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Autore: FiloRosso    19/02/2022    1 recensioni
Se non siete amanti dei racconti post apocalittici, dei mangia-carne e non amate le imprese stoiche di alcuni sopravvissuti...be' allora questa storia non fa per voi.
-Tutti abbiamo una storia.
La fine del mondo è iniziata, per ciascuno di noi, all'improvviso. Ma non ha spazzato i ricordi del passato.
Ci siamo lasciati alle spalle morti, cari, persone a cui volevamo bene. Qualcuno si è anche sacrificato per darci la possibilità di sopravvivere. Non è giusto dimenticarli così.-
Genere: Erotico, Horror, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
Capitoli:
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     Gli ultimi di noi.

 

La videocamera si accende inquadrando il mio volto. «Ricordi com’è iniziata? Chi eri all’epoca?».

Guardo al centro dell' obiettivo. Un puntino rosso continua ad illuminarsi ad intermittenza in attesa di una mia risposta.

«Tutto questo non ha senso.»

La ragazza che mi sta riprendendo abbassa la cinepresa e mi guarda perplessa.

«Cosa?».

Sto per alzarmi. Seduta sul tronco di una vecchia quercia abbattuta, con questa tipa che mi punta quell’affare addosso, inizio a sentirmi nuda. Ed è una sensazione che detesto.

«Tutto questo. La videocamera, te che vuoi che ti racconti per forza la mia storia. Che senso ha?»

Le vedo nascere una curva sulle labbra. «A qualcuno potrebbe interessare.»

Sta scherzando? Si è resa conto che quel “qualcuno” non c'è più?

Sono morti. Sono tutti morti.

Sbuffo sorridendo nervosamente. Sto per perdere le staffe.

«Non voglio raccontarti la mia cazzo di storia!», grido, «Voglio solo le mie armi!».

 Non freno i nervi, provo a muovermi per alzarmi e colpirla ma è proprio quando lo faccio che ricordo di essere legata. Questa stronza malfidata mi ha legato esattamente come si annoda un dannato cinghiale dopo una battuta di caccia.

Ho le caviglie strette da un lungo trancio di corda da pescatore e i polsi incollati da una fascetta di plastica. 

Non mi resta che scavare dentro me per cercare un po’ di autocontrollo.

Chiudo gli occhi per un istante e respiro.

Quando li riapro, sta mettendo via la cinepresa. L’espressione sul suo volto - per quanto sia da calci in bocca - sembra delusa. «Va bene.», dice sgranchendosi le braccia sulla testa mentre si alza da terra «Se non vuoi raccontarmi di te, allora resta pure lì.»

Si piega verso una tracolla dalla bocca spalancata, piena di qualsiasi cosa e la raccoglie.

«Dove credi di andare?! Slegami!» le ordino.

Non sembra sortire effetto il tono furioso della mia voce. Mi ignora.

«Sto parlando con te! Non puoi lasciarmi legata qui. Morirò!»

«Oh…Lo so.» Si sposta con due dita il ciuffo scuro della frangetta che le pizzica gli occhi. Dovrebbe accorciarsi i capelli: di questi tempi è un rischio avere intralci del genere sul viso.

«Dannazione!» inizia a stridermi la gola. Sto letteralmente urlando.

La mora, di riflesso, si tappa un orecchio con l’indice. «Vuoi abbassare la voce? Stai attirando compagnia indesiderata.»

I suoi occhi indugiano su qualcosa alle mie spalle. Ho un brivido lungo la spina dorsale. Se questa stronza mi farà morire oggi, spero di trasformarmi prima che mi ammazzi così da poterla divorare.

Con un’occhiata rapida mi volto indietro e poi torno a guardare lei «Non prendermi per il culo. Non c’è nessuno.»

Ridacchia, infilandosi la tracolla sulla testa. «Hai un’ultima occasione per raccontarmi la tua storia.»

C’è un momento di silenzio in cui a parlare sono solo i nostri occhi.

Mi fa male. Parlare di ciò che è successo, di come tutto è finito…è qualcosa che non faccio ormai da molto. Che non ho mai fatto.

Ma voglio che mi liberi e poi voglio anche ammazzarla, per avermi colpita alle spalle, per avermi legata e per un mucchio di altri motivi.

«Maledizione! Ok, avrai la tua storia.» Ringhio.

L’espressione soddisfatta che si pianta sul suo viso pallido mi fa venire voglia di torcerle il collo.

«Brava bambina.» Mi gira attorno e per un momento credo che voglia liberarmi i polsi. Non lo fa, ovviamente.

Mi sento afferrare per le spalle. Un attimo dopo il mio sedere strofina la superficie ruvida del tronco, dolorosamente.

Stringo i denti.

La mia pelle è abrasa. Non per il tronco: lo era già, prima di finire fra le mani malate di questa psicopatica.

«Ora si che sei dritta!» Esclama raggiante ad un millimetro dalla mia guancia. Ho l’impulso di tirarle una craniata. Quando ci provo lei si tira indietro con uno slancio veloce e ridacchia.

«Non così in fretta! Avrai tempo per picchiarmi, dopo aver raccontato la tua storia. Anche se sono certa che non lo farai.» 

Seguo attentamente ogni suo movimento con lo sguardo. Non si sa mai che possa fare qualcosa di stupido.

Contrariamente ad ogni mia previsione, però, impugna di nuovo la cinepresa e torna a sedersi sul terriccio umido.

«Il cielo sta imbrunendo» le faccio notare dato che entrambe -sono certa- sappiamo cosa voglia dire.

Lei guarda oltre la sua fronte per un istante, «Questo significa che hai poco tempo per parlare, fossi in te mi sbrigherei.», poi avvicina un occhio all' obiettivo.

                                                             

«Allora?...»

«Karina. Il mio nome è Karina.»

«Allora Karina, raccontami cosa ti è successo. Qual è la tua storia?»

Sento l’autoreverse della cinepresa gracchiare a vuoto ascoltando il mio silenzio un attimo prima di rispondere.

«Cosa vuoi sapere?»

Capelli corvini fa spallucce «Tutto. Com’è iniziata, chi eri, dov’eri il giorno che il mondo ha deciso di spegnersi…»

Senza il mio permesso, la mente viaggia a ritroso e sono di nuovo lì, in quell’ufficio ed è di nuovo Martedì mattina.

«Ero a lavoro quel giorno.»

«Che lavoro facevi?»

