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Autore: Ciarax    07/02/2022    0 recensioni
La chirurgia è il miracolo della medicina, aprire un corpo, ripararlo dall'interno, salvare delle vite. I chirurgi hanno un detto "Ogni emorragia deve fermarsi", una sorta di "anche questo, passerà"; come ogni crisi che prima o poi arriverà ad una fine.
Il paziente vive, o muore. In un modo o nell'altro, l'emorragia finirà.
È il punto di partenza, l'arena, il bivio dove si deve compiere una scelta... un passo falso ed è finita. Non esistono mezze misure.
La vita non è poi tanto diversa.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Greg House, James Wilson, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Più stagioni, Contesto generale/vago
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I – IL SENTIERO DI MOLLICHE
 


Che magnifica giornata per salvare delle vite. Il lavoro di un chirurgo dopotutto è questo, salvare la vita ai propri pazienti, a quelli che si affidano e che siedono poi su quei freddi tavoli di metallo. Non sono corpi senza nome, sono persone, hanno una famiglia, una storia.

Anche se poi, quando si ha in mano la vita di pazienti così giovani, loro una storia non ce l’hanno ancora. In attesa di essere scritta ma che, a volte, viene consumata prima del tempo. E Natalie era grata in quei momenti quando, tornando a casa, sentiva lo strepitio della piccola Sarah di appena tre anni e mezzo.

Creature ingenue dallo sguardo innocente e pieno di meraviglia, poter dare loro una seconda possibilità quando non si sarebbero mai dovuti meritare quello che capitava loro. Quando il fato sembra accanirsi sui più deboli, e la consapevolezza che la morte negli ospedali se ne vede parecchia. Non c’era discriminazione per quella vecchia signora con la falce.

«Hai preso Ronny?» domandò Natalie dopo aver assicurato il seggiolone sul sedile posteriore della vecchia Volkswagen Golf, i cui residui di vernice della carrozzeria erano nelle mani della figlia che non perdeva occasione per accelerare ancora di più il degrado esterno della macchina.

Sarah annuì sorridente, stringendo tra le piccole braccia un rotondo ed enorme peluche di un panda. «Sì! Anche se volevo rimanere con nonno»

«Il nonno ha da fare oggi quindi dovrai stare con la tua vecchia mamma, vedrai che oggi passerà in un lampo»

La piccola storse leggermente la bocca in un piccolo broncio contrariato, amava ed era abituata a trascorrere le proprie giornate con il nonno e quei cambiamenti improvvisi non le piacevano mai. Era abbastanza tranquilla da non fare i capricci ma questo non le impediva di essere contraria a quelle decisioni che gli adulti prendevano sempre. Se non voleva andare, perché dovevano costringerla?

Non era la prima volta che Natalie la portava in ospedale con lei, ringraziando come al terzo piano, proprio per la presenza del reparto di maternità e di pediatria, c’era anche un piccolo nido dove poter stare tranquilli. Quella le sembrava sempre una soluzione sbrigativa ma non aveva avuto preavviso per chiedere a qualcuno di tenere eventualmente d’occhio la piccola.

Natalie rivolse un ultimo sguardo dallo specchietto retrovisore prima di mettere in moto, l’esile figura della figlia che ricambiava con dei grandi occhi azzurri che per un attimo le misero i brividi. Natalie aveva gli occhi grigi, suo padre lì aveva castani. Nessuno nella sua famiglia li aveva azzurri. Quella era l’unica nota dolente ogni volta che osservava quella tenera creatura che cresceva da tre anni e mezzo.

I capelli rossi erano leggermente più mossi dei suoi, ma il cipiglio testardo lo aveva ereditato tutto dal nonno. Oppure trascorrevano troppo tempo insieme, una teoria valeva l’altra. L’unico modo per far fronte agli orari impossibili da neurochirurgo quale era Natalie, non lamentava affatto del lavoro che amava ma che in quel frangente limitava la possibilità di trascorrere del tempo con la figlia.

Il viaggio in auto fu relativamente tranquillo, intervallato dalle piccole sessioni di scoordinato karaoke di Sarah che si divertiva un mondo a canticchiare le canzoni passate in radio quella mattina. Era rapita ogni volta che sentiva le note di una melodia, complice anche la grande pazienza e abilità del nonno Samuel nel suonare il pianoforte, pezzi suonati a quattro mani con Natalie stessa poi facevano impazzire la figlia. Le sembrava di avere un concerto personale ogni volta che succedeva.

Il nido dell’ospedale era perlopiù frequentato dai figli di alcuni tra infermieri e personale medico, più difficilmente di pazienti o familiari in visita. Non era particolarmente pieno nella maggior parte dei casi e Natalie fu tranquilla nel lasciare Sarah almeno fino al primo pomeriggio, non avendo interventi ma con diverse cartelle cliniche arretrate da riempire e scartoffie con cui fare i conti da fin troppo tempo.

