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Autore: Gaia Bessie    07/02/2022    6 recensioni
Cantavi sempre, la domenica, quando ti chiudevi in cucina per impastare una torta di mele: dicevi sempre che bisogna celebrare il fine settimana – s’è riposato Dio, di domenica, perché non dovremmo farlo noi?
Io ti guardavo, con indosso un buffo grembiule a scacchi rossi (quant’eri Grifondoro, Ria, quanto) e il naso sporco di farina. Ti ho sempre detto che eri un po’ stonata, quando cantavi Que serà serà e mi dicevi che non era roba mia, troppo Babbana per chi era cresciuto osannando il proprio sangue: ho iniziato ad ascoltare musica Babbana dopo che te ne sei andata, frugando tra i tuoi dischi ho trovato me stesso. Ho trovato quel marito un po’ distratto, che non sapeva farsi il nodo alla cravatta e, in cucina, non muoveva un muscolo se non per dirti che eri stonata.
Quando, invece, non lo eri – la tua voce scivolava sulle note come il sangue giù da una vena recisa, come vento in un canneto di acqua cristallina: ti avrei ascoltata sempre e, per questo, cercavo di non farlo mai.
[Partecipa alle challenge "Perché SanRemus è SanRemus" e "Oscar della penna 2022" nella categoria "Miglior Primo piano" indetti sul forum Ferisce più la Penna]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Astoria Greengrass, Draco Malfoy | Coppie: Draco/Astoria
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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E quindi di te
 
Se sarai vento canterai
Se sarai acqua brillerai
Se sarai ciò che sarò
E se sarai tempo ti aspetterò per sempre
 
Cantavi sempre, la domenica, quando ti chiudevi in cucina per impastare una torta di mele: dicevi sempre che bisogna celebrare il fine settimana – s’è riposato Dio, di domenica, perché non dovremmo farlo noi?
Io ti guardavo, con indosso un buffo grembiule a scacchi rossi (quant’eri Grifondoro, Ria, quanto) e il naso sporco di farina. Ti ho sempre detto che eri un po’ stonata, quando cantavi Que serà serà e mi dicevi che non era roba mia, troppo Babbana per chi era cresciuto osannando il proprio sangue: ho iniziato ad ascoltare musica Babbana dopo che te ne sei andata, frugando tra i tuoi dischi ho trovato me stesso. Ho trovato quel marito un po’ distratto, che non sapeva farsi il nodo alla cravatta e, in cucina, non muoveva un muscolo se non per dirti che eri stonata.
Quando, invece, non lo eri – la tua voce scivolava sulle note come il sangue giù da una vena recisa, come vento in un canneto di acqua cristallina: ti avrei ascoltata sempre e, per questo, cercavo di non farlo mai. Ho sempre diffidato dalle dipendenze e quindi di te.
E tu cantavi alla mattina quando la giornata doveva ancora cominciare e alla sera quando mormoravi una ninna nanna sulla culla di Scorpius, sorridendo malinconica: non ti ho mai chiesto, non ne ho mai avuto il coraggio, se erano le stesse canzoni che ti aveva insegnato lui. Non temevo la risposta, più il tono (malinconico, non malinconico, affranto, sollevato) con cui mi avresti mormorato quell’assenso.
Cantavi in cucina, in soggiorno, seduta sulla sponda del letto quel giorno che mi hai detto che. Era finita, non c’era più spazio per una speranza che fosse una, nemmeno per quel noi che mi ero preoccupato di far germogliare tra le note che ti si incastravano tra i denti.
E cantavi sempre, per davvero, anche il giorno in cui mi hai detto che il sangue, quella cosa che mi aveva salvato per tutta la mia vita da ragazzino, alla fine di tutto s’era rivelato traditore – nel senso sbagliato o in entrambi i sensi: non mi hai mai detto che pensavi fosse la punizione per aver amato troppo ma Daphne, tua sorella, ne era sinceramente convinta. Tu no.
Tu hai continuato a cantare, anche dopo che mi hai sentito piangere con il viso nascosto tra le mani: que serà, serà mi hai detto.
Io non ho capito – avrei dovuto farlo? – e ho continuato a singhiozzare, mentre tu tornavi a nasconderti tra le tue nuvole di farina e impasto alla cannella. Hai cantato tutta la sera e io, nemmeno per una volta, ti ho detto quanto brava fossi in realtà: oggi vorrei averlo fatto.
Averti detto che eri più di quel che credevi di essere: una strega intrappolata nel viso di una principessa con i capelli scarmigliati e l’anima graffiata. Ti ha ferito il cristallo della scarpetta, hai detto una volta, e io non ho compreso: perché amassi il mondo Babbano come se t’appartenesse – t’apparteneva, Ria, ma non me lo hai detto mai.
Potevi essere tutto quello che desideravi: acqua, cielo azzurro, nuvole e anche pioggia – tempo: t’avrei amata in qualunque forma tu avessi assunto, ad eccezione di quella disposta ad amare me. E, adesso che sei ombra impressa nei miei ricordi mentre, con le mani sporche di marmellata, infilavi nel forno la crostata di more selvatiche, adesso sei solamente sbiadita e inespressa e ancora non ti so ascoltare quando canti. Que serà serà.
Qualche volta, quando esco da casa nostra e mi ritrovo tra le scogliere color luce riflessa, bianchissime, con i piedi immersi nel mare ti sento ancora – che canti la vita che passa, il fluire degli eventi e, sul finire, anche di lui. Chissà se, qualche volta, canti di me o sono solamente un tuo rimpianto, un compito svolto male, la voglia che avevi di lasciartelo alle spalle (que serà, serà e tutto il resto) dopo anni a rimpiangerlo: hai mai smesso, Ria?
Ti trovo lì.
Seduta tra le scogliere che guardi l’orizzonte e, nella bocca, hai intrappolate mille voci tutte diverse – adesso non canti più. Adesso che il mare romba sugli scogli, sgranandoli come rosari, e ha il colore di quelli che erano i tuoi occhi, adesso non canti più: mi chiedo se non sia l’ennesimo modo in cui il mondo mi punisce per non essermi reso conto prima che avevo bisogno di te che continuavi a cantare. E, adesso che hai smesso in via definitiva, mi devo domandare cosa devo pagare per farti ricominciare, che debito devo saldare solamente per permetterti di essere felice ancora una volta.
Io non so cosa ci fai ancora qui, Ria.
Tu, della morte, non hai mai avuto paura – non so bene se tu abbia mai avuto effettivamente paura di qualcosa, da quando t’era stato tolto quell’unico vezzo cui tenevi più di te stessa: un vezzo, sì, lo chiamo così. Il neo sul labbro che non t’eri mai voluta far togliere, nonostante il sorriso, i tuoi occhi azzurrissimi, i capelli biondi, cosa, Ria, cosa?
Un vezzo, il fatto che tu amassi: guardandoti cantare con le mani che impastavano biscotti e pastafrolla, mi sono chiesto come facessi a essere in grado d’amare ancora – non si possono amare le ombre, le ombre non meritano più amore dei vivi. Ma questo non l’hai capito mai e, allora, ti sei tenuta stretta il tuo fantasma.
E, adesso che tu sei il fantasma di qualcun altro (ma mai il mio), chi sarà disposto a tenerti stretta per sempre?
Ad amare e dubitare di qualcuno e quindi di te.
 