Chiudo per un istante gli occhi «Avevo appena iniziato un tirocinio presso uno studio di avvocati prestigiosi.»

La vedo abbozzare un sorriso sorpreso. «Wow, raccontami dell’ufficio, di quella mattina.» 

«Ecco…ero davanti all’ascensore pronta per salire all’ultimo piano dell’edificio…»

Scuote la testa. «No, parti dall’inizio. Parti da casa tua.»

Sento un groppo in gola.

Se mi blocco, però, questa stronza mi lascerà in pasto ai mastica-morte.

«Avevo finito di prepararmi dieci minuti prima del solito.» inizio, con non poca difficoltà. La voce mi trema leggermente. «Così decisi di uscire in anticipo da casa. Amavo essere puntuale e se si trattava di uscire prima per arrivare all’ufficio Ortega, Calligaris e Jones, amavo esserlo ancora di più…»

                                           

 

Incrociai le braccia al petto aspettando l’ascensore. Ero nervosa quella mattina e il fatto che stessi continuando ad intrecciare una delle mie ciocche castane al dito ne era la prova tangibile.

Non appena vidi le porte aprirsi, trattenni il respiro per un secondo. Entrata, pigiai subito il bottone per il pian terreno.

L’aver assecondato Meredith, la sera precedente, si era rivelata una pessima idea. Il dopo sbornia è letale.

Con la testa pesante e le gambe molli, mi mossi avvolta nell’elasticità della gonna a tubino blu verso la mia Seat. Un’auto anonima, economica. L’unica che quell’impiego semestrale mi aveva permesso di acquistare.

Nonostante fosse di un tremendo color verde pisello, adoravo quella macchina.

Era comoda, era mia. All’interno una foglia gialla in cartone pendeva dallo specchietto retrovisore rilasciando una gradevole fragranza floreale. Sui sedili posteriori erano sparsi svariati peluche. Un breve ricordo della mia infanzia, nonché il poco che ero riuscita a portare via da Boston, una volta arrivata a Los Angeles.

«Buongiorno, Dotty.» L'Orsacchiotto di peluche, con l’orecchio destro mozzato, mi fissava dal centro del sedile posteriore.

Me lo aveva regalato mia madre molti anni prima di quel momento e non me ne ero mai separata. Nemmeno una volta.

Da piccola, mi aveva accompagnata nelle notti più tristi: quelle delle grida, di mia madre in lacrime, di mio padre ubriaco e fuori di sé. Da adulta, mi ricordava che ce l’avevo fatta e potevo farcela ancora.

Inserii la chiave nel cruscotto e aspettai di potermi inserire nel traffico.

«Hai proprio un aspetto terribile, Karina…» Ferma al semaforo, ritagliai un momento per fissare il mio riflesso nello specchietto sopra la mia fronte.

Profonde occhiaie coperte da una spanna di correttore mi cerchiavano gli occhi verdi. Le sclere arrossate non la smettevano di ricordarmi quante poche ore avessi dormito e l’acidità di stomaco, quanti shottini avessi tracannato.

D'un tratto l’auto dietro di me fece squillare il clacson rumorosamente un paio di volte, facendomi ripiombare nella realtà.

Sussultando, pigiai sull’acceleratore.

Non potevo vedere chi c’era alla guida: immersa nel traffico e costretta a guardare avanti, anche concentrandomi, non sarei riuscita a scorgere il suo volto. Se avessi potuto, giuro, sarei scesa.

Con i nervi a fior di pelle, parcheggiai davanti al marciapiede di uno dei più grandi palazzi acquistati dallo studio Ortega,Calligaris e Jones. I tre più famosi avvocati di tutta la città, nonché, tre potenze economiche in carne ed ossa. Pareva un miracolo essere riuscita ad entrare nel loro ufficio con un banale stage e negli ultimi mesi stavo cercando di fare il possibile per rimanerci.

Scesi dall’auto.

L’ingresso del palazzo era preceduto da due uomini in divisa rossa. Una giacca che, chissà per quale motivo, mi ricordava quella dei domatori di leoni nei più grandi circhi americani.

Agguantai la mia borsa e la valigetta ventiquattrore chiudendo lo sportello alle mie spalle.

Qualcosa, però, mi attirò all’indietro, facendomi sbattere la schiena contro la carrozzeria.

Voltandomi notai che un lembo della mia giacca era rimasto intrappolato nello sportello dell’auto.

Trattenni un’imprecazione.

«Giornataccia?» Uno dei due uscieri abbozzò un sorriso.

«E’ sempre una giornataccia-» risposi a denti stretti,  stringendo con un braccio la ventiquattrore al petto e tirando il lembo della giacca, con forza, verso me. «-quando si esce da un dopo sbornia.».

Niente da fare, la giacca non ne voleva sapere di sfilarsi dallo sportello e così, con il braccio libero lasciai penzolare nel vuoto la cinta della borsa, mentre le dita corsero veloci alla maniglia della portiera.

Libera, finalmente, superai i due uomini che mi salutarono per la seconda volta con un cenno del capo.

«Buongiorno signorina, Stang., Lady C Alvarez l’attende al piano di sopra.» L’uomo di colore, in piedi dietro il bancone della Hall, si chiamava Mike.

Aveva circa quarantacinque anni, una moglie e almeno due figli.

Lavorava per Ortega e company da tutta una vita, con devozione e assoluta riconoscenza.

Un giorno mi aveva raccontato di come uno dei tre avvocati, Jones, vedendolo malconcio alla fermata dell’autobus lo aveva invitato a prendere un caffè.

Mike, il cui vero nome era un impronunciabile susseguirsi di vocali e consonanti mescolate a caso, si era chiesto sin da subito perché un uomo vestito di tutto punto e ricco da far schifo, avesse scelto di offrire un caffè proprio a lui. Lui che non aveva nulla da dargli in cambio, nulla, se non la parola “grazie”. Ma non era mai riuscito a darsi una risposta.

Così aveva deciso di assecondare Jones. Lo aveva seguito in caffetteria e avevano parlato del più e del meno.

Ad un certo punto Jones gli aveva chiesto: «Hai famiglia?», e quando Mike ammise di avere dei figli e una moglie che stava aspettando di arrivare in California dall’Africa Settentrionale, Jones non aveva perso tempo.

Il giorno dopo, Mike indossava la sua divisa verde. Molto simile a quella degli uscieri, ma in velluto e con tante piccole catenine dorate incrociate sul petto.

