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Autore: Dorabella27    03/02/2022    16 recensioni
Ho sempre immaginato come potesse essere stato il ritorno a casa di Oscar dopo il suo brusco congedo da Bernard, liberato e scortato per un tratto del viaggio verso Parigi. Il gesto di Oscar, che si allontana al galoppo, con il capo chino sulla criniera del suo cavallo, mi ha sempre turbato e mi sono sempre chiesta che cosa sarebbe potuto accadere al suo rientro a Palazzo Jarjayes, e che cosa avrebbe mai potuto provare e pensare...Perché gli episodi incentrati sulla caccia al Cavaliere Nero sono tutt'altro che un mero excursus di cappa e spada. Buona lettura a tutti!
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Bernard Chatelet, Generale Jarjayes, Marron Glacé, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ritorno a casa
 
 “Grazie, Oscar: non avrei mai creduto che mi avresti lasciato andare”. Il tono del ragazzo nella carrozza era quieto, quasi dimesso, con una nota di incredulità. Come le era sembrato fragile, dopo due settimane di convalescenza passate ferito a letto, quando l’aveva aiutato, lei sola, a salire sulla carrozza che lo avrebbe accompagnato a Parigi: nulla a che vedere con la baldanza e la sicumera del ladro che lei e André avevano inseguito per tante notti.
“Ascolta: non devi ringraziare me, ma André”, aveva risposto lei, gelida e impettita sul suo cavallo, guardando davanti a sé, senza degnare di uno sguardo la faccia stupita di Bernard Châtelet, giornalista, amico di Robespierre, ammiratore dei philosophes, e, nelle sue sortite notturne, ladro di gioielli nei palazzi dei nobili.
“Come, André?”, aveva chiesto stupito quello.
"E se permetti, credo che sia il caso di dire che ha dimostrato di essere più uomo lui del Cavaliere Nero”, aveva aggiunto brusca lei, dando di sprone al cavallo, e correndo via, in senso opposto, il capo chino, affondato nella criniera.
Arrivò a Palazzo che era già sera, e che di quello spettacolare tramonto di fine inverno non restava più nulla; solo, il vento ghiacciato di una serata che prometteva di essere gelida e limpida.
Sentiva le guance in fiamme, nonostante la tramontana che le sferzava la faccia, e, sotto l’uniforme, sotto le decorazioni e i gradi militari, un senso di seccume ghiacciato che era come una morsa attorno al cuore.
“Respira, respira”, si diceva mentre affidava il cavallo, senza una parola, a uno degli stallieri (E André? Dov’era André? Ma certo, era meglio che non ci fosse, non quella sera, non in quel momento: non per vederla così).
“Respira, respira; non metterti a piangere; non qui, non ora”, si ripeteva mentalmente, mentre le lacrime le pungevano gli occhi e il valletto all’ingresso si chinava cerimonioso al passaggio del giovane Colonnello Jarjayes, sempre col capo chino e l’espressione scura.
Voleva solo guadagnare velocemente la soglia dei suoi appartamenti, e non vedere nessuno, restare da sola, per quella notte, e forse anche per il giorno successivo: avrebbe mandato un messaggio a Versailles, dicendo che era indisposta, che aveva una infreddatura, che diamine!, qualsiasi scusa, per non vedere quelle bambole da esposizione marciare ordinate e compite mentre lei si sentiva la guerra dentro, e non trovava pace; sarebbe stata la prima volta, da che rivestiva quell’incarico, ma, maledizione!, dopo tanti anni, Girodel poteva egregiamente sostituirla, ormai a occhi chiusi.
Nel corridoio del piano nobile, che conduceva ai suoi appartamenti, già sentiva la prima lacrima inumidirle le ciglia; ma non poté evitare Nanny, che, mentre stava istruendo la nuova arrivata fra le cameriere,  - una ragazzina magra, dall’aria smunta e smarrita, con ciuffi rossi che spuntavano dalla cuffia e il visetto intento coperto di efelidi, le braccia cariche di una pigna di asciugamani di lino ricamati da distribuire nelle camere padronali -, l’aveva bloccata. “Oscar, bambina, ecco... hai per caso visto André? È tutto il pomeriggio che lo sto cercando, e anche adesso non so che cosa pensare ...con quell’occhio, poi!”.