***
 
Se sarai luce scalderai
Se sarai luna ti vedrò
E se sarai qui non lo saprò
Ma se sei tu lo sentirò
 
Una volta mi avevi detto che la guerra ti aveva tolto molte cose – più di ogni altra, la possibilità d’essere tutto quello che avevi sempre voluto essere: una luce solitaria nel cielo, la donna di un altro, una cantante senza niente da cantare. Qualcosa che sapeva di un odore e un sapore ben definito e quindi di te.
Ti ho pensata.
Luce che scaldava nostro figlio quando era scosso dalle sue prime influenze, luna visibile nel cielo tra le nubi e quella carezza piantata sulla nuca che ho sempre sentito prima d’andare a coricarmi: sei ancora tu? Ho sempre vissuto nella convinzione, forse un po’ ingenua, che se fossi tornata indietro t’avrei sentita. Ma, quando lo hai fatto e ti sei innestata sottopelle come un brivido di paura, non ho saputo farlo.
Non cantavi più.
Non avevi più quelle tracce di blu negli occhi – non zaffiro o vetro di mare, ormai, solamente cristallo.
Non eri, non dicevi: non t’avessi sentita parlare, avrei dubitato che tu avessi ancora la capacità di farlo. Ma Scorpius dice che mamma ha detto e racconta le cose che sa dei fantasmi e quindi di te: per i bambini è normale, lo sai, amano l’amore che gli viene concesso. E tu sei stata brava a concedere di amarti a così tante persone che, adesso che non sei più tu, il rimpianto è uno tsunami di cartapesta in un mondo di pietre focaie.
Il giorno in cui ho preso fuoco, amore mio, è stato quello in cui hai detto che era finita: non la nostra storia mai cominciata, la tua – che non avevi il coraggio, che è sempre stato il primo dei tuoi difetti, di tornare da lui. Che eri stanca, cambiata, invecchiata.
I tuoi anni migliori si sono sciolti nello zucchero caramellato e nella marmellata di lamponi, cotti nel forno e spolverati di zucchero a velo. Te li sei mangiata, seppur a piccoli morsi, e adesso che non ti rimane più niente hai paura ad andare avanti: vedi la luce, dentro di te, ma non osi toccarla – e temi che non t’amerà più.
Come potrebbe, Ria? Io ancora non ho imparato a smettere.
Ti dico che devi andar via, che il tuo tempo qui è finito – scuoti il capo e filamenti di pensiero ti crescono nel cuoio capelluto come una corona di rovi: sei ancora bella, vorrei dirti, il tempo ti ha solamente resa più triste, ma mai diversa dalla ragazzina che ho condotto all’altare. Avevi diciassette anni, non un sogno in testa: niente in più di ora, niente di meno.
Ti dico che devi andar via perché fa troppo male, non sentirti mentre canti in cucina e sapere che non lo fai per impossibilità, ma per volontà – le canzoni, nel tuo mondo, hanno smesso di contare appena hai perso la voce per la prima volta, sulle tue ultime parole, e allora in quella frattura tra i tuoi respiri hai deciso che saresti tornata indietro. Non avresti dovuto, Ria, non avresti proprio dovuto.
«Non posso tornare indietro, Draco: non c’è più niente per me, in nessun luogo».
Io sospiro, tu non comprendi – che quando provo a toccarti, attraversandoti la spalla con il dorso della mano, tu ancora sobbalzi.
«Come se avessi preso la scossa» mormoro, le parole che hai detto tu prima di andartele. «Non mi hai mai spiegato…».
Cosa intendessi – ma tu mi volti le spalle e vai a bagnarti i piedi nel mare, in silenzio: ho sempre pensato fosse un termine Babbano ma, anche quando ho domandato in ufficio a un collega cosa volesse significare, non ho compreso perché hai deciso di renderle le tue ultime parole.
È che sei elettrica, Ria, perché sprizzi scintille quando ti guardo e non capisco mai – mi ferirai, se proverò ad amarti ancora?
Perché è un amore che sa di rimpianto. E quindi di te.
 