Sentendo la sua storia mi ero ripromessa che un giorno avrei conosciuto di persona Jones, perché pochi erano come lui al mondo d’oggi. Per il momento però, potevo avere a che fare solo con la sua figliastra Susanne C Alvarez, che tutto era fuorché di buon cuore.

«Ah, davvero?» Superai un gruppetto di liceali in visita guidata e mi avvicinai al bancone allungando a Mike il tesserino riconoscitivo. 

L’intero ingresso, dalle grandi mattonelle di marmo chiaro, era gremito di persone a quell’ora della mattina.

Scolaresche, avvocati pronti a dibattere una o più cause al secondo piano e giudici di tutte le età, - anche se il più giovane mi pareva avere gli stessi anni di Matusalemme.

Mike annuì, marcando un sorriso carico di compassione. Si sporse verso me e bisbigliò: «L’avverto signorina, questa mattina è di pessimo umore.»

«Non è una novità.», risposi fingendo un sorriso consapevole. In realtà, con Susanne non potevi mai sapere come sarebbe andata a finire la giornata. L’avevo vista licenziare personale anche solo per un “buongiorno” di troppo.

A seconda di come si alzava dal letto, agiva.

Tanto per rincarare la dose, aumentando il mio senso di angoscia, Mike mi guardò e aggiunse: «Be’ buona fortuna, l’inferno l’aspetta.». 

Disse anche che l’aveva sentita gridare dalla tromba delle scale, per poi veder correre via un tirocinante, di soli ventiquattro anni, in lacrime.

Mi chiesi quando sarebbe toccato a me: probabilmente quella mattina stessa.

Mi cercava, ed essere cercati da Susanne C Alvarez non prometteva mai nulla di buono.

Mi concessi il beneficio del dubbio, imboccando la serie di grandi mattonelle dal marmo avorio che mi avrebbe portata all’ennesima coppia di ascensori.

Il palazzo acquistato totalmente da Ortega, Calligaris e Jones, si divideva in quattro piani, cinque se si considerava anche il pian terreno.

Il mio ufficio si trovava all’ultimo piano: un’ampia stanza condivisa da almeno un centinaio di matricole del settore. Cento scrivanie, cento tastiere di computer scalpiccianti, brusio continuo, telefoni urlanti che non la smettevano di squillare per tutto il giorno. 

Se non avessi sacrificato quegli ultimi cinque anni della mia vita solo per avere la possibilità di varcare la soglia di quel posto, sarei scappata il primo giorno, probabilmente, dopo il primo quarto d’ora.

Ma ero lì. Ce l’avevo fatta e non avrei permesso a nessuna Susanne C Alvarez di uccidere i miei sogni.

«Stang, sei in ritardo.» Non ebbi il tempo materiale per varcare la linea immaginaria fra l’interno dell’ascensore ed il corridoio del mio piano che, come un rapace, Susanne si fiondò su di me, “artigliando la mia carotide” con le sue maledette unghie laccate di rosso.

Mi sventolò un plico di fogli spillati davanti al naso e disse: «Ci sei? Parlo con te.»

«Si, mi scusi.» Probabilmente il criceto nella mia testa aveva smesso di correre sulla sua ruota, perché il mio cervello aveva elaborato solo la parola ritardo. Ritardo? Ero in anticipo di almeno mezz’ora!

«Mi hanno riferito che mi stava cercando…» provai a dirle in tono mansueto. - Più che mansueto, direi cauto.

«Si, esattamente trenta minuti fa.» Susanne mi voltò le spalle implicando indirettamente di seguirla. Così affrettai il passo.

«Ma tu non c’eri.» Aggiunse con una punta di veleno nella voce.

«Ero imbottigliata nel traffico.» Mentii pur di darle ragione.

Non rispose, ma ero certa di averla sentita sbuffare.

«Be’, non perdiamo tempo adesso.» Superammo un paio di uffici. Dentro, avvocati in erba erano indaffarati a scartabellare fascicoli con le teste basse e i volti seri e nervosi. Era un classico avere a che fare con gente così, lì dentro e seppur io non fossi affatto di quello stampo, temevo che, da un giorno all’altro, sarei potuta diventare esattamente come loro.

«Quale settore hai scelto?» la domanda mi spiazzò.

«Quale settore?...»

Susanne ancheggiava sinuosamente a due passi da me, parlandomi senza mai voltare le spalle.

Potevo avvertire la sua autorità anche solo guardandola da lontano.

I suoi occhi, taglienti come lame, indugiavano fra l’interno di un ufficio e l’altro.

«Si. Quale settore? La tua facoltà ti avrà permesso di scegliere, no?»

«Ho scelto il civile.»

Sospirò una risatina e un attimo dopo, mi ritrovai ad incespicare sui miei stessi piedi vedendola svoltare l’angolo della parete di colpo.

«Sapevi che chi sceglie il civile, solitamente, fa parte di quella schiera di avvocati che prediligono le cause “leggere”?» era un modo carino per dirmi che non avevo voglia di fare nulla?

«Sinceramente, non lo sapevo.»

 Fra piante rampicanti, fotocopiatrici e porte in truciolato nasceva il famoso “quarto piano”, quello che all’epoca era definitivo dei disperati.

Eravamo per lo più matricole sotto il dominio incontrastato di lady C Alvarez. Il nostro compito era uno solo e tutt’altro che semplice: sbrigare le sue scartoffie e se possibile, risolvere i “casi” per cui veniva citata.

Ognuno di noi, a seconda della sua specializzazione, aveva un settore. Il più era numerato: così, tanto per ricordarci che tutti sono utili e nessuno indispensabile.

Ma a me, francamente, non interessava.

Volevo diventare qualcuno e ci sarei diventata lavorando lì, per quella donna.

Afferrò un mucchio di cartelline meticolosamente ordinate e mi informò che avrebbe aumentato la paga degli straordinari di Sean solo per avergliele fatte trovare sullo scaffale accanto alla bacheca degli orari, in quel modo, come se quello potesse fungere da monito per far diventare anche me estremamente precisa come lo era lui.

Non le risposi, limitandomi a scrutare le cartelline che aveva in mano, annuendo.

«Vediamo» ad un tratto si fermò accanto alla porta 345.

