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Autore: elenatmnt    11/02/2022    18 recensioni
Una vecchia tartaruga eremita vaga senza meta in un mondo in guerra. Cosa succede se incontra un bambino?
Genere: Guerra, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’Autrice:

Ciao a tutti amici tartafan!!!
So che ho un’altra storia in corso ed ho intenzione di continuare a pubblicarla, giuro. Solo che… insomma… Oggi ho avuto un’epifania dopo una chattata con una fanciulla tra voi, e le mie dita hanno buttato giù questa breve storia. Dunque grazie Bibiz82, sappi che senza di te, questa storiella nuova di zecca non ci sarebbe stata!!
Buon divertimento a tutti!!
elenatmnt 
(TMNT non mi appartengono, mannaggia!).

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In passato, la fitta e colorata vegetazione d’autunno sarebbe stato un momento di gioia, una buona scusa per saltare nei morbidi ammassi di foglie secche. Non importavano i primi lievi soffi di vento gelido che preannunciavano l’inverno, la cosa importante era divertirsi, stare insieme.
Uno dei giochi preferiti era pestare le foglie più “croccanti”, così le chiamavano; quelle dal colore tipicamente marrone e sentirle scrocchiare sotto i piedi. Non era una vera gara, semplicemente si godevano il piacere di quella sensazione.
Probabilmente quando si cresce, si dimentica.
I piccoli piaceri che una volta facevano parte di te, che contribuivano a rendere i tuoi giorni così speciali, col tempo li lasci sepolti in un cassetto del tuo cuore e li trascuri fino a scordarteli.
Se poi ci si mette di mezzo una guerra, malattie e carestie… Le cose si fanno più difficili.


La tartaruga era in viaggio da molto tempo, anni per l’esattezza. In realtà non si era mai fermato, non aveva una meta. Camminava e sopravviveva finché il destino gli avrebbe permesso di vivere. Nessuna sosta troppo lunga, guai ad affezionarsi a qualcuno. L’affetto era debolezza, faceva più male di una pallottola nella carne.
L’adulta tartaruga lo aveva provato sulla propria pelle. Il dolore della perdita.
Camminare nella vegetazione era una buona tattica, la sua pelle verde lo agevolava a mimetizzarsi meglio nei boschi. Ma l’inverno era alle porte ed era il momento di trovare un posto dove ripararsi, fino a che il freddo non sarebbe passato.
La sete e la fame gli logoravano lo stomaco; la sete era quella più insopportabile. Per la strada era riuscito a trovare qualche verme; di certo non lo avrebbero saziato, tuttavia non sarebbe morto di fame.
In lontananza, alla tartaruga parve di sentire il suono di acqua che scorreva, un fiume o forse un ruscello. Poteva significare tante cose: acqua, pesce, cibo; ma anche umani, soldati, armi.

Rischiare o no?

Se non lo avesse fatto, sarebbe morto prima di sete che di fame. Una tappa verso l’acqua era necessaria per la sopravvivenza.
E se fosse morto? Pazienza, anzi meglio. Quante volte aveva chiamato a sé la morte, eppure quella stronza lo ignorava, lo destinava a vivere da eremita in costante lotta per la sopravvivenza, costretto a vedere ogni giorno come il mondo fosse diventato uno schifo, un vero incubo spaventoso.
Si riteneva già fortunato che almeno le campagne fossero più tranquille rispetto alle città ridotte solo a macerie, grigio e polvere.

Il suono dell’acqua era reale: un ruscello non troppo esposto e con l’acqua stranamente pulita senza nessun residuo di sostanze chimiche o sangue, scorreva solitario tra la flora.
Non fu precipitoso, si guardò bene intorno prima di soddisfare la brama di dissetarsi, era arrivato fino a lì; non si sarebbe fatto catturare come un pivellino.
“Bene, hai avuto culo vecchio mio!” si disse mentre immerse le mani a mo’ di ciotola e iniziò a bere avidamente. Quando fu soddisfatto si riempì una borraccia che portava con sé.
Il sole stava volgendo al tramonto e proseguire di notte non era una buona idea. Per quanto fosse un ninja, la notte era portatrice di guai: anche in campagna c’era il coprifuoco e robot altamente tecnologici perlustravano tutte le zone. Fermarsi su un albero molto alto era la consuetudine adatta.

