, pronto a sfogarsi, ma senza scendere nei particolari, “ma voi non sapete che cosa devo sopportare ogni giorno con Sarah!”

Si riferiva alla mancanza di sentirsi da lei amato, voluto e benvoluto, all’umiliazione di sentirsi secondo rispetto a quel nazista, ma fu un azzardo, poiché l’altro, non potendo giustamente immaginarlo, lo colpì con dure parole. In egual modo dettate da un istinto di rabbia, ad esse lo schiaffo sarebbe stato di gran lunga preferibile.

“Che cosa devi sopportare ogni giorno con Sarah, eh? Sentiamo!” Il signor Gennaro non riuscì più a contenersi e sfogò il proprio risentimento in un crescendo di tono, finché le parole non divennero offensive. “Che è una buona moglie e una gran lavoratrice? Che contribuisce al sostentamento economico della famiglia? Che ha venduto i suoi beni per comprare ’sta casa ca’ te mantene linda e pinta e chella barca ppe fatte fa’ ’o padrone?[1]

Puntò energicamente l’indice verso la finestra, pur se, da lì, la barca non fosse visibile, per poi indirizzarlo accusatore contro Matteo che restava impietrito, con gli occhi stralunati e umidi, nel sentirsi rinfacciare ciò che, a Sarah, non aveva mai chiesto.

“Se non era per lei, avevi voglia di restare alle dipendenze del compare e chissà fra quanto vi sareste sposati”, proseguì Gennaro, in procinto di assestargli un colpo ancor più duro del quale si sarebbe presto pentito, “solo per questo l’avissa tenere accussì a chella guagliona.[2]” Stese una mano con il palmo rivolto all’insù. “Perciò, sta’ attento quando parli di Sarah, pecché nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno[3]”, incalzò, puntandogli di nuovo il dito contro, “e bada bene a come la tratti e che non si ripresenti mai più al lavoro con la faccia impiastricciata di trucco per nascondere un tuo livido.”

«Nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Le parole gli echeggiarono lentamente, cupamente nella testa, schiacciandolo ad ogni sillaba scandita. Umiliato, ferito in quell’orgoglio maschile già abbastanza compromesso, Matteo non controbatté né si mosse di un millimetro. Soltanto s’intensificò il luccichio nei suoi occhi e, di colpo, impallidì in viso.

«Nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Eran le lapidarie parole di una società per la quale non valeva nulla, di un padre deluso, pentito di avergli affidato una figlia che non meritava, perché lui davvero «non aveva niente e non era nessuno». Pensò che finanche quell’altro – Hermann –, seppur nel male, fosse meglio di lui, avendo, difatti, salvato Sarah avvalendosi proprio del suo importante ruolo nella società di allora.

«Nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Con parole dure e sferzanti, più dolorose e umilianti di uno schiaffo in pieno viso, gli aveva strappato via la maschera dell’arroganza, rivelando il volto e gli affanni di un ragazzo vulnerabile qual era realmente. Gennaro capì di aver esagerato. Poggiò una mano sullo schienale della sedia accanto a sé e, mentre, chinandosi, esalava un sospiro di pentimento, un verso strozzato sfuggì dalla gola di Matteo.

Pianse e, tra i singhiozzi malamente trattenuti coprendo il viso con una mano, il signor Gennaro seppe cogliere, in parte, le ragioni del suo malanimo.

Sospirò di nuovo, stavolta più profondamente e riprese a parlargli con un tono pacato e comprensivo: “Immagino quanto possa essere difficile vivere accanto a una persona sopravvissuta. Sarah ha perso gli affetti più cari, ha sofferto l’arresto e la prigionia senza motivo, ha subito umiliazioni e privazioni, ha rischiato di essere deportata ad Auschwitz e di perdere la vita com’è accaduto alle migliaia di altri.”

La voce gli s’incrinò e tacque per contenere la propria commozione, dando a Matteo il tempo di ricomporsi. Questi portò la mano alla fronte, stringendo i capelli ricci fra le dita e tirandoli un po’, gesto col quale era solito esprimere il suo disagio. Si asciugò poi il viso con la manica della camicia beige stropicciata da vento e salsedine e, tirando su col naso, soffocò un ultimo singhiozzo.

“A volte, sembra estraniarsi dal presente, perché in passato ha vissuto un tempo sospeso”, proseguì il signor Gennaro, aggiungendo un’intonazione seria e apprensiva alla sua voce. “Devi saper comprenderla e per poterlo fare è necessario che vi parliate, sempre. Ma questo vale per tutte le coppie. Io e mia moglie stiamo insieme da oltre quarant’anni: sei figli maschi, due guerre mondiali, una gravidanza finita male, un locale da portare avanti e tante difficoltà che, se non ci fossimo parlati, non avremmo mai potuto superare. Tante volte abbiamo discusso, litigato e lo facciamo ancora, ma non siamo mai arrivati al punto dove siete voi dopo soli sei mesi di matrimonio.”

Sorrise per non piangere, mentre gli occhi scuri di Matteo deviavano nel vuoto.

Gennaro gli si fece più vicino e, ponendogli una mano sulla spalla, trattenne un sospiro, prima di avviarsi alla conclusione: “Ho sbagliato a parlarti in quel modo, ma Sarah è come una figlia per me e voglio che tu impari a controllare i tuoi istinti. Da questo si misura la vera forza di un uomo.”

“Su, coraggio!” Tal saluto, accompagnato da due pacche sulla spalla, destò Matteo dal suo immobilismo.

Rimasto da solo, si volse di lato e indirizzò lo sguardo inumidito dalle lacrime verso la camera da letto, mentre udiva i passi del signor Gennaro allontanarsi e la porta di casa aprirsi per poi richiudersi. E fu subito sera.

Vide Sarah di profilo, seduta ai piedi del letto, ripiegata su se stessa, con indosso la sua lunga vestaglia di seta bianca dalle maniche larghe che, apertasi sul fianco, le lasciava una gamba scoperta e si avvicinò all’uscio della stanza.

Non si era scomposta Sarah al rumore della porta d’ingresso che s’apriva e si richiudeva, ma, quando i passi lenti e strascicati di Matteo si fermarono sulla soglia della camera da letto, non poté che sollevare il capo e rivolgere a lui lo sguardo.

Negli occhi color miele le rilucevano le lacrime trattenute e sulla guancia impallidita si presentava il livido a rinfacciargli l’errore. Che cosa le aveva fatto?

 

“Abbiamo già un vissuto che, a dire il vero,

somiglia più ad un conflitto.

Il cuore spesso offeso da un dito che

tu mi hai puntato al petto.

Se gli occhi non riescono

a raccontarti ciò che vedi,

proverò io a dirtelo,

perché all’evidenza non ci credi.”

 

Emma Marrone, Mi parli piano



[1]Che ha venduto i suoi beni per comprare questa casa che ti mantiene pulita e ordinata e quella barca per farti fare il datore di lavoro?

[2]Solo per questo la dovresti tenere così (tenere su un piedistallo) quella ragazza.

[3]Perché non hai niente e non sei nessuno.

   
 
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