Non ricordo di che settore si trattasse, né che genere di futuri avvocati brulicasse l’interno, ma ricordo perfettamente di averla vista bussare e di aver detto ad uno di loro che quello sarebbe stato il materiale di lavoro per quella mattina. Avevo visto il tizio in giacca beige impallidire alla vista della mole di lavoro appena consegnata e avere quasi uno svenimento quando -con estrema schiettezza- Susanne lo informò che avrebbe voluto quel lavoro concluso entro la sera stessa. 

Poi era passata oltre, senza nemmeno aspettare che il giovane - sfortunato - avventore in legge le rispondesse. Nessun commento successivamente, quando tornammo a camminare. Continuò ad assegnare altro materiale ad altri cinque o sei settori dopo di quello. Più consegnava i “compiti a casa”, più scorgevo sul viso dei suoi dipendenti il desiderio di licenziarsi.

«Questo era l’ultimo, adesso tocca a te.» mi porse una cartellina nocciola, «Voglio che incontri queste persone per me.»

Lessi brevemente la piccola intestazione sulla cartellina e una fitta mi serrò lo stomaco. 

«E’ penale.» La informai «Non so se…».

Susanne mi rifilò un’occhiata in tralice «Non sai, se…cosa?»

Se ci riuscirò. Era quella la risposta, ma quando provai ad aprire bocca sentii lo stesso suono che faceva Merlino, il gatto dei miei nonni, quando vomitava palle di pelo.

«Nulla» mi affrettai a rispondere «Sarà fatto.»

 

                                                                  ॥

La mora ridacchia «Doveva essere proprio una stronza.»

Non riesco a non sorridere, anche se la curva che sta disegnando la mia bocca è intrisa di tristezza. «Tremendamente stronza.»

Ride ancora, «Mh, già. Comunque, scusa…Ti ho interrotta, continua…».

 

                                                                    ▶

 

Non smettevo di leggere l’ultima pagina del fascicolo che mi aveva consegnato Susanne, lì dove c'erano scritti esclusivamente i brevi dettagli non aggiornati del caso. Dovevo incontrare una famiglia il cui figlio,sotto effetto di stupefacenti, aveva rubato un' auto e successivamente si era schiantato contro una pattuglia di polizia in servizio. La questione era finita davanti ad un giudice ma non si era trovato un accordo nell’immediatezza, perciò, c’era stato un rinvio a giudizio. Nel frattempo il suo avvocato lo aveva praticamente “abbandonato” definendolo indifendibile e la sua famiglia aveva chiamato lo studio Ortega affinché fosse seguito da qualcun altro.

Peccato che quel qualcuno fossi proprio io, che ero poco più di un’assistente nel settore civile.

Volevo sbattere la testa contro il muro e più guardavo le lancette dell’orologio, più mi saliva un groppo alla gola.

                                        

                                                            

«Ehy, ma non stavi andando al patibolo! Era solo un incontro.»

Mi acciglio. «Sai cosa significa discutere legalmente di qualcosa che hai letto solo nelle enciclopedie universitarie per puro caso? Non avevo studiato diritto penale.»

La mora socchiude le palpebre e scuote la testa «Va bene, scusa. Prosegui.»

 

                                                              ▶

 

 Ad ogni modo, come dicevo, volevo spararmi esattamente su quella scrivania.

«Ehy…Che faccia sbattuta…» Quando sollevai lo sguardo Maggie, mia collega di studi in diritto civile, era davanti alla mia scrivania avvolta da un morbido tubino nero. Fra le mani un paio di fotocopie.  

Rispetto alla mia, quella mattina, per lei, il sole splendeva. I riccioli perfetti lasciavano scoperte le orecchie da cui pendevano due lunghi orecchini ai quali erano incastonati almeno venti Swarovski per uno.

La mia espressione stupita non si fece attendere: «Michael del terzo piano?» le domandai, indicando i due brillocchi enormi.

Mi sorrise, mostrando due file di denti perfettamente allineati di un bianco candido accecante.

«Questa mattina li ho trovati sulla mia scrivania con un bigliettino appoggiato sotto la scatolina.» Ne parlava come se avesse appena ricevuto una proposta di matrimonio. In quel momento, pensai che l’amore era stupendo: in grado di farti battere il cuore all’impazzata seppur lasciandoti con l’espressione inebetita tutto il giorno.

All’epoca speravo di potermi sentire come Maggie…

 

                                                                 

 

«E ora?»

Mi interrompe di nuovo ma questa volta la domanda mi fredda.

E ora?...

Mi inumidisco un labbro. «Ora…» Ora prego il contrario. Non voglio amare qualcuno mai più.

«non c’è più niente e nessuno da amare» le dico nella maniera più risoluta che conosco.

Mi guarda come se l’avessi delusa profondamente. 

«Non dire così…»

«No, tu non dire cazzate. Vuoi la mia storia? Lasciami continuare.» 

Abbassa il capo indugiando per un istante sull’obiettivo.

«Mi stavi parlando di Maggie…»

                                                          

 

                                       

Era al settimo cielo. Aspettava quell’appuntamento da settimane. Non perché non fossero mai usciti prima, o non avessero mai fatto altro, ma perché quello era il loro “primo vero appuntamento”.

«Sono al settimo cielo per te, Maggie» le sorrisi nel modo più caldo che conoscessi attirandomi la stessa curva delle labbra da lei.

«Comunque, non stavamo parlando di me…Hai una faccia sbattuta, che succede?» Si chinò alla mia altezza, poggiando i gomiti sulla scrivania e mi rifilò uno sguardo felino che mi fece avvampare le guance.

«N-Nulla, sul serio.» Sventolai entrambe le mani davanti a me.

Indugiò sul mio viso.

«Sono solamente uscita con un’amica e abbiamo bevuto troppo…Poi, questa mattina, lady stronza-C Alvarez mi ha affibbiato un caso della sezione penale e…sai come la penso sui casi “extracurriculari”». 

Maggie, notando una certa disperazione sul mio volto, non poté frenare una risata divertita.

«Almeno una volta al mese tocca a tutti-» mi diede una pacca sul braccio delicata come una carezza «questa volta è toccato a te.»

Afflosciai le spalle. Non era poi così incoraggiante sentire un velato: “Arrenditi. Sei fottuta”.

«Su Stang! Sei piena di risorse, ce la farai!» Maggie si allontanò dalla scrivania regalandomi un altro dei suoi sorrisi caldi. Tempo di vederla  raggiungere la stampante, mi resi conto che era già ora del mio incontro.