Rumore sospetto.

La tartaruga si tolse del ruscello e si nascose dietro ad un folto cespuglio e aguzzò il suo udito, almeno quello che gli era rimasto.
“Dannazione, maledetto… non ci voleva… e togliti stronzo, accidenti…” qualcuno imprecava a denti stretti, era una voce giovane poteva addirittura essere quella di un bambino.
La tartaruga pensò bene di girare a largo da quel suono eppure i suoi sensi ninja erano in allarme rosso; in realtà era solo curioso, attirato da quella voce tanto giovane.
“No non andare, finirai nei guai” si disse, l’unico compagno di viaggio era sé stesso proiettato nella propria voce.
“Brutto stronzo, non può finire così…” continuava, chiunque fosse, sempre più rassegnato. Qualsiasi cosa gli fosse accaduto, non era nulla di buono. Era chiaro che il proprietario di quella voce fosse nei guai.
“Sei un’idiota” si disse la tartaruga avanzando verso le imprecazioni.
Rimanendo nascosto, spostò piano alcune foglie per scorgere un bambino. Non era un ragazzino qualunque, aveva una particolarità ben chiara alla vista: era albino di circa dieci anni d’età, con un piede incastrato sotto una roccia massiccia che inutilmente tentava di spostare.
Quel bambino era spacciato.
Che fosse rimasto lì tutta la notte a morire di freddo o che lo avessero trovato i soldati; il bambino sarebbe morto. In quei tempi ostili la diversità, non era tollerata.
Ragazzino albino, significava ragazzino morto.
“No, non è affar tuo. Voltati e vattene, quel bambino è morto comunque, anzi non capisco come sia sopravvissuto finora”. Si voltò realmente e realmente fece il primo passo per ansarsene.
Il secondo passo lo tradì, l’istinto di un tempo, anzi la coscienza gli martellava nel petto quasi a fargli male.

Uscì allo scoperto.

Il bambino dai capelli bianchi sobbalzò spaventato e subito prese quella che sembrava una kodachi* e la sventolò a casaccio davanti a lui per difendersi.
“Ehi bambino… non sono qui per farti male. Voglio solo aiutarti… So che ho un aspetto un po’ strano…” proferì la tartaruga mettendo le mani avanti in segno di pace.
“Non toccarmi o ti infilzo!” minacciò il bambino che pareva avere molto coraggio, nonostante la situazione in cui si trovava.
“Lascia che ti dia una mano… quella roccia sembra pesante e il tuo lamentarti ed imprecare me lo ha confermato. A proposito, non sei un po’ piccolo per usare un certo linguaggio?”.
“Sono grande abbastanza da pugnalarti al cuore, avvicinati e lo faccio!”.
“Ti sarà un po' difficile perforare questi” si indicò il piastrone duro come una roccia.
“Perforare cosa?” chiese il bambino ringhiando.
“Ehi ma non vedi? Questi…” e si bussò con le nocche sui pettorali che fecero un rumore simile al legno. Ma la tartaruga subito si sentì un idiota quando scoprì un’amara verità: il bambino era cieco.
Ora si sentiva ancora più in dovere di aiutarlo.
“Scusami ragazzino, non mi era accorto che tu fossi…”.
“Cieco? Lo so! Bella scoperta” la lama era sempre puntata contro la tartaruga.
Il mutante avanzò lentamente, rimanendo ad una distanza di sicurezza dall’arma.
“Senti, sono sinceramente intenzionato ad aiutarti. Capisco che non ti fidi, al tuo posto non lo farei nemmeno io, ma è necessario che io tolga quella pietra”.
“Me la cavo da solo. Vattene”.
“Va bene, come vuoi” si arrese la tartaruga andandosene via. Il ragazzo abbassò la guardia e con un movimento rapido fu disarmato della kodachi.
L’arma di ottima manifattura, fu lanciata lontano a distanza di sicurezza, sicuramente non gliel’avrebbe restituita. Troppo bella per lasciarla ad un mocciosetto.
“Hai vinto. Uccidimi o vendimi e facciamola finita!” il tono del bambino era minaccioso, ma ovattato dal procinto di piangere.
La tartaruga gli si inginocchiò di fronte parlandogli con voce calma e rassicurante.
“Ragazzino, voglio solo liberarti. Riportarti a casa e poi me ne andrò per la mia strada e non mi rivedrai mai più. Cioè non mi sentirai mai più… scusami gaffe non voluta”.
“Ci sono abituato…”.
“Tregua?”.
“Tregua”.
La tartaruga sorrise, non lo faceva da tanto tempo. A conti fatti, non parlava con qualcuno da anni e dopo tanto tempo si ritrovava ad avere una discussione con un marmocchio.
Qualche volta la vita, riusciva a regalargli delle piccole gioie.

