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Autore: _etriet_    18/02/2022    1 recensioni
La vita è fatta di morali, di discorsi silenziosi che si imparano e si fanno man mano che si vive, un po' a gesti, un po' a parole, e poi un po' con tutti e due.
Come una scalinata fatta in silenzio, in cui i gradini appena fatti si cancellano autodistruggendosi dopo pochi secondi, e non rimane nient'altro se non la scelta di continuare, o rischiare di perdere l'equilibrio fermandosi.
Perché ad ogni passo avanti corrisponde uno sbilanciamento, fisico, morale e psicologico.
Veronica Lisi è sempre stata di idee chiare, ha sempre basato la propria vita su principi fondamentali, come quello che il passato non si cancella, si descrive, che il presente non va guardato, va vissuto, e che il futuro non deve essere sognato, ma costruito; mette tutta se stessa per portare avanti le cose al meglio.
La sua quotidianità, tuttavia, viene sconvolta nel giro di nemmeno un mese, e pur di vedere sua madre felice, cambia tutte le carte in tavola, prende, fa le valige e parte verso qualcosa a lei sconosciuto.
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Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Quella mattina profumava come una semplice e comune giornata d'inizio settembre, con i ragazzi che si godevano i pochi momenti di libertà prima di rimettere la testa sui libri, i tuffi in mare, ora un po' più freddo, le grida dei turisti stranieri sulle spiagge, le lenzuola messe ad asciugare sui balconi più alti dei palazzi, che mosse dal vento sembravano onde bianche che si infrangevano nel cielo. Quella mattina aveva un certo sapore aspro di rammarico, di nostalgia, un certo che di fine estate che portava le persone a passeggiare nei parchi, i cui alberi erano ancora coperti da foglie verdi, e queste quasi splendevano sotto il sole, come a voler dire che loro c'erano ancora, che non tutto era finito. In pochi sentivano quel senso di amarezza, eppure, quelle poche foglie già cadute facevano notare un po' spavaldamente come sempre di più la stagione stesse cambiando, come presto la natura sarebbe stata più cupa, simile a un urlo silenzioso che avrebbe tolto ogni linfa di vita.

Non ci credeva molto negli Dei, eppure, mentre si tirava dietro la valigia fino alla stazione dei treni e si osservava intorno, pensava sempre di più al mito greco di Demetra e Persefone, un modo come un altro di dare una spiegazione mitica a ciò che, di per sé, non aveva niente di mitico.

Quella mattina sembrava avere il solito sapore d'inizio settembre, il sapore di una lunga rinascita e certificazione delle proprie abilità; perché settembre aveva sempre avuto quel carattere contrastante di perenne incoerenza, diviso a metà tra la nascita e la morte: in un certo senso capiva perché proprio quello fosse il suo mese preferito. Però quel particolare mese di settembre non le dava un chissà quale motivo per essere amato, anzi: quasi lo detestava con tutta sé stessa; perché mai come allora aveva cambiato la sua vita.

Lei camminava, camminava veloce per le vie della città, sotto i portici, in mezzo alla strada, al bordo delle righe, l'importante era fare in fretta, tanto che quando le sue scarpe toccavano il suolo facevano un rumore sordo, quasi inudibile, palpabile solo a un orecchio fine. Pareva quasi che avesse qualcosa da perdere, ed era perfettamente vero; perché nonostante camminare sotto il sole di settembre non fosse al pari di camminare sotto a quello di agosto, le sembrava che il tempo scorresse molto più lentamente del vero, e questo l'aveva portata a quella familiare sensazione di essersi dimenticata qualcosa, qualcosa che assomigliava molto all'orario del treno su cui sarebbe dovuta salire; forse ci sarebbe anche riuscita forzando di più la corsa, ma non lo sapeva nemmeno lei. La sua valigia, al contrario delle sue scarpe, faceva un rumore che era perfettamente udibile, sui ciottoli, dove in quel momento i suoi piedi camminavano svelti, le ruote si scontrano con la pietra e talvolta ci si incastrano anche, poi, finalmente, come una visione paradisiaca, la stazione dei treni si era palesata davanti a lei, facendola fermare un attimo, il fiato corto e la leggerezza nel cuore. Il biglietto lo aveva già, incastrato in una tasca dei suoi mom jeans, quindi le era bastato prendere la valigia dal manico più corto, scendere e salire le scale fino ad arrivare al binario che era stato predestinato al suo treno. Era stata fortunata, visto che avrebbe dovuto fare una corsa unica fino a Treviso, senza dover scalare in città che non conosceva. Le piaceva viaggiare in treno, molto più che in aereo o in macchina, poiché quel piccolo pezzo di mondo passava davanti ai suoi occhi come in un filmato, e a lei pareva di stare ferma lì, a guardare tutto quel movimento, senza accorgersi che effettivamente si stava spostando anche lei insieme a tutto il resto. Un istante è così breve e intenso che imprimerlo nella propria memoria diventa più semplice quando si è carichi di sentimenti: quella era una di quelle cose che aveva sempre saputo, e che col tempo aveva anche imparato a comprendere, il treno, nella sua mente, rappresentava l'ideale rappresentazione fisica del suo pensiero. Quando si era riscossa dal momento di stallo che si era presa e aveva sentito l'annuncio che da lì a pochi minuti sarebbe arrivato il suo treno, si era alzata dalla valigia, che le aveva fatto da appoggio improvvisato, e aveva timbrato il biglietto, per poi spingersi fino a quaranta centimetri dalla linea gialla. Il treno era arrivato con il suo solito fischio e l'ennesimo annuncio della voce femminile, lei, incurante, aveva lasciato che il vento le scompigliasse i capelli, portandoli un po' da tutte le parti, e aveva chiuso gli occhi, beandosi di quell'istante familiare che la riportava a quando era piccola. Si era incamminata verso i vagoni che sapeva essere i più vuoti, quelli più esterni, e aveva preso posto, spostando la valigia davanti a sé, con la borsa e il borsone sul sedile affianco, poi, aveva atteso che il treno partisse per mettersi gli auricolari.