                                                                

 

«Parlami dell’incontro. Come si chiamavano le persone che dovevi conoscere?»

«Ervin, Alisha e Kael Brayton.»

«E sono ancora vive?»

Il cuore mi perde un battito. Posso avvertire il silenzio assordante nel mio petto per un lasso di tempo che mi spacca la cassa toracica.

«No. Non tutti.»

 

                                                             ▶

 

Ero ferma davanti al lavabo di porcellana dei bagni al secondo piano e guardandomi allo specchio continuavo a chiedermi: “Come?”

Come sarei riuscita ad incontrare quelle persone, disquisendo di qualcosa che non conoscevo come il diritto penale?

Meditai sul fatto che il fallimento non era contemplato, cercando disperatamente una soluzione. Nell’immediatezza, però, non mi veniva in mente nulla.

Dovevo affrontare quell’incontro, non c’era altra soluzione. Fissando i miei disperati occhi verdi, mi rassettai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, respirai profondamente e sospirai un debole «Puoi farcela.».

 

                                                             ॥

 

«E poi? Cosa è successo?» 

Dice di chiamarsi Mel la stronza. Un nome di merda per la sua faccia di merda.

«Poi, qualcuno è entrato in bagno.»

Mi sto ancora chiedendo che senso abbia tutto questo.

 

                                                              ▶

 

Ero in ritardo. Un fottuto ritardo che poteva costarmi il posto, eppure, non riuscivo a scollare le mie dita dal bordo freddo della ceramica.

Suppongo che, prima di ora, la più grande forma di paura consistesse anche nel deludere qualcuno o se stessi.

Io detestavo sentirmi così vicina al fallimento. Lo detestavo così tanto che, il più delle volte, sopraffatta dal senso di sconfitta, scoppiavo in vere e proprie crisi di pianto. Proprio come in quel momento.

Poi, però, la porta del bagno si aprì. Era troppo tardi quando me ne accorsi.

Sentii gli occhi di qualcuno posarsi sulla mia guancia destra e per un momento ebbi l’impressione di sprofondare nella vergogna.

«Giornataccia?».

Mi voltai di scatto.

 

                                                           

Le spunta un tiepido e brevissimo sorriso «Era Kael?».

Sgrano gli occhi. Mi chiedo come possa averci azzeccato subito. Prima che possa chiederglielo, indica qualcosa sul mio petto.

«La medaglietta» dice.

Abbasso lo sguardo sul mio seno e la vedo lì, mentre scintilla colpita dalla luce.

«Era Kael», ammetto.

Non so cosa sto provando in questo istante. 

Malinconia? Rabbia? Dolore?

                                                            ▶

Gli occhi scuri che indugiavano sul mio viso non li conoscevo affatto.

La persona che si ostinava a restare ferma ad un passo da me, guardandomi come se mi fosse appena spuntata una seconda testa sulla spalla, non aveva affatto l’aspetto di un avvocato. Nemmeno di un inserviente, né di nessuno degli uscieri.

Indossava una T-shirt panna che aveva perso un paio di battaglie contro la lavatrice, pantaloni larghi e usurati e un paio di Adidas la cui fodera di gomma era logora. 

                                                                ॥

«Qual è il primo dettaglio che hai notato di lui? Non credo sia stato il suo abbigliamento.»

Schiudo le labbra e mi fermo a pensarci un attimo.

«I capelli», dico sincera, «Aveva i capelli scompigliati e lunghi sulle orecchie. Ricordo di aver pensato fra me e me “Ha passato decisamente una nottataccia”».

Rido appena.

«Ed era così?»

La curva sulle mie labbra sparisce in fretta «Si. Era così.»

                                                                ▶

 

Il mio cuore batteva all’impazzata e non perché lui fosse lì davanti a me, bensì, perché stavo piangendo come un’idiota e fra tutte le cose che potevano succedermi, quella era l’unica che non doveva capitarmi.

Annuii velocemente tornando a guardare il mio riflesso allo specchio. Strappai via un pezzetto di carta dall’apposito contenitore e mi asciugai velocemente le lacrime.

«Chiamarla “giornataccia” è un eufemismo», ammisi dando un tono sarcastico alla mia voce.

Il ragazzo si avvicinò al lavandino costringendomi a fare un passo di lato.

Aprì il getto d’acqua e si chinò a bere un paio di sorsi.

«Siamo sulla stessa barca», affermò in tono piatto.

Chiuse l’acqua e con il dorso della mano si asciugò la bocca, urtando appena il piccolo anello di metallo agganciato al labbro inferiore.

Lì per lì, onestamente non avevo ricollegato che lui fosse il figlio dei Brayton e quindi mi limitai a chiedergli «Giornataccia anche per te?»

                                                           

 

Resto in silenzio per un momento.

«A cosa stai pensando, Karina?».

Ho il magone allo stomaco.

«Io…non l’ho notato subito.» sussurro. Sento la gola serrarsi. 

«Cosa non hai notato?».

Sollevo lo sguardo.

«La tristezza nei suoi occhi, io non l’ho notata subito.».

Maledizione! Sapevo che rievocando questi ricordi, mi si sarebbe spaccato il cuore.

«Non fartene una colpa» Mel mi guarda dritta in faccia, «Non lo conoscevi all’epoca, vi eravate appena incrociati.»

«Si.» mormoro, «Ma il suo sguardo parlava chiaro e io non l’ho ascoltato.»

                                                              ▶

 

Abbozzò un sorriso sbieco. «Diciamo di si».

Si mosse verso la parete accanto alle cabine WC e appoggiandoci la schiena, si lasciò scivolare lungo di essa fino a sedersi per terra.

Sfilò il cellulare dalla tasca e sbloccò lo schermo.

Restai per qualche istante a fissarlo. 

«Ho la vaga sensazione che tu stia temporeggiando.»

Lui sollevò i suoi occhi castani su di me mordendosi il piercing.

«Cosa te lo fa pensare?»

Di primo acchitto non mi sembrava uno che avesse troppa voglia di chiacchierare.

«Be', sei seduto sul pavimento dei bagni di uno studio legale e continui a fissare lo schermo del tuo telefono senza pigiare alcun pulsante.»

A quel punto, la sua espressione mutò incupendosi velocemente.

«Sto aspettando un messaggio.»

Sospirò leggermente e tornò con lo sguardo, oltremodo serio, al display.