“André sa quel che fa”, le uscì di bocca, un po’ troppo  seccamente; ma, del resto, doveva contenere le lacrime, che, alla menzione dell’occhio offeso, sembravano avere deciso di fare capolino, senza più attendere. N ella penombra, però, la povera vecchina non aveva visto gli occhi luccicanti di Oscar, ma, solo, era stata sferzata dal tono della risposta di lei; che forse, davvero, chiamarla “bambina”, ostentando l’antica confidenza affettuosa con quella donna alta e severa, e troppo spesso chiusa nei suoi silenzi orgogliosi, non era decoroso, ancorché in presenza dell’ultima arrivata fra le aiuto-guardarobiere.
Chinò la testa, la vecchia governante, in un sussulto di umiltà, e disse solo: “Certo, certo”. Intercettata la nota mortificata nella voce di lei, Oscar si addolcì e, la mano già sul pomo dorato della porta, continuò: “Vedrai, non tarderà molto che te lo troverai affamato in cucina”, abbozzando un sorriso che nanny poté solo immaginare, ma che indovinò dalla delicatezza del tono.
“Ma tu, Oscar, non hai cenato...?”, riuscì solo a chiedere, con quella sua scrupolosità affettuosa. “No, grazie, nanny: stasera non ho appetito”, rispose la voce di Oscar mentre chiudeva la porta dietro di sé:
Poi, una volta sola, si lasciò cadere supina sul letto, come tante altre volte, quando la stanchezza o lo sconforto la prendevano, e, il braccio destro piegato sugli occhi, iniziò a piangere.
Era un pianto incontenibile, il suo, intervallato da singhiozzi che le squassavano il petto e le impedivano a tratti di respirare; e in qualche istante aveva sperato che davvero quel respiro spezzato non tornasse più a farsi strada nei suoi polmoni, tanto potente era la marea dello sconforto da cui si sentiva vinta.
Ripensò alla furia che l’aveva colta, quando aveva udito il verdetto del Dottor Lassonne, che l’occhio di André era perduto, che la vista non sarebbe tornata mai più.
Mai più.
Mai più: qualcosa di definitivo, forse per la prima volta, in quella sua esistenza sempre uguale, con giornate sempre modellate sull’eterno, identico modello, che fosse estate o inverno, che avesse quattordici, venti o trent’anni.
Che tutto ogni mattina ricominciasse esattamente come il giorno, il mese, l’anno, il decennio prima, era in fondo così rassicurante, come un mantello caldo sotto cui rifugiarsi, come un tappeto sotto cui nascondere tutta la polvere, lo sporco, il sudiciume, tutto quello che non si doveva vedere, che non si doveva nominare, che non si doveva dire. Ma adesso tutto si era incrinato, spezzato: per colpa del Cavaliere Nero, per colpa di quel fendente che aveva massacrato l’occhio sinistro di André, e per colpa sua, solo per colpa sua.
Lei, quando André aveva deciso di vestire i panni del cavaliere Nero, non l’aveva fermato, ingolosita e accecata, lei, dalla bramosia di mettere le mani a ogni costo su quel ladro di gioielli, e ingolosita e accecata dalla somiglianza di André con quel fuorilegge, una somiglianza che l’avrebbe provocato e fatto uscire di sicuro allo scoperto.
Per venire a salvare lei, André non si era attenuto ai dettami del medico
E lei, in quel duello, perché aveva esitato? Se fosse stata meno incerta, se avesse fatto fuoco prima su Bernard, lui non avrebbe ferito André-.
Era corsa, come una Erinni, di fronte al letto dove Bernard dormiva, inconsapevole e sereno, e brandendo la spada aveva detto:” “Adesso farò a te quello che tu hai fatto a André”.
Ma poi, aveva abbassato il braccio, avvilita, incredula.
Perché non avrebbe restituito così l’occhio sinistro ad André.