Aveva già fatto quella corsa, una volta, con sua madre, suo padre e sua sorella, nel periodo delle vacanze natalizie di quando aveva sette anni, in quel caso però, la loro era una semplice visita di cortesia a una cara amica di sua madre e ai suoi figli, nel presente, Veronica doveva andarci per viverci. Non che avesse molta scelta, sua madre le aveva messo davanti due soluzioni, Milano, con sua nonna (e la badante), o Treviso, con la sua amica, e lei, per quanto amasse Milano, non amava sua nonna, quindi aveva preferito zia Angela - si chiamava così l'amica di sua madre - anche se in realtà di zie non ne aveva nemmeno una.

Tutta quella situazione, tuttavia, non era partita esattamente da lei, ma dal lavoro di sua madre; era una fotografa, spesso molto cercata, ed era stata chiamata per fare un servizio in varie parti dell'America, cosa che avrebbe potuto generare una svolta importante per la sua carriera, e non si era sentita in grado di toglierle una tale opportunità. Quindi, semplicemente, aveva accettato tutto quello che era andato dietro alla decisione confermata di sua madre di partire, perché ce ne aveva messo di tempo prima di decidersi seriamente su cosa fare e come farlo, e Veronica aveva detto semplicemente va bene. Quella, era la spiegazione più veloce che sapesse dare sul perché si trovasse su un treno, verso una città che non conosceva, e per giunta, in un'altra regione rispetto alla sua.

Non era passato tanto tempo da quando era salita sul mezzo, poco più di una mezz'oretta forse, eppure si sentiva già così distante da casa, senza un punto di riferimento fisso.