«E' un messaggio importante?» 

«Si.» disse passandosi una mano sul viso «Sto aspettando che la mia ragazza mi risponda.»

Pensai che concentrarmi su quel ragazzo e sul motivo per cui si ostinasse a fissare quel dannato telefono, potesse aiutarmi a distogliere l'attenzione precedentemente catalizzata sull' incontro con la famiglia Brayton.

«Avete litigato?»

Corrucciò la fronte.

«Non proprio».

 Di colpo, tagliando corto,  deviò la direzione del nostro discorso «Tu, invece? Sei appena stata scaricata dal tuo ragazzo?».

Quella domanda mi colse in contropiede.  

Corrucciai la fronte e risposi impettita: «No, niente affatto!».

In tutta risposta si limitò ad un’alzata di spalle prima di rispondere: «Allora perché piangevi?».

«E' solo un po' di agitazione. Ho un colloquio importante.» buttai il pezzo di carta nel cestino. Il ragazzo sospirò un mezzo sorriso che io interpretai come un modo per farsi beffa di me e imbarazzata, ricacciai qualcoasa per dileguarmi da quel bagno: «Comunque ora devo andare.» Raggiunsi la porta, voltandomi un attimo prima di sparirvi dietro «Spero che tu e la tua ragazza facciate pace.»

                                                           

«E sei uscita dal bagno.», fa una breve pausa, «Poi? Cosa è successo?»

Le sopracciglia mi scattano in un balzo mentre la mia mente ripercorre quel momento.  «Poi me lo sono ritrovato in ufficio, con i suoi genitori.»

                                                            

 

«Oh, eccola! Ben arrivata signorina Stang.» Luis Sanchez, l’avvocato dell’accusa, si sollevò dalla poltrona e mi tese una mano in segno di benvenuto.

Ci impiegai un po’ per spiegare al mio cervello che doveva ricambiare la stretta. I miei occhi erano incollati alle teste delle tre persone che mi erano sedute di spalle. Quando poi, una di quelle si voltò verso me, meditai sul fatto che il fato avesse deciso di giocare a racchettoni con me.

Lo stomaco si strinse e mi ci volle un po’ per controllare la vampata di calore che mi stava asfissiando.

Il ragazzo del bagno era lì che mi fissava sorridendo appena.

«Buongiorno a tutti» dissi, stringendo da prima la mano a Sanchez e poi ai tre clienti.

«Lei è l’avvocatessa Karina Stang. Si è offerta di difendere vostro figlio, al posto del collega MCkenzie.»

La signora Brayton mi guardò sorridendo gioiosamente «E’ un vero piacere incontrarla, signorina Stang.»

Mi accomodai a sedere accanto a lei «Anche per me lo è.» e tentai di mimare il sorriso più cordiale che potessi riuscire a disegnarmi sulle labbra.

Il signor Brayton, al contrario, se ne stava con le dita delle mani intrecciate sul ventre, l’aria snervata e un grosso cipiglio stampato in faccia, a guardare l’impaginato di fogli sparsi sulla scrivania.

Non sapevo che piega avessero preso i suoi pensieri ma, dalla sua espressione, non dovevano essere allegri.

Kael Brayton, come c’era scritto nell'intestazione della sua cartellina, controllò il cellulare per l’ennesima volta, finché non fu proprio sua madre, con una gomitata leggera, a farglielo riporre.

L'espressione angosciata sul suo viso sussurrava qualcosa fra le righe, qualcosa che avrei scoperto solo dopo.

«Allora, come anticipato» iniziò a parlare Sanchez «Siamo qui per definire i termini d’accordo riguardo il suo caso, Signor Brayton».

Si rivolse a Kael nella maniera più formale possibile «Come riportato dal suo fascicolo, Domenica notte, dopo aver consumato delle sostanze, ha rubato un'auto, giusto? Dopo di ché ha incidentato con la volante della polizia. L'agente di servizio riporta che farfugliavi parole come "sangue", "morta"...»

Kael lo scrutò in cagnesco. «Lunedì all’alba» lo corresse senza negare il resto.

«Lunedì all’alba» Sanchez cancellò velocemente una frase e scrisse “Lunedì all’alba” a penna.

«Dove ti trovavi prima di quel momento?»

«Eravamo a casa di un amico»

Di colpo sua madre intervenne: la voce bassa quasi come un sibilo, «Kael non mentire.»

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. «Eravamo sulla diciannovesima.»

Sanchez si passò una mano sulla barba appena fatta, grattandosela, «E cosa c’è sulla diciannovesima?»

«Una crack house.», ammise senza problema.

«Quindi eravate lì per assumere sostanze?».

Lo vidi annuire.

«E poi, cosa è successo?»

Notai che il ragazzo si stava massacrando una pellicina. Il piede destro che non la smetteva di tamburellare sul pavimento.

«Ci siamo fatti. Io e la mia ragazza.» affermò. Iniziavo a notare l’espressione sul suo viso inclinarsi pericolosamente verso qualcosa di molto più tetro.

«Eravate soli? C’era qualcuno con voi?»

Tre piccole rughette si disegnarono sulla sua fronte.

«Tom era con noi.»

«Tom è un tuo amico?» Sanchez scrisse velocemente frasi lunghe e in corsivo su un foglio candido.

«Si, è il mio migliore amico.» Un momento di silenzio piombò nella stanza, poco prima che Sanchez tornasse a chiedere: «Cosa è successo alla tua ragazza, a Tom e a te?».

A quel punto, le sclere degli occhi di Kael si arrossarono di colpo.

«Avevo perso i sensi. Quando mi sono svegliato, il materasso era vuoto. Ricordavo che entrambi fossero con me nella stanza ma, al mio risveglio, non c’era nessuno.» si schiarì la voce «Allora sono sceso al piano di sotto-» ma poi si interruppe bruscamente «Senta avvocato, non so cosa ho visto ok? Forse è stata solo la droga.»

L’agitazione che zampillava sulle sue corde vocali era palpabile.

Sua madre Alisha allungò una mano sfiorandogli il braccio «Va tutto bene, Kael.»

«No. No, che non va tutto bene!» Rispose lui, abbaiando «Janie è morta!»

A quel punto, una semplice diatriba fra forze dell’ordine e un ragazzo tossicodipendente era diventata una causa per omicidio.

Mi sentii sprofondare.

 

"Sto aspettando che la mia ragazza mi risponda."