Perché la vigliacca era lei, che l’aveva lasciato esporsi al pericolo in quel modo, mentre invece avrebbe dovuto dire: no, non pensarci nemmneno, devo farlo io, è compito mio.
Perché era lei l’egoista, lei che, per acciuffare un volgare ladro, certo, ma un ladro che in fondo non faceva che rubare collane e bracciali e tabacchiere d’oro a chi ne possedeva interi forzieri, aveva fatto perdere l’occhio sinistro ad André
Perché il Colonnello Jarjayes ha una sola parola e non si ferma di fronte a niente, e pazienza se poi si mette nei guai, viene rapito, aggredito, coinvolto in agguati, se si attenta alla sua vita: perché tanto c’è sempre chi accorrerà in suo soccorso, mettendo a rischio la sua stessa vita, pagando, lui sì, sempre in prima persona.
Che premio aveva avuto André dopo che l’aveva salvata dalla caduta di quel pesante lampadario lungo le scale che a Versailles conducevano all’appartamento della Regina?
Lei aveva ricevuto un elogio ufficiale e una onoreficenza dal Re, quando aveva catturato Jeanne Valois: e André? Però se André non avesse rischiato la sua stessa vita per venire a salvarla, di lei non sarebbe rimasto che un mucchietto di ossa e di cenere, e magari qualche brandello della sua divisa, di cui era tanto fiera, superstite all’esplosione del convento di Saverne.
Adesso, adesso, invece, era tutto cambiato. Per sempre. Ogni volta che avesse guardato in faccia André, avrebbe visto, come in uno specchio, quello che era lei, come era lei.
Vigliacca.
Ostinata.
Egoista.
Colpevole.
Era colpa sua, solo colpa sua.  
Tutta e soltanto colpa sua.
E ogni volta che avesse posato i suoi occhi sull’occhio spento di André, si sarebbe ricordata le sue parole quel mattino, quando l’aveva colta in un momento di tranquillità, e, mentre lei gli voltava le spalle, le aveva fatto il discorso più folle che si possa immaginare, culminante nella proposta più dissennata che la sua logica ferrea, logica da miltare, logica da ufficiale, logica da gran signore, ma pur sempre da servo del suo re e della sua regina, avesse mai sentito:
“Senti, Oscar: mi resta sempre l’occhio destro: posso ancora vedere la luce del sole, le persone: sì, in fondo non è cambiato quasi niente nella mia vita”.
Lei non aveva detto nulla. Come sempre, taceva, ostinata, e sperava che non arrivassero le parole che temeva di sentire. E che invece erano arrivate, e sempre con quel tono tranquillo, pacato; il tono di chi è sempre, insopportabilmente, padrone di sé, capace di guardare oltre se stesso.
“Ascolta: sei davvero decisa  a consegnare alle autorità il Cavaliere Nero?”
“Cosa??”. Si era girata, di scatto. Irritata, quasi furiosa.
“Senti, Oscar: sono i poveri a morire di fame, non i nobili.
 La nobiltà non fa niente per i poveri., mentre lui ha fatto davvero molto per aiutarli; e deve continuare a farlo”.
C’era da diventare pazzi: non solo André non chiedeva vendetta, non solo non recriminava, ma  ... proponeva addirittura di lasciare libero quel ladro che l’aveva sfregiato e accecato.
“André, ma ti rendi conto di quello che dici?! Stai parlando in favore dell’uomo che ti ha privato dell’occhio sinistro!” Stringeva i pugni, adirata, minacciosa: perché quelle parole la mettevano di fronte a una realtà su cui non aveva mai posato lo sguardo prima, a qualcosa che aveva sempre avuto accanto a sé, e che non aveva mai saputo, o voluto, vedere.
Una pausa.
“E poi si tratta di un volgare ladro!”, aveva  aggiunto, come a suggellare la sua risposta, con un argomento definitivo, oggettivo, di quelli che non lasciano spazio a repliche, per chiudere la questione una volta per tutte. Non voleva più averlo in casa, quel Bernard Châtelet; non ci voleva più avere a che fare, con quel giornalista a mezzo servizio; non voleva più saperlo dietro la porta chiusa della camera da letto che dava sui roseti di sua madre; voleva saperlo lontano, nelle segrete della prigione del Tempio, e non pensarci più; perché quando il pensiero andava a lui, a quello che aveva fatto, per colpa sua, di lei e del suo forsennato orgoglio, si sentiva l’anima scorticata.