***
 
Se sarò in terra mi alzerai
Se farà freddo brucerai
E lo so che mi puoi sentire
 
Vorrei che decidessi di andar via, Ria, lo vorrei tanto – c’è un punto del nostro matrimonio, quando ti ho guardato e ti ho colta come una spina di una rosa fatta di sangue e promesse infrante, in cui ho deciso di volere più il tuo bene che il mio: ci siamo sposati perché era giusto così e tu lo sapevi. Ma io ti ho amata fin dal primo sguardo, e tu?
Mi hai raccontato di Fred Weasley durante il pranzo nuziale: c’era quel sentore, nell’aria, di lacrime e quindi di te. Non sei stata crudele, non sai come si faccia, a ferire una persona.
E, adesso che mi guardi e nei tuoi occhi non c’è più spazio per niente, vorrei tanto riuscire a dirti che, alla fine di tutto, hai ferito almeno me. Ma non è così.
Mi hai insegnato amore, compassione, perfino la tristezza che ti porti ancora dentro, Ria, ma l’odio mai: e, anche adesso che inquieta mi tormenti, non riesco a portarti rancore. Sei rimasta congelata nella tua adolescenza spezzata e, in questo, ci siamo trovati: spezzato lo ero anche io, rotto e in frantumi, così che non sapevo come fare a ricompormi. Pensavo avrebbe funzionato, Ria. Pensavo che sarei bastato a tenere insieme i pezzi.
«Va’ via, Draco».
«E tu?».
Tu non canti più. Tu mi guardi e hai gli occhi che non vedono, il cuore che non sente e la bocca che non scandisce più il ritmo di tutte le nostre canzoni, anche quelle che hai scelto di dedicarmi senza saperlo: ogni artista ha una sua musa inconsapevole e, nella tua musica scandita tra i denti, ho la presunzione d’essere io. D’altronde, Fred Weasley è andato via così presto da non riuscire a farlo lui.
«E io cosa?».
«Tu non vai?».
«No, Draco. Io non posso andare».
«E perché no?».
Ti arrabbi, sbuffi, fluttui via – io lo so che, in mezzo a tutte le tue scelte che potresti essere, scegli d’esser quella che non mi sente mai.
Ma, nel mare trasparente delle tue scelte sbagliate, io so che fingi solamente: mi senti, Ria, tu mi senti anche quando non parlo, mi senti quando non canti e mi senti quando il silenzio avanza strisciante. E sai che, anche se ti guardo e muovo le labbra in parole che non ascolterai, dentro sto urlando.
Ti prego, Ria, torna a casa.
Perché casa non è qui, l’hai detto anche tu (casa è famiglia e quindi non io).
«Lo so che puoi sentirmi».
Silenzio, frastuono di mare.
Anche se le onde fanno rumore di cocci infranti e quindi di te.
 
***
 
Ovunque sarai, ovunque sarò
In ogni gesto io ti cercherò
Se non ci sarai io lo capirò
E nel silenzio io ti ascolterò
 
Il giorno in cui vai via non me lo dici – ma ti trovo seduta sulla sponda del nostro letto, a gambe incrociate e che canticchi.
Que serà, serà.
Whatever will be, will be.
The future’s not ours to see.
Que serà, serà.
Sparisci poco dopo – non ti fai dire addio.
Ma ti sei regalata un lieto fine e, di questo, ti sono immensamente grato: non so cosa sarai adesso, Ria, se solamente un mio ricordo o il lieto fine sulla pagina della mia vita fino ad adesso, ma sono sicuro che se sarai mare, se sarai luce, se sarai sole e
 
Se sarai vento canterai.
(Irama, Ovunque sarai)
 

Non scrivevo Drastoria da un po' e mi fa sempre piacere tornare un po' alle mie origini, sebbene sia un amore a senso unico, in questa storia.
Vi invito a partecipare alla challenge, se vi è piaciuta la storia, e ad aspettarvi altre 24 storie da parte mia.
Un bacio,
Gaia
   
 
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