 

"Avete litigato?"

 

"Non proprio".

 

«Morta?...» intervenni incredula «Che vuol dire morta?». Strabuzzai gli occhi, scrutando i Brayton dritti in faccia.

«Kael dice di aver visto la sua ragazza-» Sanchez rivolse a lui lo sguardo in attesa che gli imboccasse il termine esatto.

«Divorata» lo aiutò Kael.

«Mentre veniva divorata dal suo amico Tomas.»

Un senso opprimente di nausea mi attanagliò lo stomaco.

«Vorrei ricordarvi che l’unica persona sporca di sangue, al momento dello scontro con la vettura della polizia, era lei, signor Brayton.»

Guardai il ragazzo.

Aveva ucciso veramente la sua fidanzata, come sosteneva l’agente Clark Bennet nella dichiarazione che Sanchez mi stava allungando sulla scrivania, proprio in quel momento?

Continuai a leggere quelle righe battute alla tastiera un’infinità di volte.

Le parole “omicidio”, “sbranare”, “divorare” erano disseminate per tutto il foglio.

Iniziai a credere che fossi davanti ad un serial killer.

«Non sono stato io!»gridò Kael, scattando in piedi come una molla.

«Kael», Sanchez lasciò scivolare la penna dalle sue dita, «Hanno fatto un sopralluogo in quella casa. Non c’era nessun corpo.»

Ebbi l'impressione che il cielo gli fosse appena piovuto in testa.

Schiuse le labbra incredulo e fissò dritto in volto Sanchez, senza saper bene cosa rispondere.

«E del sangue?» domandai, «Qui dice :“il pavimento nella zona giorno era disseminato di macchie rosse, probabilmente classificabili come tracce ematiche”» citai leggendo.

«Probabilmente», ci tenne a sottolineare Sanchez ammiccando un sorrisetto compiaciuto.

«Era sangue!» Protestò il ragazzo.

Suo padre gli agguantò un braccio «Torna a sederti, Kael.» ma con uno strattone, lui si liberò dalla presa.

«Non dirmi quello che devo fare.»

Gli animi furenti della famiglia Brayton si stavano scaldando oltremodo.

Non c’era molto che potessi fare se non cercare di ribattere alle accuse dell’avvocato Sanchez. Accuse, che più spiegava, più prendevano una forma consistente.

Kael sarebbe finito in prigione, era quasi certo e forse, per aver ucciso la sua ragazza.

                                                                                           

«Quando avete finito il colloquio, hai parlato con lui?».

Chiudo gli occhi e mi balza davanti un flash: la sua schiena larga che volta i tacchi e se ne va lungo il corridoio. Cerco di ricordare.

L’ho affrontato?

«L’ho fermato un attimo prima che pigiasse il pulsante dell’ascensore.»

                                                              

 

«Kael! Kael, aspetta!».

Si voltò di scatto. Cinereo.

«Che vuoi?»

Rallentai nelle sue prossimità. «Non aspetti i tuoi genitori? Sono ancora lì dentro con Sanchez.»

Serrò la mascella: un muscolo guizzò appena sotto la sua pelle, quando il suo sguardo oltrepassò la mia spalla in direzione dell’ufficio.

«Tanto a che serve?» mi rispose seccamente, spostando le iridi scure su di me «Non saranno le suppliche di mia madre ad evitarmi la galera.»

L’ascensore spalancò la bocca, suonando.

«Forse lei non può, ma io sì. Lascia che ti aiuti.»

Adesso mi guardava più scuro in volto «Aiutarmi? Mi stanno incriminando per omicidio! Finirò davanti ad un giudice e sai che diranno? Che sono un tossico che ha ammazzato la sua ragazza perché era fatto!» I suoi occhi si assottigliarono in due fessure. Stillavano veleno. «Credi di potermi aiutare? O vuoi provarci solo per avere un encomio da questi quattro stronzi che ti hanno assunta?».

Mi sentivo offesa.

«Voglio aiutarti sul serio. Hanno detto che non c'era nessun corpo. Nessun corpo, uguale, nessun reato. Forse non riuscirò ad evitarti il riformatorio, ma la galera si. Lasciami provare.» dissi supplichevole.

Lanciò gli occhi al cielo sorridendo istericamente «Ma certo! Sarò il tuo "caso da manuale". Bene! Spero che almeno ti diano un aumento».

Non sarei riuscita a farlo calmare, non nei successivi trenta minuti ma volevo scoprire cosa gli era capitato. Qualcosa dentro me si ostinava a ripetere che non era un assassino.

Respirai a fondo, ignorando tutto ciò che mi aveva gridato addosso «Raccontami cosa ti è successo. Dall’inizio.»

Lo convinsi a seguirmi in un ufficio libero e dopo un po’ di fatica, si decise a parlare.

Disse di aver visto il suo migliore amico dilaniare a morsi la sua ragazza. Di essere scappato per strada e di aver rubato un’auto poco prima di schiantarsi contro la pattuglia di polizia che stava terminando la ronda notturna.

Mi raccontò delle sensazioni che aveva provato, del dolore. Ammise che amava la sua ragazza e che temeva di essere impazzito quando, tornando in quella crack house, non aveva trovato né lei né il suo migliore amico.

Aveva controllato il telefono diverse volte con la speranza di trovare una loro chiamata. Chiamata che non era mai arrivata.

Così, gli promisi che, se quella fosse stata la verità, avrei trovato un modo per evitargli il carcere. Affermai che gli credevo, che sapevo che non stava mentendo.

                                                             

«Siamo rimasti un’ora chiusi in quell’ufficio» ammetto. Non guardo Mel, ma la piastrina di ferro che stringo fra le dita «Io gli avevo ridato la speranza.».

Quando sollevo lo sguardo mi accorgo che è umido.

«Continua…Poi, cosa è successo?»

«Kael voleva trovare la sua ragazza ed io mi offrii di accompagnarlo.»

«Quindi siete usciti dall’edificio?»

Ho un tuffo al cuore. «Ci abbiamo provato.»

                                                                ▶

 

«Portami in quella crack house.» Dissi, guardandolo dritto negli occhi, «Portami lì. Voglio vedere con i miei occhi quello che hai visto tu.»

«Non c’è niente da vedere oltre al sangue.» Sembrò abbattuto.