“Ora toglierò questo masso, sentirai dolore. Cerca di non urlare”.
Il ragazzo annuì fieramente, non era una femminuccia, per nulla al mondo avrebbe urlato; si tradì da solo quando sentì lievemente sollevare il masso. La tartaruga smise subito di provarci. Le grida avrebbero attirato qualcuno, che fossero soldati o contadini, in entrambi i casi sarebbero stati uccisi.
“Ti ho detto di non urlare!” rimproverò la tartaruga ringhiando. Se ne pentì subito quando vide le lacrime scendere sulle guance del bambino. “Scusami ragazzino. Non volevo parlarti così, so che fa male, più di quanto tu possa sopportare” e gli appoggiò una mano sulla spalla per confortarlo.

Ecco, ci vollero pochi minuti per scalfire il suo cuore di pietra, si conosceva troppo bene, le vecchie abitudini affettive non le aveva mai abbandonate; per questo faceva l’eremita, per non affezionarsi a persone che prima o poi avrebbe lasciato o sarebbero state uccise.
Si sfilò via dal polso le sue fasce di cuoio ormai logore e vecchie e le piegò in tre strati.
“Mordi questo, butta qui il tuo dolore”.
La tartaruga non diede nessun segnale, nessuna preparazione all’imminente fitta, solo un sollevamento secco e veloce di quella roccia maledetta. Il bambino ringhiò tra i denti, stringendo saldamente pugni, occhi e denti.
“È finta piccolo, respira. Ora andrà tutto bene, sei stato bravo” la tartaruga accarezzò il viso del bambino che continuava ad essere bagnato di lacrime. Il respiro affannato era la conseguenza del trauma appena subito, tuttavia si calmò abbastanza in fretta.
“Da bravo così, respira con me.
La cecità era un grande limite per il giovane ragazzo, tuttavia aveva gli altri sensi molto sviluppati ed un’innata dote nel riconoscere la bontà delle persone dal suono della voce.
“G… grazie…” rantolò il bambino sputando via la striscia di cuoio.
“Figurati!” disse sincero l’adulto. Immediatamente si occupò della ferita, doveva fare in fretta prima che diventasse buio. “Hai la caviglia che è diventata un palloncino, è gonfia. Sicuramente è slogata, forse rotta, ma non sono un medico, quindi mi limiterò ad un blando primo soccorso. Ci penserà la tua famiglia a sistemartela”.
“Cosa? Vuoi riportarmi a casa?” alzò la voce il ragazzo.
“Sshhh fai silenzio. Vuoi farci scoprire? Certo che ti riporto a casa”.
“No, non voglio tornarci!”.
“Ma cosa dici? Perché?”.
“Perché mio padre mi odia, è per questo che sono scappato!”.
La tartaruga sospirò, non conosceva i retroscena della vita del ragazzo e neanche gli importava molto. La cosa principale era riportarlo a casa.
“Cosa dirà la tua mamma? Starà piangendo per te…”.
“Lei non può piangere per me…” il bambino si rattristì. La tartaruga lesse nel suo viso tutti i lineamenti della tristezza, non c’era bisogno di andare oltre. Era chiaro che il ragazzo era orfano di madre.
“Mi dispiace”.
“Non fa niente. Non l’ho mai conosciuta. In realtà non conosco neanche mio padre biologico”.