E invece.
E invece aveva insistito, André; con quella sua ostinazione tranquilla, con quella calma che le faceva sempre saltare i nervi, perché lo sapeva, Oscar, che, dopo la sfuriata, avrebbe fatto esattamente quello che voleva lui.
Ma non quella volta.
Non quella volta.
Non.
Quella.
Volta.
No.
Mai.
Lo sguardo di lui aveva tremolato appena, poi la palpebra ne aveva nascosto lo scintillìo, ma il sorriso triste che gli era nato sulle labbra sembrava illuminargli il viso oscurato dal ciuffo più ancora della luce smeraldina dello sguardo. E quando le aveva, a sua volta, girato le spalle per andarsene, aveva detto, la voce ridotta a un soffio triste di rassegnazione: “Allora scusami, Oscar. Mi ero dimenticato che lavoro per una famiglia nobile, e che voi certi discorsi non li capirete mai e poi mai”.
Parole quiete, ma così sferzanti.
Pochi passi verso la porta.
Pochi passi che li separavano come mai prima.
Poi, una sosta, e le ultime frasi, pronunciate prima di uscire, sempre dandole la schiena, con quelle spalle curve su cui sembrava gravare il peso di una fatica molto più antica delle nottate di veglia e di furti, di dolore e di convalescenza, un un congedo troppo intriso di tristezza per risultare davvero sferzante: “Devo ammetterlo, a volte sono proprio un illuso. Ti prego di scusarmi, Oscar”.
Quando la porta si era chiusa, si era guardata le mani: tremavano.
Non aveva avuto nemmeno il tempo per pensare nulla. Ancora scossa, con il sangue che le rombava nelle orecchie, era uscita a sua volta, sperando di non incontrare André.
Sarebbe uscita per una cavalcata, da sola.
E mentre scendeva lo scalone, l’aveva raggiunta la voce di suo padre, che stava varcando di slancio la soglia del grande atrio, e che gridava con un entusiasmo che non gli aveva mai sentito in nessuna altra occasione:
“Oscar, Oscar! Ho saputo che ci sei riuscito! Hai preso il Cavaliere Nero! Sono sicuro che tu avrai una promozione per quello che hai fatto!”
“Ecco, padre, io ... mi sono sbagliata. Non ho catturato il Cavaliere Nero, padre”. La risposta le era uscita di bocca di getto, irriflessa, senza che lei ci avesse pensato razionalmente, senza che ci avesse minimamente riflettuto. “Che cosa?”. Il tono del Generale era costernato.
“Ho catturato la persona sbagliata” . La sua voce cercava di mantenersi naturale, piatta. Lo sguardo, quello, era spento. Ma quando mai suo padre l’aveva guardata in viso, e aveva cercato di capire dai suoi occhi che cosa le si agitasse nell’animo?
“Ho fatto delle indagini su di lui e non sono emerse prove che lo accusino”, aveva continuato, con naturalezza, per dar forza alla menzogna. “Dobbiamo lasciarlo andare”.
Pochi convenevoli, e il Generale l’aveva congedata; era tornato freddo, sottilmente deluso, senza inutili preamboli. E l’aveva lasciata lì, sola, a metà della rampa dello scalone.
Si era morsa il labbro.
 Ed era risalita.
Lentamente, pensando a ogni passo che poteva comunque cambiare idea, che in fondo era ancora in tempo per girare i tacchi e fare quello che si era ripromessa e che era giusto fare, ovvero: assicurare Bernard Châtelet alla giustizia, farlo processare, imprigionare, via di lì; lo pensava, eppure sapeva, a ogni passo, che non l’avrebbe fatto.