Il reparto di chirurgia non era il più all’avanguardia e neanche il più grande dell’ospedale, che vantava comunque altre punte di diamante nel proprio repertorio. Molti reparti erano stipati sullo stesso piano e non era difficile che i nuovi specializzandi si confondessero nelle prime settimane di internato nell’ospedale.

Almeno a Seattle c’era un reparto di neurochirurgia. Ed era proprio nel miglior programma di chirurgia della costa ovest del paese che Natalie aveva speso i propri anni da specializzanda, prima in neurochirurgia e più in la in pediatria chirurgica. Trasferirsi per un po’ nel New Jersey non le era sembrata una brutta idea dopo aver finito il tirocinio.

Un paio d’anni coperti da un’offerta di lavoro niente male nell’ospedale più promettente dello stato e sarebbe poi probabilmente tornata a casa a Seattle, un lavoro al Seattle Grace l’aspettava come probabile primario di neurochirurgia; prospettiva tanto allettante quanto improponibile al Princeton Plainsboro quando l’intero reparto di chirurgia copriva a malapena uno dei tre piani dell’ospedale universitario.

E poi era… capitata Sarah, costringendo persino il padre di Natalie a trasferirsi per il momento lì con lei nel New Jersey. Sarebbe stata troppo terrorizzata per viaggiare di nuovo da sola.
Il cercapersone di Natalie risuonò in mezzo al corridoio dopo che il neurochirurgo posò alcune delle ultime cartelle ricontrollate e firmate nella pila di fronte l’accettazione. Ringraziò con un sorriso una delle infermiere e diede un’occhiata alla chiamata, incuriosita da chi potesse cercarla quando quel giorno non aveva nessun intervento in programma.

Era House. Un consulto. Natalie corrugò la fronte a quel messaggio ma non disse nulla, esausta dal giorno prima e con alcuna voglia di battibeccare per qualsiasi motivo fosse alla base di quella chiamata. Prese con sé le ultime cartelle per quella mattina e si diresse verso l’ascensore, evitando un paio di specializzandi di ostetricia persi nell’ala sbagliata dell’ospedale.

«Mi hai fatto venire qui… per un’emorragia subaracnoidea? – domandò Natalie una volta entrata nell’ufficio del reparto -fantasma, di Diagnostica, –Da quando ti interessi di casi tanto facili?»

La voce della donna colse di sorpresa i tre medici presenti oltre ad House nella stanza, non avendola vista arrivare nonostante le pareti a vetro che davano sul corridoio. Era da quasi una settimana che tentavano di rifilargli qualsiasi caso capitasse loro tra le mani, ognuno che si rivelava poi puntualmente troppo semplice o nient’affatto interessante da doverci dedicare più di una decina di secondi.

«Non mi interessano infatti, ma il dottor Foreman ha voluto insistere e cosa meglio di un consulto di un neurochirurgo per fugare ogni dubbio» replicò sardonico House, uno yo-yo tra le mani mentre non si scomodò affatto dalla poltrona della scrivania sulla quale era comodamente abbarbicato.

Natalie notò semplicemente il dottor Foreman in questione roteare gli occhi esasperato, probabilmente abituato alla solita schiettezza e cinismo del diagnosta. Gli altri due invece osservarono incuriositi la nuova arrivata, all’incirca della loro stessa età: la divisa di chirurgia di un pallido verde acqua non lasciava interpretazione al reparto alla quale apparteneva il medico; i capelli ramati raccolti in una croccia disordinata e lo stetoscopio abbandonato al collo. Il volto di Natalie fu attraversato da qualche secondo di irritazione prima di sospirare ed avanzare verso le lastre del paziente.

«Lo strato è sottile, si distingue a malapena. Probabile anemia – descrisse semplicemente dopo un’occhiata più attenta, – la prossima volta non c’è bisogno di inventarti una scusa, House»

«Mi serviva qualcuno per farlo smettere di assillarmi con casi tanto noiosi» replicò House indifferente non appena Foreman raggiunse gli altri due medici nella stanza adiacente.
Natalie rivolse loro un'occhiata fugace, si poggiò contro l’elegante scrivania in vetro osservando le due lastre di fronte a sé. «Casi normali. Casi di cui i medici si occupano tutti i giorni ma non tu. Non ti dispiace farlo disperare così, vero?»

Un minuscolo sorriso incurvò l'angolo della bocca di House in una smorfia divertita, quando entrambi sapevano la risposta a quella domanda. Con una media di meno di un paziente la settimana, i casi in cui di imbatteva il diagnosta superavano la normale percentuale di malattie rare in tutto il paese; normale come poteva essere un semplice caso di emorragia subaracnoidea.

