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Autore: crazyfred    15/02/2022    3 recensioni
Questa storia partecipa alla Fast Challenge: Treni indetta sul gruppo facebook Il Giardino di Efp.
Nunzia è una giovane cameriera alla corte dei Borbone di Napoli. Non ha avuto granché dalla vita, ed è insoddisfatta della sua posizione. Quel giorno però, a Napoli, tutto sta per cambiare.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa alla Fast Challenge: Treni indetta sul gruppo facebook Il Giardino di Efp
Prompt 16. Vedere il vapore di una locomotiva in lontananza
Prompt 23. Guardare i treni passare




 
3 ottobre 1839
 
 
A Napoli non si parlava d’altro. Da Palazzo Reale, scendendo per le strade eleganti del centro, nei palazzi nobiliari, nei caffè borghesi, tra i guantai di via Toledo. Si leggeva sui giornali stirati di fresco dai maggiordomi, per non macchiare le mani del padrone, lo urlavano gli strilloni nelle piazze con le loro copie sgualcite e macchiate da mani unte e sporche. Gli scugnizzi l’avevano sentito dire dai signori nei calessi a Santa Lucia a cui avevano sfilavano monete e orologi da taschino senza che se ne accorgessero, così presi ad imprimere nella loro memoria l’immagine viva, colorata ed indimenticabile dei pescatori con i loro banchi del pesce, del golfo e, sullo sfondo, ben visibile, il Vesuvio, imponente e minaccioso. E l’avevano saputo anche ai Quartieri, tra i vicoli stretti e altri, dove la luce non arriva nemmeno a mezzogiorno, dai bassi fino ai balconi dell’ultimo piano, di voce in voce: lì, qualunque famiglia avrebbe giurato di averlo saputo dal figlio di una cugina acquisita di una sorella che lavorava da questo o quel signorotto, e di essere la fonte più attendibile per ogni notizia e resoconto dettagliato.
A Napoli stava arrivando il treno.
Anche Nunzia, come tutto il resto di Napoli, aveva saputo della grande novità. A dispetto dei suoi bei vestiti e delle camicie ricamate, lei lo aveva saputo per bocca delle sue padrone. Purtroppo, Nunzia non sapeva leggere o per meglio dire lo aveva dimenticato. Che poi ci era pure andata a scuola, fino alla terza elementare, quel po’ che bastava per fare qualche conto e mettere la firma, ma troppo poco per aprire un libro o un giornale. Per le persone come lei, d’altronde, erano le mani a mettere il pane sulla tavola, non le favolette dei libri, che di soldi a casa sua non ce ne stavano e le bocche da sfamare erano troppe; sua madre che, nonostante le sue lacrime, l’aveva portata a servizio togliendola dalla scuola, ripeteva sempre: “A cosa serve tutto quel parlare pulito e la bella scrittura quando alla fine pure tra re e principi e duchi, se c’è da risolvere un problema, si finisce sempre a botte, come tra la gente normale … solo un po’ più in grande, con eserciti e cannoni”.
E le mani di Nunzia, alla fine, erano state davvero la sua fortuna. Come acconciava lei i capelli, pochi erano in grado di farlo, e tutti le dicevano che era una mastra per lavarli e strecciarli. Dopo una settimana, le dicevano le sue padrone, sembravano ancora come appena lavati. A vent’anni, mentre le sue vecchie compagne del quartiere erano sposate e con due o tre figli, lei era la cameriera personale di donna Maria Carolina e donna Teresa Cristina. No, non delle signorine a caso, ma proprio le principesse, le sorelle del re: quando incominci a lavorare a 9 anni non te lo ricordi nemmeno perché o per come accadono le cose. Si ricordava solo cosa aveva comprato con la sua prima paga di palazzo: un paio di stivaletti nuovi, neri e lucidi, perché i suoi erano così logori, duri da farle male ad ogni passo, e lei di passi ne faceva così tanti ogni giorno che non riusciva a contarli, su e giù per le scale del palazzo. E con quella successiva il primo abito tutto suo, che nessuno aveva indossato prima di lei, senza toppe, bruciature o macchie tolte alla buona. Era di un cotone piuttosto grezzo, il colore di un beige destinato ad ingiallire, ma i fiorellini rossi e le maniche a palloncino la facevano sentire una principessa.