“Vestiti e preparati”, gli aveva detto, brusca. E gli aveva spiegato che cosa avrebbe dovuto fare, per chiudere la questione una volta per tutte: restituire i fucili rubati, finirla con i furti, e poi sparire, sparire per sempre.
Adesso, sola nella sua stanza, sprofondata nel suo letto, piangeva.
Piangeva perché, ancora una volta, André aveva avuto ragione.
E perché era sempre stato migliore di lei, e lei lo aveva sempre saputo, ma non aveva  mai voluto ammetterlo, nemmeno con se stessa, men che meno di fronte ad altri. Stupida. E orgogliosa. Ma più ancora egoista.
Piangeva perché non l’aveva saputo proteggere: l’aveva esposto al rischio, senza pensarci troppo. E lui aveva pagato per colpe non sue. E non aveva recriminato; lui, André, non recriminava mai.
Era migliore di lei, e glielo aveva dimostrato. Quella volta, e sempre.
E lei non aveva mai imparato niente. Non lo aveva mai visto, aveva sempre dato per scontato che André fosse lì, due passi dietro di lei, sempre disponibile, sempre sorridente, sempre gentile, sempre disposto a fare tutto per lei, posto che lei glielo chiedesse, e a volte, anzi, senza che nemmeno lei avesse bisogno di formulare una richiesta esplicita: non sia mai che il Contino Jarjayes si affatichi o si umili nel chiedere, no: ci deve pensare il suo attendente: a stare sempre due passi dietro di lui, ma a prevenire ogni suo bisogno e desiderio.
Si ricordò come, da ragazzina, leggesse Seneca con passione, insieme con André: quando il filosofo raccomandava a Lucilio di trattare gli schiavi con umanità, citava un antico proverbio, secondo il quale un uomo aveva tanti nemici quanti erano i suoi schiavi.
In fondo, i nobili, quelli come lei, che cosa sapevano dei loro servitori?
Essi amavano o odiavano i loro padroni?
Che cosa provavano per loro?
Se avessero potuto danneggiarli, derubarli, e peggio, sapendo di restare impuniti, l’avrebbero fatto?
Forse. O forse no. Che ne sapeva, lei? Ma André, lui, era sempre stato diverso. Eppure lei l’aveva trattato poco meno che con la quieta indifferenza con cui un padrone romano trattava il suo schiavo, poco più di una cosa, se non che dotata di intelletto, raziocinio e parola.
“Dobbiamo catturare il Cavaliere Nero: ne va della mia reputazione e del mio prestigio. Oh, ma certo, come no: accomodati pure, André, rischia tu la vita in una missione da cui non ricaverai alcun vantaggio e alcun elogio”.
La prima volta che aveva letto quel passo di Seneca, l’aveva declamato ad alta voce, mentre André, seduto al tavolo accanto a lei, mordeva una mela, e Clothilde, di fronte a loro, ricamava, uno dei suoi ricami complicatissimi e minuziosissimi, su cui passava le ore, con puntigliosa dedizione. Oscar ricordava che la sorella aveva alzato le spalle, scettica: “Quante sciocchezze! Le mie cameriere mi adorano! Perché io do sempre loro la gratifica natalizia e distribuisco mele candite per la Toussaint, e il lunedì di Pasqua regalo loro i cestini per il pic-nic e le lascio libere!”. Poi si era rituffata nel suo ricamo, lo sguardo chino sui punti vezzosi e fitti in filo di seta color pastello, e non aveva colto lo sguardo imperscrutabile che Andrè le aveva scoccato, e che lei, Oscar, aveva invece intercettato.
André aveva ragione.
Aveva sempre avuto ragione.
Lei non aveva visto, non aveva mai voluto vedere.
Anche André. Non l’aveva mai guardato veramente.
Solo quando aveva indossato il travestimento da Cavaliere Nero aveva iniziato a vederlo. Buffo, no?
Con quel travestimento, André aveva dimostrato davvero chi era. Con una maschera, André aveva rivelato se stesso.
Lei aveva iniziato a vederlo, a vederlo davvero.