Concetto afferrato, il bambino era orfano. Punto. Era meglio cambiare discorso.
Il mutante si tolse via anche l’altra fascia di cuoio, preparandosi a fasciare saldamente la caviglia malconcia del ragazzo. Distrarlo chiacchierando era una tattica circa efficace per non farlo muovere più del necessario.
“Ora ti medicherò questa caviglia, non sarà una passeggiata ma sono sicuro che puoi resistere”.
“Certo che resisto!” disse fiero il bambino.
“Non ne avevo dubbi” rispose sarcastico la tartaruga. “Ah, in questo casino ho dimenticato di chiederti come ti chiami ragazzo”.
Il bambino sospirò prima di rispondere.
“Elle”.
“Sul serio?!”
“Si!” rispose stizzito il bimbo dai capelli bianchi. “E invece sentiamo il tuo?”.

La tartaruga si bloccò. Il suo nome, da quanto non lo pronunciava? Chi era? O meglio, chi era diventato?
“Io… il mio nome… mi chiamo…” la tartaruga sospirò. Non era più il ragazzo di trent’anni prima, non era più nulla senza la sua famiglia. Era tutti e nessuno. Che fosse Michelangelo, Donatello, Raffaello o Leonardo forse non lo sapeva più nemmeno lui.
Iniziò a fasciare la caviglia senza rispondere.
“Ahi! Fai piano accidenti!”
“Scusami” si mortificò la tartaruga continuando nel suo lavoro.
“Allora? Il tuo nome?”
“Io… Mi chiamo Splinter”.
“Splinter?”
“E già!”. Ci fu silenzio, ma Splinter decise di interromperlo. “Dunque, ho quasi finito di fasciarti la caviglia. Appena avrò fatto, si va dritti a casa tua. Dove si trova?”.
“Non te lo dico!”.
“E invece me lo dirai” si innervosì la tartaruga.
“Senti, io non ti ho chiesto nulla, sei tu che hai voluto aiutarmi. Puoi andare per la tua strada per quanto mi riguarda”.
“Certo e secondo te io lascerei un bambino albino, cieco e ora anche zoppo tutto solo! Tanto vale consegnarti ai militari e prendermi una ricompensa”.
“Allora perché non lo fai?” sputò di rabbia il bambino. “Sono un peso per mio padre e mio zio, vivo come un carcerato perché se mi vedessero i militari mi ucciderebbero solo perché ho i capelli bianchi, perché non rispetto gli standard della razza pura tanto tornata di moda. È una colpa essere diversi?”.

Elle aveva ragione, ma come spiegare ad un bambino che la guerra tira fuori il peggio dalle persone e le riduce ad odiare il prossimo solo per paura?  Splinter era un mutante, ha vissuto con lo stesso risentimento del ragazzo per tutta la vita. Lo comprendeva molto di più di quanto il bambino potesse immaginare.
“Elle… Tuo padre, ti ha fatto pesare la tua diversità?”.
“No, anzi. Lui lo capisce, perché è diverso come me”.
“Perciò, cosa ti fa pensare che lui ti odi?”.
“Non lo penso”.
“E allora dimmi la verità. Perché sei scappato?”.
Il ragazzo era stato smascherato, la tartaruga aveva letto nel suo animo che c’era qualcosa di puro e non era di certo odio, ma amore. Quello vero, quello che solo un figlio può comprendere.
“Sono andato via per cercare mio zio”.
“Non hai detto che vivi con tuo padre e tuo zio?”.
“Si certo. Ma loro hanno un fratello disperso. Mio zio dice che è morto, mio padre sostiene che è da qualche parte e che un giorno tornerà. Il mio papà soffre molto per questo anche se me lo nasconde in tutti i modi. Io non sono stupido, lo sento che piange di notte e che è spesso perseguitato dagli incubi; ogni volta chiama suo fratello”.
Splinter si prese qualche secondo di riflessione, scorgeva verità in quelle parole; il ragazzo era sincero e coraggioso. Anche se un po’ folle da parte sua avventurarsi nell’ignoto alla ricerca di un uomo che probabilmente era morto.