Seduti attorno ad un lungo tavolo di legno, le donne ad un lato e gli uomini dall’altro, si faceva colazione con quel po’ di latte che rimaneva dalle colazioni di tutta la corte, caffè centellinato e del pane raffermo da bagnare. Non era un granché la loro colazione, ma a pranzo i maccheroni non mancavano mai e poi, salite al piano nobiliare, lei e le altre donne di servizio si spartivano i biscotti che le principesse lasciava nelle biscottiere d’argento delle loro camere e venivano cambiati ogni giorno. Così, si riusciva a tirare fino a mezzogiorno senza i morsi della fame. Dunque quella mattina si faceva colazione e tutti dicevano la loro sull’evento del giorno.
A capotavola c’era il maggiordomo, anche se a corte ce n’erano altri quattro che avevano quel titolo ed erano cento volte più nobili di lui: ma lui era il Padreterno della servitù, che disponeva di tutti e tutte a suo piacimento; era più corretto dire che, seduto sulla sua sedia come fosse un trono, non guardava in faccia a nessuno e si faceva sentire solo per dispensare grazie e punizioni. Nunzia non sapeva molto di lui, si poteva dire in effetti che non sapeva nulla, tutti lo chiamavano Don Antonio e dovevano tenere la faccia al pavimento quando lui passava di fianco. Fervente monarchico, subito dopo le preghiere del mattino, prima di permettere a tutti di sedere, si era lasciato andare ad un lungo discorso patriottico. “Questa giornata entrerà nei libri di storia, Sua Maestà il Re Ferdinando ha portato il treno nella penisola italiana per primo. Ora sì che i piemontesi e persino il Papa, che il signore mi perdoni, schiatteranno tutti d’invidia” Nunzia si coprì la bocca con il fazzoletto, fingendo un colpo di tosse: non poteva non ridere di fronte ad un discorso così forbito, che pareva quasi il sindaco, intervallato dal napoletano. Anche se, lo sapevano tutti a Napoli, persino o’ Rre parlava napoletano, quindi perché don Antonio avrebbe dovuto essere da meno. “E con questa grande novità, tutto il regno farà nu sacc ‘e sord, ci starà la fatica per tutti e un sacco di nuove imprese”
Poi c’era Vincenzo, uno dei tanti valletti che, senza farsi troppo sentire di nascosto nei sottoscala, fumando una sigaretta di contrabbando al volo, sosteneva tutto il contrario: “Sentite a me!” esclamava con aria altezzosa “questa storia della strada ferrata è tutta una mistificazione! O’ rre s’è fatte o’ pazziariello…il giocattolo. Mica è per la gente povera, per le fabbriche…lui vuole solo muoversi dalla tenuta di caccia a Napoli ambress ambress e più comodamente. Guarda caso proprio da Portici si parte”
Vincenzo era un mazziniano, lo sapevano tutti che fosse stato per lui sarebbe partito e se ne sarebbe andato a Londra o in Svizzera a fare … beh qualsiasi cosa facevano gli esuli politici. Ma Nunzia questi discorsi li capiva solo a metà, lei che si inchinava con rispetto davanti ad ogni gran dama del palazzo perché era così che bisognava fare e la domenica andava a messa perché così le era stato insegnato. Le avevano insegnato che non stava bene che una donna si facesse troppe domande: lei aveva i suoi stivaletti di cuoio, il suo vestitino a fiori e non doveva avere bisogno d’altro; al massimo un marito, che iniziava a tenere una certa età. Vincenzo invece le domande se le faceva eccome, ma teneva famiglia e doveva faticare e doveva ringraziare pure che suo zio gli aveva trovato quel santo posto. E così borbottava a bassa voce e a nessuno dava fastidio: pure loro tenevano famiglia e si facevano i fatti loro.