Lui, forse, non la vedeva più, o non la guardava più come quella sera, poche settimane prima, quando aveva sceso le scale con addosso quel vestito da sera sontuoso e bizzarro, superandolo, senza degnarlo di uno sguardo, in atteggiamento da gran signora che ha altro da fare che preoccuparsi di come la osservino i suoi servi, e intanto aveva il cuore preso da altri palpiti, ed preda anche di un sottile disagio..
E André avrebbe avuto anche tutte le ragioni, se non l’avesse più voluta vedere.
Ora, il senso di colpa per la perdita dell’occhio di André, e quello instillatole dalla sua proposta, quella che lei non aveva nemmeno lontanamente concepito, quella che può venire solo da un’anima che non conosce il livore o l’odio, e che sa guardare un po’ più lontano del suo naso, si sommavano al senso di colpa per tutto quel che non aveva visto, che non aveva fatto, che non aveva detto: e non erano forse i peggiori, i peccati di omissione?, pensò, mentre, scivolando nel sonno, le affioravano alla memoria lontani frustuli delle lezioni di catechismo dell’Abbé Armand.
Se esistevano la vera generosità, la vera grandezza d’animo, quel giorno ne aveva avuto la prova.
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Si svegliò all’improvviso, di colpo: qualcuno aveva bussato alla porta.
Tre colpi ravvicinati e uno più distanziato. Possibile che....?
Si alzò, intirizzita – si era addormentata piangendo, in camicia, in quella nottata invernale, senza coprirsi, senza una candela accanto, senza neppure accendere il camino  e  aprì la porta, rabbrividendo.
“Oscar, come stai? Posso fare qualcosa per te?”
Il volto gentile di André, illuminato dalla luce di una candela, le offriva il sorriso di sempre.
“Sto bene, André; perché me lo chiedi?”, rispose con voce atona.
E avrebbe voluto chiedergli: “E tu? Tu, come stai? Dove sei stato? Perché non ti ho trovato qui, vicino a me, quando sono tornata? Hai visto, che l’ho lasciato andare, il Cavaliere Nero?”. Ma, soprattutto, avrebbe voluto chiedergli: “E tu, potrai mai perdonarmi, un giorno?”, e altre domande che sentiva che ancora non riuscivano a prendere forma nella sua gola.
“La nonna mi ha detto che sei tornata a casa col buio, e ti sei ritirata in camera senza cenare. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere qualcosa di caldo”, e, dal vasto mobile di mogano che bordeggiava il corridoio, trasse un vassoio con un bricco, due tazze, una zuccheriera, e un piatto d'argento coperto dalla sua coupole, allegramente bombata, accanto al quale troneggiava una bottiglia di Bordeaux.
“Io non....”, stava per dire, quando notò la seconda tazza sul vassoio.
“Nemmeno io ho cenato, stasera”, disse André, con semplicità, mentre, una volta entrato, appoggiava il vassoio sul tavolo del salottino che faceva da anticamera alla stanza da letto, e accendeva i due candelabri con la sua candela”.

“Che buio qui dentro”, disse, con tono leggero. “E che freddo: aspetta, ora accendo il camino. Tu siedi qui”, e scostò una sedia per farla accomodare al tavolino che li aveva visti uno di fronte all’altra tante, tante volte.
“Accidenti, che freddo!", ripeté. E poi continuò: "Avevi per caso intenzione di congelarti?”, chiese, scherzoso. E intanto prese dal letto la coperta di casimiro azzurro e gliela posò sulle spalle.
“Non mangiarti tutto”, le raccomandò scherzosamente, mentre accendeva il fuoco “Lascia qualcosa anche a me: aspetta solo che la fiamma sia ben viva”.
E mentre lo osservava armeggiare al caminetto, Oscar pensò che, forse, non era finito niente.
Forse.
O forse, poteva cominciare qualcosa di diverso. Forse.
************************************************************************************************************* Si ringrazia per la fan art, Galla88, alias la mia personalissima Ifigenia.
Eh, sì, lo so: aspettavate l’aggiornamento di Pourquoi est-ce qu’on se déguise? Ma quando arriva una storia in un angolino della mente, non si può chiuderle la porta in faccia. O no?
 
 
   
 
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