Il mese di settembre era quello in cui, ogni anno, ricominciava la sua semi indipendenza. Non poteva di certo lavorare, era ancora minorenne, ma la maggior parte delle volte si ritrovava da sola a casa, talvolta per pochi giorni, talvolta per settimane intere, e ormai si era abituata a fare tutto da sola. Eppure, quel settembre non era lo stesso di sempre, non sarebbe stata a casa sua con la certezza che, arrivata una certa ora, avrebbe dovuto cucinarsi qualcosa da mangiare, non sarebbe stata nella sua stanza, con la sua libreria affianco e la sua tazza preferita piena di cappuccino, non avrebbe avuto il balconcino che mostrava l'intera città e le permetteva di leggere in un ambiente quasi idilliaco, quella era la sua indipendenza, sapere che qualsiasi cosa sarebbe accaduta lei avrebbe sempre avuto quegli spazi ormai solo suoi per distinguersi e distrarsi da tutto. Ma non sarebbe più stato così, non avrebbe più avuto quelle immagini impresse nella sua mente, che per lei avevano tanto il significato di casa, di calore, semplicemente, da lì a poche ore, tutto quello che aveva sempre conosciuto sarebbe cambiato, e non avrebbe saputo più niente. Tanto che la sua ancora parziale indipendenza, costruita sulle solide basi dell'educazione e della cultura, oltre che dal rispetto e del giudizio, sarebbe semplicemente scomparsa, fino a quando non avrebbe conosciuto a pieno ciò che l'aspettava. Non era così semplice, lasciare tutto e partire, ma lo aveva fatto, l'aveva fatto perché teneva a sua madre, ci teneva tanto che riuscire a vedere il riflesso della pura e genuina felicità nei suoi occhi aveva colmato anche la paura che fin dall'inizio l'aveva colta, e si ripeteva, mentre le immagini di alberi, industrie, città e altri treni si facevano sempre più spesso presenti durante il percorso, che vedere sua madre felice avrebbe colmato qualsiasi cosa. Era sempre stata molto vicina a sua madre, fin da bambina, si ricordava ancora di quando aveva quattro anni e non riusciva a dormire, sua madre, che a quel tempo teneva un taglio di capelli abbastanza lungo, le percorreva con l'indice il sopracciglio sinistro, come quando Veronica non sapeva ancora parlare e in qualche modo doveva rilassarsi, così le faceva quelle dolci carezze per calmarla. Quel ricordo le era rimasto tanto che, quando sua madre era a casa e potevano guardarsi un film insieme, ancora se lo faceva fare. A pensarci bene le sarebbe mancato anche il divano, se lo si vedeva come posto sul cui giravano molti ricordi, dove solitamente si metteva a leggere le storie su Wattpad, accompagnata generalmente da un bicchiere di succo di arancia e un panino al tonno. Leggeva sempre quando ne aveva la possibilità, amava riuscire a incanalare tutto quello che delle semplici parole le facevano provare e trasformarle in qualcosa di più complesso, come immagini tanto vivide nella sua mente che era come se le avesse vissute di prima persona, sensazioni tanto vere da sembrare idilliache, lei leggeva per vivere, per avere quella consapevolezza interiore di sapere sempre di più sul mondo, anche se ne viveva nella realtà dei fatti una parte poco sensazionale e minima, ma nel suo complesso meravigliosa. Nella valigia aveva messo alcuni libri che, nonostante fossero nella sua libreria da molti anni e la incuriosivano da sempre, non riuscivano mai a prenderla sul serio, e si era detta che, in un caso o quell'altro, li avrebbe letti prima o poi, e che era decisamente meglio prima che poi, quindi se li era portati via, insieme al computer portatile, perché il suo adorato fisso non poteva di certo venire con lei, una chiavetta USB piena di cose che aveva ritenuto importanti. Era tremendamente doloroso staccarsi dalla sua quotidianità, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro sui propri passi, ed era una cosa che sapeva anche lei. Il treno aveva preso a rallentare e Veronica, ormai completamente assorta dai propri pensieri, quando aveva visto che si trovava a quasi metà del percorso, si era stupita, poi, presa da un moto di stanchezza, si era accasciata contro al sedile e aveva chiuso gli occhi, beandosi del calore del sole che, attraverso il finestrino, raggiungeva il suo corpo.

Nelle successive ore non aveva fatto niente di entusiasmante, aveva cambiato playlist un paio di volte e letto qualcosa su Wattpad dal telefono, si era scritta con la sua migliore amica e con zia Angela, solo per capire come avrebbe dovuto girarsi nella stazione dei treni di Treviso e soprattutto cosa sarebbe successo quando sarebbe arrivata, sua zia l'aveva rassicurata, dicendole che ci sarebbe stata lei e suo figlio maggiore, visto che il minore era fuori e non aveva nemmeno preso la briga di ricordarsi che lei sarebbe arrivata.

Poco male, aveva pensato, uno in meno con cui dover fare conversazione.

Veronica amava parlare, probabilmente era una delle sue attività preferite, tanto che veniva definita logorroica dalle persone che le erano vicine, eppure non era brava ad aprirsi nell'immediato e odiava parlare con gli sconosciuti con cui aveva tenuto interazioni di pochi secondi. Ovviamente sua zia non era tra questi, visto che era ancora giovane -aveva la stessa età di sua madre, quindi aveva circa quarant'anni- e si capivano perfettamente, ma con i suoi figli, se non per quelle due volte in cui si erano incontrati, non aveva mai interagito o avuto una conversazione che andasse oltre alle solite domande di chi vuole perdere il giusto tempo per poter dire "sì, l'ho salutato" o "gli ho parlato", per questo non si sentiva a suo agio.