Se uno ci rifletteva bene, alla fine, il dubbio che quello che Vincenzo diceva era vero veniva pure. Perché per inaugurare sto benedetto treno, tutta la famiglia reale e la corte si era trasferita a Portici, perché il re teneva fretta di farlo vedere a tutti ma stazione al Carmine a Napoli non era ancora pronta, così sarebbero partiti dalla stazione di Portici. Queste erano le parole di Donna Teresa Cristina e lei era di famiglia, di certo le cose le sapeva meglio di un valletto mazziniano. A Nunzia, però, tutte quelle politicherie, come le chiamava lei, sul treno non interessavano minimamente. Lei voleva solo vedere con i suoi occhi quella macchina che aveva visto su una stampa nel salottino delle principesse e di cui tutti parlavano senza capirci una mazza. Il rumore, la nuvola di fumo…a lei che per fare un’addizione servivano le mani, l’idea che una carrozza potesse muoversi senza nemmeno un asino o un mulo, sembrava arrivare dal cielo, come un miracolo. Qualcuno pensava fosse opera del diavolo, un’alchimia, ma come poteva esserlo se il re era persona tanto devota e l’aveva ordinata lui stesso?
La partenza era prevista per mezzogiorno: avrebbe preparato le principessine di buon’ora e via di filato con i carri per la servitù verso Napoli, perché a Palazzo ci sarebbero stati dei grandi festeggiamenti e le principesse avrebbero dovuto cambiarsi d’abito. Aveva sentito dire che il treno, questo nuovo marchingegno di cui tutti parlavano, produceva fumo in quantità, come le ciminiere di una fornace. A lei non sembrava il mezzo più adatto per delle gran dame come le sue padrone e ancor di più era stupita che avessero scelto degli abiti chiari in per viaggiare su carrozze spinte a carbone che sputano fumo. Ma certo non stava a lei far cambiare loro idea, che ne sapeva lei di strade ferrate e vaporiere.
“Ci andrai tu sul treno Nunzia?” le domandò la più grande delle due principesse, Maria Carolina. “Non lo so altezza, troppe persone più importanti di me avranno la precedenza” “Oggi si sale in carrozza solo per invito” le spiegò l’altra “ma da domani ci saranno i biglietti, come ai caroselli delle fiere … o almeno così ha detto nostro fratello, noi alle fiere non ci possiamo andare” “Teresa, non puoi dire nostro fratello davanti alla servitù. Devi dire Sua Maestà” “Eh ma sempre nostro fratello rimane!”
Di un paio di anni più piccole di Nunzia, le due principesse sembravano molto più bambine di quanto la loro età non imponesse. Di sicuro, molto di più delle ragazze che vivevano nel suo quartiere costrette a maritarsi giovani per togliere una bocca dal piatto dei genitori. E loro invece, cresciute nella bambagia, tra gli agi e le comodità della corte, non avevano avuto nessun divertimento al di fuori delle passeggiate nei giardini. Tutto il resto, i lunghi ricevimenti e persino le serate nel palco reale a San Carlo, una lunga passerella di incontri formali, messa in mostra di sé come fa il sacerdote con l’ostia a Messa, inchini, riverenze e nessuna parola scambiata con sconosciuti. Quella giornata, in fondo, era speciale anche per loro.
“Donna Margherita” si raccomandò, in disparte, alla dama di compagnia delle principesse, prima di tornare ai piani inferiori “i cappelli delle principessine sono sui letti e gli spilloni sulle tolette, ci pensate voi? I carretti sono pronti, io devo tornare a Napoli a preparare il necessario per il rientro” “Corri Nunzia, non ti preoccupare, non possiamo correre il rischio che tu rimanga a Portici”
In fretta e furia scese le scale di servizio, fiondandosi nell’ingresso della servitù, dove tutti aspettavano con impazienza le cameriere e i valletti personali della famiglia. La cameriera di Donna Margherita, con cui condivideva la stanza nel sottotetto, la stava aspettando vicino ad uno dei carretti, con la mantellina e il cappello stretti tra le braccia e la sua borsa di tela. “Grazie Ninù!” le disse, gentile, togliendosi il grembiule e la cuffietta, appallottolandoli nella borsa. “Stai attenta, se Don Antonio ti vede con il grembiule sgualcito addosso ti vatte” “Non ti preoccupare, a Palazzo Reale tengo già la riserva pronta” Mise la mantellina addosso e allacciò il cappellino di paglia sotto al mento, con un grazioso nastro a righe verde oliva che le avevano regalato le principesse e tutto sommato si abbinava bene con l’abito più scuro e sobrio che indossava quando era in servizio e la mantellina rosa antico.
