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Autore: MassimilianoR    12/02/2022    0 recensioni
Ludovica è solo la storia di come ho ucciso un pensiero. Di come l’ho afflitto e l’ho sconfitto, una legittima difesa praticata ad armi impari, ma necessaria. Vietato vederci oltre.
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pensò di scrivere di lei seduto a un bar dell’università. Era un’amica di amici e a dire il vero, non gli piaceva granché; con quella bocca arcuata e quel pallore bluastro in viso.
Giovanni intese che tutto in lei – quell’anacronistico colletto in pizzo bianco, il modo in cui giocava ad intrecciarsi i capelli- fosse studiato per impersonare una precisa tipologia di donna piacente. Di certo, riflettava taciturno, non poteva biasimare il presentimento che desiderasse compiacere gli altri.
Per vero, aveva da tempo compreso la misericordia e la comprensione che gli sollecitavano gli estranei, rispetto a chi, non essendolo, non riscuoteva in lui affatto né l’una ne l’altra, cosicchè gli pareva d’aver la stizza dello spettatore del cinema in prima fila che non riesce a vedere nitidamente lo schermo troppo vicino. E preso da questo flusso di pensieri, Ludovica -ribatettezzata così per le esigenze della penna- gli sembrava un ottimo argomento proprio perché estranea pescata a caso tra i tanti estranei e così, conoscendone la sola figura, gli pareva che per raccontarla ci avrebbe poi scritto più di quello che aveva dentro lui, del turbinio di sentimenti e desideri che, ultimamente, gli riusciva difficile etichettare. Quella giovane donna avrebbe rappresentato null’altro che un mezzo,  una manciata di ossa e muscoli cui riferire, attorno a cui far vorticare la sua storia di fantasia.
Non s’erano detti granchè durante quella colazione, la donna l’aveva guardato vuotamente per un po’ mentre ambedue tacevano e l’amico aveva tenuto banco per mezz’ora circa parlando di esami, alfine s’era fatto tardi e Giovanni aveva fatto ritorno a casa, assorto.
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Le lancette dell’orologio da camino scossero Giovanni che, intorpidito, si alzò dal divano e si condusse nello studiolo accanto al soggiorno:  Sergio non c’era. Si sospinse dalla sedia alla scrivania, coi pugni sul legno, prese il foglio e lo scrutò. Era quasi sera. Ripescò ancora con la mente quel suo progetto di scrivere e, all’improvviso se ne spaventò; l’ idea che fosse una idea becera prese esponenzialmente piede avverso le sue fantasia. Ora, d’un tratto, anzi, s’agitava.
Giovanni, se avesse fatto testamento, ci avrebbe scritto: lascio una casa borghese, con famiglia borghese e un salotto borghese, ma in segno di parodica ribellione, talmente bonaria, chè forse persino suo fratello, leggendolo, non si sarebbe nemmeno degnato di cestinarlo.
Sergio, il predetto fratello, faceva l’avvocato ed aveva questo studiolo dove sovente Giovanni si rifugiava – non era forse anche questa abitudine borghese?- quando era inoccupato. In verità, Sergio ci passava intere giornate in quella stanza perché Giovanni ci passasse il suo. Fumava, beveva brandy e non sembrava affatto assorto nel lavoro, sempre che ne avesse uno di cui si potesse dire assorti: lavorava nello studio legale di famiglia ed era considerato pigro, della giurisprudenza aveva solo l’autorità del buon avvocato e soleva limitarsi a fare un’ottima impressione a chi in quello studio sì ci andava per assumerne uno e che tuttavia, suo malgrado, era sempre suo zio. Comunque, tutti comprendevano  –ma mai ad alta voce- come fosse difficile la sua posizone rispetto al principe del foro, al gran avvocatone, che era contento di lasciare il passo solo a chi era venuto dal nulla come lui, certo non Sergio.
Del resto, anche Giovanni era iscritto a giurisprudenza e guardava alle sue attitudini artistiche piuttosto come un vizio, non più serio dall’alzare un il gomito con gli amici, e non si illudeva un giorno di guadagnarsi qualcosa di diverso, con la sua laurea, di una stanzetta in cui tenere in ostaggio i propri sogni, ma non se ne dispiaceva ed, anzi.
Era pur vero che tutti quegli esami da fare non avrebbero avanzato spazio a vaniloqui, se solo. Se solo, col passare delle ore, Giovanni non se ne convincesse sempre più: non era stato lui a selezionare Ludovica, casualmente, tra un branco di anime, ma lei che aveva qualcosa da raccontare, un tormento. Perché allora se ne sarebbe stata seduta a quel caffè tutte le mattine – Giovanni se ne rammentava spesso- e spesso di fronte a lui, con quelle manine tremolanti – per seccatuture fisiche o, forse, mera nevrastenia? -, sorseggiando il suo caffè?
Giovanni l’aveva scrutata dapprima un paio di volte, senza fantasia, e s’era solo fatto un impressione di una donna nient’affatto bella, nonostante la casta simmetria del viso bianco, e questo si spiegava, giacchè, precipuamente, s’era sempre detto attratto dalle donne coi grandi occhi tondi e la bocca rossa e burrosa, ispiratrice di baci entro cui potersi riparare. Le donne, insomma, che invocavano un accorato anelito di calore e questa, con i suoi lineamenti precisi e duri, aveva, semma,i il fascino dell’istitutrice.
Inoltre, Giovanni, sapendo d’andare in controtendenza, non preferiva gli occhi azzurri e quella donna ne aveva, quasi a fargli un dispetto, un paio di glaciali schiaffati in viso, che le conferivano uno sguardo ancora più austero e indagatore. Però, a guardarla bene, il tremolio delle mani raccontava una storia diversa e, sebbene a prima vista questo paradosso potesse arrecare un certo fastidio, come d’un aria di disordinata sregolatezza, non era esente da fascino, quantomeno d’un fascino artistico o letterario che dir si potesse.
Si disse che l’avrebbe infilata docilemente in qualche dramma d’omicidi e di passioni turbolente che nelle donne come lei, nella realtà, sono uma chimera; per converso, nell’arte ne sono regine indiscusse, non avulse da un certo qual fascino per i lettori e, del resto, a qualcheduno davvero anche una come lei ne avrebbe dovuto ispirare parecchio.
   
 
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