Piano piano, mentre il treno cambiava binario e curvava sulle rotaie, riusciva sempre di più a vedere il cartello che indicava che stava per sorpassare il confine che delimitava la zona di Treviso. Il suo cuore si era fatto un po' più leggero, ma il pensiero costante che in quel preciso istante solo un anno prima stava scrivendo a computer con la sua migliore amica affianco, nella Città alta mentre si mangiavano un gelato, le faceva venire una stretta al cuore insopprimibile. Era brava a farsi degli amici, una cosa forse ovvia vista la sua parlantina appena prendeva un po' di confidenza, aveva già previsto che se ne sarebbe fatta di nuovi e forse in poco tempo, eppure, nonostante sapesse che non avrebbe sostituito nessuno, si sentiva un po' una traditrice. Non avrebbe dimenticato nessuno, non poteva, sia perché la sua migliore amica, ormai a distanza, aveva promesso di scriverle tutti i giorni e di fare videochiamate appena entrambe avrebbero avuto del tempo libero, sia perché non riusciva a dimenticare così facilmente le persone.

Poi, quasi come se la bolla illusoria in cui si era chiusa avesse deciso di scoppiare per riportarla al mondo reale, il treno si era fermato, dandole il grazioso annuncio che era finalmente arrivata a destinazione. Nulla di più normale, per una qualsiasi di quelle persone sul treno che dovevano scendere a quella fermata, ma incredibilmente drammatico per lei. Stava per abbandonare l'ultimo pezzo della sua quotidianità scendendo da quel treno, e per quanto cercasse di trovare il positivo in ciò che stava accadendo, riusciva solo a vedere un enorme buco di trama in quella che sarebbe dovuta essere la sua vita.

Eppure doveva farlo, quindi, incoraggiando se stessa, aveva riposto il telefono nella tasca dei jeans e si era caricata la borsa e il borsone sulle spalle, prima di prendere la valigia dal solito manico corto e scendere dal treno. Sua zia l'aspettava vicino a una panchina su cui era seduto un ragazzo moro: era Francesco, ancora si ricordava il nome fortunatamente, il più grande dei due figli di Angela. Se ne stava a guardare il cellulare e a scrivere, almeno fino a quando sua madre non gli aveva dato uno scossone per risvegliarlo e si era incamminata verso di lei, con gli occhi che le splendevano di gioia. Capitava molto di rado che si vedessero, ma nonostante tutto Angela era sempre stata un punto di riferimento per Veronica, sia per le sue passioni sia come persona fidata, per questo, quando le era venuta in contro tutta sorridente, per quanto lei fosse quasi a corto di sorrisi, gliene aveva dedicato uno e si erano abbracciate. Dopo le solite domande di rito, a cui Veronica aveva risposto sorridente, si erano incamminati tutti e tre verso l'uscita della stazione, e Francesco era stato così gentile che si era offerto di portarle il borsone.

Quella mattina d'inizio settembre la stazione dei treni di Treviso era particolarmente piena, nonostante questo, mentre camminava al fianco di Angela, con al seguito il figlio maggiore di quest'ultima, aveva avuto l'occasione di guardarsi intorno e notare come alle pareti, prima della scalinata centrale che portava alla stazione vera e propria, fossero appesi dei piccoli mosaici, fatti dai ragazzi delle scuole medie della città. Alcuni erano particolarmente articolati e altri, invece, più semplici, ma in entrambi i casi le immagini di quei piccoli pezzi di arte, che rendevano meno cupa l'entrata per la stazione, le erano rimaste impresse nella mente. Usciti dalla stazione Angela l'aveva portata fino alla sua macchina, parcheggiata vicino a un'insolita palla di metallo, posta al centro della strada che portava al centro storico. Quella era una delle molte cose che si era dimenticata di Treviso.

Il viaggio in macchina era stato composto per lo più dalle domande di Angela a Veronica, tutte basate sulle sue abitudini a casa, cosa le permetteva di fare e cosa non le permetteva di fare sua madre quando era a casa, in quale scuola aveva deciso d'iscriversi e se aveva qualche particolare preferenza per il pranzo, visto che mancavano poco più di trenta minuti alle tredici, in più, da quel momento in poi, Angela era praticamente la vice e voce di sua madre, quindi le appariva più che logico che sua zia le chiedesse tutte quelle cose, visto che non vivendo insieme non poteva conoscerle. Aveva fatto anche un accenno di conversazione con Francesco, che era rimasto ad ascoltare quanto le due si stessero dicendo, intervenendo qualche volta con una battuta o qualche domanda sulla scuola. Le sembrava tutto normale, sì insomma, per quanto normale potesse essere. Era ancora stranita, ma quella sensazione cominciava a farsi un po' più fievole man mano che passava il tempo, e forse, sarebbe scomparsa del tutto quando avrebbe avuto modo di conoscere l'ultimo componente della famiglia Villa.

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