Lungo la strada che li riportava a Napoli, la gente era in gran fermento: uomini, donne e bambini di ogni ceto accorrevano verso il punto più favorevole, nella loro frazione, nel loro paese, per vedere il grande spettacolo che era stato promesso. Del resto … chi mai aveva visto una macchina che cammina da sola e si trascina dietro carri e carrozze. Le signore nei loro abiti ricchi e i cappelli stravaganti, le popolane con il vestito della festa, nessuno mancava: persino nel mare, in lontananza, le barche quella mattina si erano appostate il più vicino a riva possibile, là dove la via ferrata avrebbe costeggiato la spiaggia. C’era chi, a causa della lunga attesa, per non perdere il posto migliore, si era portato la sedia da casa come fosse a teatro. Sulle terrazze delle ville più importanti, gentiluomini e dame facevano festa, come se per loro fosse necessario un pretesto. “Ho sentito che al Granatello hanno fatto una cosa esaggerata!” spiegò Filomena, la cameriera della regina. Era nata alla Sanità, ma per un periodo aveva lavorato a servizio da una principessa parigina e si dava grandi arie di donna vissuta, rispetto a tutte le altre. Ma, come diceva Ninuccia, pure a lei la mattina toccava raccogliere il real vaso da notte da sott’ o lietto. “Pare che hanno costruito tre tendoni per la famiglia, la corte, i ministri e gli ambasciatori. E pure un altare col vescovo per la benedizione. E sul treno ci sale pure la banda” “Pure la banda?” “Eh pure la banda!” “Oh Ninù che peccato che noi non possiamo vederli” sospirò verso la sua amica. “Nuie faticamm Nunziatì, se potevamo andare a vedere il treno non stavamo cca” rispose Nina, più cinica di lei.
Era ormai quasi mezzogiorno e la loro comitiva era arrivata a Napoli e da lontano, si sentì uno sparo di artiglieria a cui fece eco, più forte e più vicino, lo scoppio di un cannone. Nunzia e le altre donne sul carretto sussultarono per il boato inaspettato. Don Antonio, incuriosito, diede ordine di fermare il convoglio e scese dal suo piccolo calesse personale per controllare cosa stesse accadendo. Si affacciò lungo via dei Fossi “Don Antò! Facite ambress che è quasi mezzogiorno” gli urlò il suo cocchiere. “Sì sì un attimo … tanto lo sai come vanno queste cose, tra cortei, salamelecchi, bombe a mano e tric e trac prima di un’ora e mezza non si vedrà anima viva a palazzo” con uno sguardo che nessuno aveva visto in Don Antonio fino a quel giorno, febbricitante e sognante come quello di un bambino, tornò sul calesse e rubò le redini al suo cocchiere “venite appresso a me!”
Girò il cavallo e tutti, perplessi e stupiti lo seguirono, al trotto sui vari carretti, pur non avendo idea di quale fossero le sue intenzioni. Vincenzo era convinto che Don Antonio fosse impazzito, che tutto quello spirito monarchico finalmente gli si fosse ritorto contro. Ninuccia, invece, sperava che Don Antonio non stesse dando troppe speranze alla sua fantasia. Lungo la strada che costeggiava la spiaggia e il mare non riusciva proprio a godersi il sole di quegli ultimi giorni di autunno prima delle mareggiate invernali e dei cieli grigi. Il pensiero di quella novità, che aveva prefigurato e sognato per un’intera settimana, non le permetteva di pensare ad altro. Mentre seguivano Don Antonio, un fischio acuto e prolungato attirò l’attenzione di tutti e ridestò l’attenzione di Nunzia: era una cosa che non aveva mai sentito prima, soprattutto in mezzo alle case. Ninuccia, al suo fianco, si fece un segno di croce e lei sorrise e si sentì sollevata, perché non era sembrato un suono infernale solo a lei. Che fosse quello il treno?