Il suono del cercapersone interruppe la conversazione tra i due, Natalie diede una veloce occhiata sapendo di non avere alcuna operazione in programma per quel giorno. Impallidì leggendo quelle poche parole.

«Cosa c’è?» domandò House, tenendo stretto il bastone, immediatamente accortosi del cambio repentino di umore. La donna di fronte a lui si era irrigidita, la postura tesa e la mano scorsa da impercettibili tremiti.

Natalie spostò finalmente l’attenzione verso il diagnosta. «Sarah»

La piccola succhiapollici era sparita dal nido, nessuno se n’era accorto per una buona mezz’ora e soltanto un messaggio di Wilson la mise al corrente di quello che era successo. Natalie uscì senza troppe cerimonie dall’ufficio di House, seguita a ruota dallo stesso medico.

L’ufficio del primario di oncologia era dall’altra parte ma sempre sullo stesso piano e Wilson quasi ebbe un infarto quando la porta si spalancò, sbattendo contro il muro con un tonfo sordo. In piedi dietro la scrivania, l’oncologo alzò gli occhi sgranati e guardò Natalie come un’apparizione, una creatura mitologica apparsagli in un momento di delirio.

«L’ho vista mentre girava per il piano. Il nido non deve essergli piaciuto molto» commentò Wilson con un sorriso di circostanza, posando lo sguardo sulla piccola Sarah che considerava alla stregua di una nipote oramai.

Come fosse riuscita ad arrivare al terzo piano, fu un mistero. Per quanto non fosse la prima volta che Sarah andava in quell’ospedale, rimaneva sempre meravigliata dal caotico via vai di camici bianchi e persone sconosciute, non capiva perché tutti avessero sempre quella fretta. Detestava stare in quel nido dove non c’era quasi nulla che attirasse la sua attenzione, ricordava solo che la madre lavorava vicino e non ci pensò due volte ad approfittarne per andare a cercarla.

Natalie tirò un sospiro, neanche accortasi di aver trattenuto il respiro fino a quel momento. Scandagliò con attenzione l’intero ufficio finché non trovò la piccola fuggitiva appollaiata sul divano mentre stringeva tra le braccia il peluche, non appena vide la madre esibì un enorme sorriso e piccoli versetti di gioia.

«Mamma! – esclamò eccitata prima di stendere le braccia in avanti, il peluche tra le mani e tirando su col naso, – Ronny è rotto»

In effetti, il panda di pezza era un vecchio peluche che aveva sulle spalle parecchie decine di anni e in alcuni punti si era scucito e consumato, mostrando la candida ovatta che l’imbottiva. Niente che un paio di punti non avrebbero potuto sistemare, ma la smorfia di tristezza sul volto della bambina di tre anni e mezzo certo non aiutò Natalie a cercare un modo per rimproverarla.

Natalie diede una piccola occhiata al peluche prendendolo tra le mani. «Eh sì, Ronny ha decisamente bisogno di aiuto» commentò arricciando leggermente il naso inscenandosi pensierosa. Si abbassò un poco e sussurrò all’orecchio della figlia con un piccolo sorriso. «Lo sai chi un bravissimo dottore dei peluche?»

Sarah scosse la testa. «Zio Jay?» domandò poi riferendosi a Wilson.

Wilson colse la figura di House poggiata contro lo stipite della porta, entrambi che osservavano in silenzio quello scambio di battute tra le due. Fu solo quando Natalie sussurrò qualcosa nell’orecchio di Sarah che Wilson poté notare la stessa, terribile somiglianza nell’azzurro degli occhi tra lei e il diagnosta. La piccola guardò House per un lungo momento prima di sorridere ed allungare le braccia con sincera affettuosità.

«Ronny sta male! Greg, Ronny sta male!» esclamò Sarah come una litania, inconsapevole del piccolo scherzo di Natalie che aveva incoraggiato la figlia.

House si irrigidì, aveva già avuto a che fare con la piccola succhiapollici ma non era particolarmente bravo con i bambini. Erano creature sottosviluppate, ancora in fase di crescita e che, almeno per lui, ponevano domande stupide. Sarah non era certo un’eccezione ma almeno era in grado di rimanersene buona e non fare troppo casino, quel suo temperamento mite era probabilmente la caratteristica che House più apprezzava nella bambina.

«Non c’è un miglior dottore di peluche in tutto l’ospedale, vero, zio Jay?» domandò finalmente Natalie, di nuovo in piedi e con un sorriso divertito.

Wilson rimase per un secondo sorpreso da quel cambio repentino di nome ma notò lo sguardo esitante di Sarah su di sé. Erano l’unico che chiamava zio, nonostante conoscesse sia lui che House dallo stesso momento, era da lui che andava ogni volta che voleva qualcosa e sapeva di poterla fare franca con un po’ di occhi dolci e qualche moina.