Il tempo scorreva e la luce minacciava di scomparire. Le prime stelle brillavano in cielo.
“Senti piccolo. Facciamo un patto, io ora ti riporto a casa…”.
“Ma…” interruppe il ragazzo.
“No, lasciami finire. Ti riporto a casa perché non posso tollerare che un padre stia piangendo la scomparsa del proprio figlio. Lo capisci?”
Non ci fu risposta.
“Una volta che sarai al sicuro, andrò a cercare io stesso tuo zio”.
Elle sgranò gli occhi di felicità. Rimase in silenzio e continuò ad ascoltare, nello stesso modo in cui ascoltava le parole sagge del suo papà.
“Una volta. Tanti e tanti anni fa, era un bambino come te e avevo un padre e tre fratelli. Li amavo, erano la mia vita, erano tutto per me. Ma un giorno…” la voce si fece incerta, Elle capì che Splinter stava piangendo. “Un giorno ci fu un’esplosione... Non li ho mai più visti. Sono vivo per miracolo e da allora vago senza meta. Senza uno scopo. Il mio mondo erano loro, solo loro”.
Splinter si asciugò le lacrime col dorso della mano.
“Perciò ti prego. Io ho perso tutto, tu no. Non permettere che accada. Torna a casa”.
Elle abbassò la testa piangendo, le parole della tartaruga gli avevano toccato il cuore, si pentiva di essere scappato, le sue intenzioni erano nobili, ma sciocche. Sapeva che quasi sicuramente sarebbe morto. Desiderava solo mostrare il proprio coraggio, la propria forza nonostante la sua diversità e la sua disabilità, ma soprattutto voleva rendere felice suo padre.
“Mi dispiace, sono stato stupido” il ragazzo scoppiò in lacrime, pentito delle sue azioni. Splinter abbandonò l’immaginaria corazza che si era creato, ne aveva già una bella pesante sulla schiena che portava dalla sua nascita ed era reale, non gliene serviva una immaginaria che scacciava fuori il poco di umanità che era rimasto nel mondo; senza pensarci due volte, abbracciò il bambino.

Un abbraccio.

Quanto lontano era quel ricordo ora tramutato in realtà. Chi era stato l’ultimo che aveva abbracciato? Non aveva più importanza. Dimenticò il mondo nero e tenebroso e in quella stretta ricambiata da un bambino sconosciuto, lui riassaporò il calore dei fratelli.
Gli mancavano tanto.
“Leonardo!! Leonardooooooo!” urlava una voce straziata e disperata. “Leonardo ti prego rispondi!”.
“Elle… Leooooo…. Dove sei?” era una seconda voce, meno profonda della prima, ma pur sempre angosciata.
Splinter si staccò dall’abbraccio con gli occhi sgranati, stringendo entrambe le mani sulle spalle di Elle.
“Come ti chiami ragazzo?”
“Mio zio Donatello mi chiama Elle… raramente Leo. Gli fa male ricordare suo fratello maggiore nel mio nome. E mio padre mi chiama sempre e solo Leonardo”.
Il bambino sorrise commosso “ora ti vedo”. Leonardo toccò delicatamente il viso della tartaruga guardandolo per la prima volta. Era come il volto di suo padre.
“Ora ti vedo zio Michelangelo. Ti ho trovato”.
Le foglie si aprirono a ventaglio alla sinistra di Leo ed apparvero le due tartarughe.
“Leonardo!!” sorrise Raffaello nell’aver ritrovato il proprio figlio e subito si catapultò su di lui senza pensarci due volte. Gli ci volle un minuto per realizzare quello che i suoi occhi avevano già visto.

Quiete.

Raffaello si staccò dal figlio e voltò la testa per trovarsi a trenta centimetri da Michelangelo. Gli occhi di entrambi si riempirono di lacrime.
“Fr..fratello mio… M…Mikey”.
“Raphie… D…Donnie…”.
Donatello non parlò, corse gettandosi a capofitto su entrambi i fratelli, li avvolse in un unico abbraccio come quando erano adolescenti.
Si strinsero, piansero, sorrisero, si baciarono, si guardarono.
I loro volti erano vecchi e segnati da rughe e cicatrici, ma il loro amore era rimasto immutato, perché niente al mondo poteva cambiare ciò che da sempre erano e per l’eternità sarebbero stati: fratelli.

Il bambino non poté guardare la scena con i propri occhi, lo fece col cuore. E col cuore rivolse lo sguardo al cielo in una notte magicamente stellata come non vi era da tanto tempo.
“Grazie zio Leonardo. Grazie”.
 

 
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*KODACHI: è una spada giapponese. Troppo corta per essere considerata come una spada lunga, ma troppo lunga per essere un pugnale. Grazie alle sue dimensioni, può essere estratto e utilizzato molto rapidamente.
   
 
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