Nel frattempo si erano fermati nel punto esatto in cui la strada affiancava la strada ferrata. Non che si vedesse granché, ma la folla era ammassata lungo una piccola striscia di strada e i balconi erano talmente pieni di persone che c’era da avere paura che qualcuno cadesse giù sporgendosi un po’ troppo o crollassero. Il baccano sembrava quello della folla che aspettava che il miracolo di San Gennaro si ripetesse: in fibrillazione, impaziente, ma allo stesso tempo in attesa di qualcosa che non sapevano neanche loro cosa fosse.
All’improvviso, di nuovo quel fischio, questa volta breve e ripetuto. Il cuore di Nunzia iniziava a battere forte. Istintivamente, si mise in piedi sul carretto, provando a carpire qualcosa al di fuori dell’ordinario oltre la folla. Tra gli edifici, una strana macchina nera e rossa si avvicinava, muovendosi da sola, senza uomini a tirarla, senza animali a trainarla e un’alta ciminiera nera che lasciava una scia di fumo grigio e un’altra, più piccola, bianca. E poi c’era il rumore: era come se un temporale, con tuoni e nuvoloni fosse sceso in terra ma avesse dimenticato la pioggia.
Tutti facevano domande: come era possibile che un uomo, da solo, riuscisse a manovrare quella bestia fumante, che si muovesse da sola con solo acqua e carbone.  Nunzia invece era da un’altra parte. I suoi occhi sembravano attenti a quello che succedeva, eppure la sua mente era altrove: lei era sopra quella nuvola. Sopra il treno e ancora più su. E ora lo vedeva il mare ottobrino e si immaginava anche le isole in lontananza, Ischia, Procida e Capri, era di spalle eppure riusciva a scorgere i riflessi del sole sull’acqua come fossero tanti specchietti. E immaginava le colline che scorrevano dolci fuori Napoli, i vigneti ormai spogli dopo la vendemmia e gli uliveti pronti per la raccolta. Rivedeva quei volti che aveva incrociato per strade … le nobildonne dai vestiti di seta pura e i contadini con la faccia bruciata dal sole.
Per tutti, come per lei, quel treno era una speranza. Non era la disillusione di Vincenzo o la certezza di Don Antonio o la paura di Ninuccia. Era il futuro, diverso per ciascuno come loro, per ognuno come se lo immaginava: per Nunzia era poter viaggiare e vedere nuovi mondi, poter provare ad allentare fame e miseria, certo, ma soprattutto essere qualcosa al di fuori di quello che la sua nascita aveva deciso per lei, estraendo a sorte. Quella nuvola avrebbe lasciato dietro di sé la nebbia della consuetudine, del si è sempre fatto così. Chissà … forse alla fine sarebbe rimasto tutto com’era, lei avrebbe comunque continuato a fare la capera e non avrebbe saputo né leggere né scrivere, ma lei sarebbe cambiata: c’era così tanto da poter vedere fuori dal finestrino, ne era sicura, che non si poteva scendere dalla carrozza allo stesso modo come si era saliti.
E in quel momento Nunzia aveva la risposta alla domanda della principessa: anche lei avrebbe preso quel treno, tutti i treni che sarebbero passati.


 
 

Salve a tutti! Questa è la mia primissima challenge, spero di aver rispettato tutti i requisiti. Amo la storia e con i treni non potevo non raccontare un pezzetto di storia del nostro paese. La prima ferrovia in Italia, la Napoli-Portici.
Spero i lettori napoletani mi perdoneranno per come ho maltrattato la loro bellissima lingua e ci tengo a precisare che anche nella narrazione, mi sono concessa uno stile che potesse ricordare una cadenza regionale, più che una "lingua" corretta in tutte le sue forme.
Spero vi piaccia. 
Fred ^_^
   
 
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