«Anche il sangue va bene. Voglio solo capire cosa è successo. Magari qualcuno ha spostato il corpo della tua ragazza… Magari è stato lo stesso Tom a farlo.»

Kael strinse le labbra come se volesse soffocare qualcosa di doloroso che minacciava di sfuggirgli di bocca «Mi piacerebbe dirti che Tomas non farebbe mai del male a Janie, ma quello che ho visto è stato…».

Diceva di aver visto il suo migliore amico sbranare la sua ragazza.

Sbranare la sua ragazza…Era impossibile.

Guardai l’orologio agganciato alla parete sulle nostre teste. «Abbiamo un’ora. Portami lì.»

Mi sollevai di scatto dalla poltrona e lui fece lo stesso.

«Ne sei sicura? Sei sicura che venire con me non ti creerà problemi?».

No, probabilmente me ne avrebbe creati e come ma io avevo scelto di fare quel lavoro per aiutare le persone. Era stato quello il monito per diventare avvocatessa.

Scossi il capo: «Non me ne creerà.»

                                                                ॥

«A quel punto siamo scesi a pian terreno.» Dico. Non so se sono pronta a rievocare questa parte di ricordo.

«Cosa è successo a pian terreno?».

Freno i nervi e le lacrime che premono per uscire. «Li ho visti.»

                                                                                                  

L’ascensore suonò informandoci che eravamo appena arrivati a piano terra.

«La mia auto è parcheggiata proprio qui davanti.» lo informai, scrutandolo con un’occhiata rapida.

Le porte si aprirono. All'improvviso, ci ritrovammo alle spalle di un corposo capannello di persone che stava guardando qualcosa in direzione della porta d’ingresso.

In fondo alla massa di teste non potevo vedere granché, però sentivo chiaramente la voce di Mike tuonare nella Hall.

«Vi devo chiedere di restare dove siete!»

Kael mi guardò confuso. Io lo ero altrettanto.

«Cosa sta succedendo?», domandò.

«Non lo so.».

 A quel punto, provai ad avanzare.

Insinuandoci fra la folla che, tutto sembrava fuorché tranquilla, Kael ed io riuscimmo ad emergere dal raggruppamento.

Attorniati da un semicerchio di teste e cappotti, due ragazzi pallidi e sporchi di sangue se ne stavano con i denti digrignati, in piedi davanti all’ingresso.

Le mani tese e i muscoli contratti, le loro schiene rigide avevano preso una curva innaturale. Ad un tratto, mi parve di averli  sentiti ringhiare sommessamente.

«Che diavolo…»

Kael scattò un passo avanti.

«E’ Janie!» esclamò incredulo.

Jenie, la ragazza bionda, aveva addosso una specie di camicetta senza maniche abbastanza trasparente da permettere di intravedere un profondo solco sull’addome. Solco, dalla quale grondava, copioso, del sangue scuro.

Quello che ad occhi e croce doveva essere Tomas, invece,  aveva un morso esattamente sotto l’incavo del mento.

Non potevo credere ai miei occhi. 

Erano sotto effetto di qualcosa? Erano impazziti? L'unica certezza erano le loro ferite.

«Ora mi avvicino, ok?» disse Mike esitando. La ricetrasmittente stretta fra le dita d'una mano.

Gli occhi, dalle pupille enormi e dilatate, di Janie dondolavano nella sua direzione.

Poi, bastò un piccolo rumore. -La ricetrasmittente. Il suono metallico, che ricordavo di aver sentito un milione di volte, innescò qualcosa in quei due ragazzi.

Janie scattò verso Mike. Con un balzo felino intercettò la sua carotide e mordendola, tirò forte. La pelle, sul collo scuro dell'uomo, si strappò rumorosamente come carta. L'urlo di Mike fu atroce.

Di lì a poco, scoppiò il caos. Tomas si scaraventò contro il mucchio di persone come una bestia inferocita, ringhiando, emettendo suoni che solo un animale poteva produrre.

Kael era paralizzato. Le iridi scure non accennavano a staccarsi da quella che, una volta, era stata la sua ragazza.

«Kael, dobbiamo andarcene!» gridai. I suoi piedi erano piantati al suolo come se ci fossero stati chiodi a trattenerlo.

Cercai di tirarlo per un braccio e solo allora, mi accorsi che due piccole lacrime gli stavano scivolando lungo il viso.

Provai un enorme senso di pietà ma la paura ebbe la meglio.

«Maledizione Kael!».

                                                          ॥

«Immagino che siete riusciti a scappare dal piano terra.» Dice Mel aggiustando l'obiettivo della cinepresa. 

«Si, ma non verso l’uscita…» -non verso l’uscita.

                                                           ▶

 

Trascinai Kael su per le scale. La folla, che si era abbattuta come un uragano contro le porte degli ascensori, era andata incontro alla morte bramando salvezza. Quelli più esposti erano stati aggrediti da Tomas e Janie mentre chi era al centro dell’onda di persone terrorizzate aveva finito per essere calpestato, morendo tra atroci dolori.

Sbracciando fra la gente, ero - in qualche modo - riuscita a portarlo al primo piano.

Avevo il cuore in gola. Cosa avrei dovuto fare? Cosa stava succedendo?

Era tutto così assurdo.

«Erano loro? Erano la tua ragazza e il tuo amico?» 

Kael rallentò accasciandosi contro una parete. Il suo petto che si abbassava e alzava velocemente.

«Si», ammise.

«Non stavi mentendo.» 

I suoi occhi si imbatterono nei miei.

Adesso avevo la conferma: Kael non mentiva. Solamente, non sapevo che quello sarebbe stato, per noi, l'inizio della fine.

Ancora non conoscevo il morbo. Non sapevo nulla dei mangia-carne, degli urlanti e dei notturni. 

Era solo l’inizio e non avevamo la certezza che saremmo sopravvissuti.

                                                             

«Si è fatto buio.» Mel pigia un pulsante laterale alla telecamera. «Sarà meglio fare una pausa.»

Si solleva da terra e raccoglie la borsa.

«Ho finito. Questa è la mia storia, adesso lasciami andare!»

Mi guarda dall’alto in basso. «Hai ancora molto di cui parlare, Karina. Facciamo così: tu mi dai la tua storia ed io, in cambio, darò qualcosa a te.»

Scuoto il capo. Non c’è nulla che mi possa dare all’infuori delle mie armi.

«E cosa?»

Accenna un ghigno «Lo scoprirai presto.»

   
 
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