«House –uh, Greg, è davvero il più bravo. Ronny non può essere in mani migliori, Sarah» concordò l’oncologo e notando con soddisfazione come quella fu l’unica rassicurazione di cui Sarah ebbe bisogno. La bambina saltò giù dal divano e tese le braccia per far vedere meglio ad House il punto dove il peluche era più danneggiato.

Natalie si passò una mano tra i capelli raccolti, spostando alcune ciocche dalla fronte sfuggite alla crocchia. Guardò distrattamente come House era impacciato nel cercare di non turbare Sarah con uno dei suoi soliti commenti sardonici, ma effettivamente provando a rispondere nel modo più neutrale possibile.

«Grazie per averla ripresa subito, ho il solo terrore al pensiero che avrebbe potuto girare per l’ospedale tutta da sola» ringraziò sinceramente la donna quando Wilson liquidò quelle parole con un sorriso.

«Avessi saputo che ti serviva qualcuno per guardarla te l’avrei detto. Se vuoi posso tenerla qui in ufficio, non ho molti pazienti oggi»

«Non penso ce ne sarà bisogno ma grazie, Wilson – disse Natalie guardando House alle prese con Sarah mentre i due ritornavano con calma verso l’ufficio in fondo al piano, –Di solito non ha problemi a rimanere al nido per tutto il turno. Oggi non voleva venire»

«E pensi che lasciarla nelle mani di House sia più saggio?»

Natalie rise. «No, ma almeno so che non le capiterà niente. Potrebbe anche distrarlo dal torturare quei poveri medici nella sua squadra»

Wilson aggrottò per un attimo la fronte, assorto dai possibili finali di quella giornata e quasi nessuno si prospettava in favore di Foreman, Chase e Cameron. La piccola Sarah era sveglia e aveva una particolare predilezione per House, rifiutandosi di chiamarlo zio in qualunque caso, quello era un appellativo esclusivo per Wilson che non sapeva se esserne o meno lusingato.

«Finirà col deviarla in una mini versione di House» borbottò Wilson udendo la risata della neurologa invadere il corridoio, mentre ritornava ad occuparsi delle cartelle post-operatorie della settimana.

Il team di House, d’altro canto, era rimasto alquanto confuso dalla comparsa improvvisa della donna prima, e poi di veder ritornare il diagnosta con a seguito una bambina che a malapena gli raggiungeva la coscia. La piccola testa rossa non era passata inosservata e il sorriso infantile mentre sembrava avere un’animata discussione con House lasciò i tre alquanto impreparati.

«Pensi sia la figlia?» domandò Chase sottovoce, cercando di non attirare l’attenzione dei due nonostante ci fosse la porta a vetri chiusa a separarli. Foreman e Cameron si scambiarono uno sguardo.

«House non ha figli» quella frase uscì più come un imperativo, tanto che lo stesso Chase si girò per guardare di sbieco Cameron, fin troppo convinta di quell’affermazione.

In realtà, quasi nessuno di loro sapeva granché della vita personale di House, quando quel poco era stato carpito in parte da Wilson o dalla Cuddy. Non sembrava esserci molto da scoprire sul diagnosta oltre la dipendenza da Vicodin ed i discutibili modi con cui passava diverse serate in compagnia. Era il loro capo, cinico, misantropo, e ficcanasare nelle sue faccende private non avrebbe di certo giovato a far guadagnare loro punti ai suoi occhi, al contrario.

Eppure quella ragazzina era strana, gli stessi capelli mossi ramati della donna del reparto di chirurgia che avevano visto meno di una decina di minuti prima. Non sembrava avere nessun problema nel parlare con House, era una piccola bolla di gioia incontenibile e il sorriso non aveva lasciato per un attimo le labbra increspandone le piccole guance rosee.

«Conosci per caso il medico che era venuto prima? Potrebbe essere la sua di figlia» la somiglianza c’era dopotutto.

Foreman scosse la testa, ancora sbigottito nel guardare House suturare con una smorfia il vecchio panda di peluche. «È un neurochirurgo, la dottoressa Harris. Mi è capitato di avere uno o due consulti quando era di turno per alcuni pazienti ma non l’ho mai vista qui, non sapevo neanche conoscesse House»

«Se è la figlia, – suppose Cameron adocchiando con attenzione la piccola, – perché è qui? House non sopporta i pazienti, figuriamoci i bambini»

Fu solo quando la bambina, stufa di aspettare che Ronny fosse di nuovo rimesso a nuovo, scese dalla sedia e si girò verso i tre medici che colsero un dettaglio. Sarah rivolse loro un piccolo sorriso e scuotendo la manina in segno di saluto, gli occhi grandi che si posarono con attenzione su ognuno di loro.

Sarah aveva gli occhi azzurri.
 
   
 
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