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Autore: Ikki_the_crow    22/02/2022    2 recensioni
Nel folto dei boschi di Neverwinter, una carovana mercantile trova un uomo svenuto. Non ricorda nulla, non sa nemmeno come si chiama. L'unica cosa che ricorda è un nome. Elisa.
Quanto in là siete disposti a spingervi per la persona che amate?
[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel" di NPC_stories e Dira_]
Genere: Drammatico, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo 1
 
Il fuoco avvolgeva la casa, illuminando la notte e i visi furiosi delle persone intorno. Di ritorno dal suo giro di visite, l’uomo se n’era accorto da parecchie centinaia di metri di distanza, aveva visto la luce e sentito le grida, e aveva girato sui tacchi. Gli piangeva il cuore al pensiero dei suoi appunti di ricerca, perduti per sempre, e ancora di più per le rose della moglie, che in quel momento stavano sicuramente bruciando assieme al resto dei loro averi.
Era arrivato a malapena a metà della collina, quando sentì una voce alle sue spalle.
“Eccolo! È qui!”
Sentendo il clamore della folla che si avvicinava, lasciò cadere la borsa e inziò a correre verso il bosco. Da qualche parte, dietro di lui, alcuni cani iniziarono ad abbaiare. Sembravano farsi più vicini ogni istante che passava...

 
Con un sussulto, l’uomo aprì gli occhi e inspirò a fondo. I polmoni iniziarono subito a bruciargli, e lui tossì con foga, cercando di riprendere fiato. Quando sentì che l’aria non gli scorreva più nella gola e nel petto come fuoco, si arrischiò a riaprire gli occhi e a darsi un’occhiata intorno.
Era sdraiato di schiena, in quella che sembrava una radura. Sopra di lui, poteva intravedere il cielo che si tingeva di violetto nella luce del tramonto, e le chiome di alcuni alberi che si muovevano piano nel vento leggero. Non faceva particolarmente freddo, ma probabilmente nel giro di poco tempo l’aria sarebbe passata da fresca a gelida.
E lui era nudo. Se ne rese conto quasi distrattamente. Poteva sentire gli steli d’erba che gli solleticavano le gambe e le braccia, e la terra fredda e umida sotto di sé.
Cercò di alzarsi, e capì che non ce l’avrebbe fatta. Il suo corpo non gli rispondeva.
Non sentiva dolore, ad eccezione del palmo della mano destra, il che era inaspettato. Per qualche motivo, si era aspettato dolore. Molto.
Riprovò ad alzarsi, con più calma questa volta. Ancora niente.
Allora si concentrò su un movimento più piccolo.
Braccio sinistro. Sollevalo.
Sentì i muscoli tremare, come se non fossero stati usati per molto, molto tempo. Con infinita lentezza, il braccio si sollevò fino ad entrare nel suo campo visivo. Illuminato dalla luce arancione del sole morente, la carne pallida sembrava in fiamme. Tremava leggermente, come se il sempice gesto di tendere un braccio verso il cielo stesse mettendo a dura prova quei pochi muscoli che lo avvolgevano. La pelle era solcata da linee irregolari, alcune sottili come fili di ragnatela, altre più spesse e leggermente in rilievo. L’uomo le fissò con curiosità.
Cosa...?
E poi, di colpo, una serie di immagini gli si affacciò alla mente. Troppo assurde, dolorose e impossibili perché fossero reali. Il braccio ricadde a terra, come quello di una marionetta a cui avessero tagliato i fili. Riuscì a malapena a sentire un fruscio tra i cespugli prima di perdere di nuovo conoscenza.
 
Un lago di fuoco, impossibilmente grande, si apriva sotto di lui. All’interno della gabbia di ossidiana, il calore era insopportabile. Bruciava la pelle, i capelli, gli occhi. L’anima.
La gabbia era costellata di escrescenze affilate, che sembravano muoversi e spostarsi quando nessuno le guardava. Ogni volta che lui sfiorava una sbarra, si ritrovava con nuovi tagli e squarci nella carne. E non c’era altro punto dove appoggiarsi se non le sbarre.
Ogni minimo movimento gli provocava ferite, che il calore delle fiamme rendeva ancora più insopportabili. Sotto la pelle, la carne era rossa, lucida per qualche istante prima di seccarsi e brunirsi come una bistecca troppo cotta. Nel giro di pochi istanti, le ferite si richiudevano dolorosamente, intrappolando quel calore all’interno del suo corpo, solo perché le lame di ossidiana ne aprissero di nuove, ancora e ancora e ancora.
In quel vortice di calore, dolore e disperazione, c’era solo un barlume di speranza.
 
“Sta riprendendo conoscenza.”
“Lo vedo. Tutti fuori, meglio non agitarlo.”
“Chi è Elisa?”
“Come faccio a saperlo? Ho detto fuori!”
L’uomo rimase sdraiato per qualche secondo, ad occhi chiusi, cercando di capire dove si trovasse. Era ancora nudo, ma stavolta avvertiva qualcosa di morbido sotto di sé. Probabilmente un letto, o una branda. Aveva anche una coperta leggera stesa addosso, e da dietro le palpebre chiuse filtrava una luce tremolante. Una candela, forse?
Aprì lentamente gli occhi. Si trovava in quello che sembrava l’interno di un carro con un tetto di tessuto pesante, ammobiliato come una piccola casetta o forse un’infermeria. Era effettivamente sdraiato su un letto, e quando provò a muoversi si accorse che il suo corpo rispondeva leggermente meglio di quanto avesse fatto nella radura.
“Ehi, ehi, piano figliuolo.”
La voce, apparentemente di una persona anziana, proveniva esattamente da accanto al letto, sulla sua destra. Due mani callose afferrarono il torso dell’uomo e lo sostennero con sorprendente gentilezza, aiutandolo ad alzarsi e sistemandogli il cuscino dietro la schiena in modo che potesse stare seduto. Lui si voltò piano verso il suo soccorritore, ansimando per quel minuscolo sforzo come se avesse corso per chilometri, e si accorse di avere la vista sfocata. Stringendo le palpebre, poteva distinguere un viso barbuto ma poco di più.
“Un attimo solo, figliuolo.” La persona accanto al letto iniziò a frugare in una tasca. Una delle mani ricomparve, porgendogli qualcosa. Era un paio di occhiali senza montatura, con le stanghette innestate direttamente sulle lenti. Quando l’uomo tese lentamente la mano destra per raccoglierli, si accorse che non gli faceva più così male come prima. Qualcuno, probabilmente la persona lì accanto, gliel’aveva fasciata in uno strato di bende.
Gli occhiali non pesavano quasi niente: le stanghette erano di metallo sottile, e sembrava si potessero spezzare alla minima torsione. Le lenti erano leggermente scheggiate sul lato superiore, ma quando l’uomo inforcò con attenzione gli occhiali si accorse che funzionavano ancora alla perfezione. La vista gli andò immediatamente a fuoco, e lui poté guardarsi intorno con più attenzione.
Era effettivamente in quella che pareva una specie di infermeria mobile. C’era una vetrinetta chiusa con una serratura sui cui scaffali trovavano posto barattoli di quelle che sarebbero potuto essere medicine ed unguenti di vario tipo; poco più in là, una seconda branda vuota e uno scrittoio, con tanto di sgabello. La candela che illuminava la stanza era appoggiata in una lanterna montata su un lungo supporto di metallo, accanto allo scrittoio. Tutti i mobili ad eccezione dello sgabello erano inchiodati al pavimento. L’uomo si voltò di nuovo verso l’altra persona nella stanza, e questa volta poté vederlo bene.
Si trattava di un nano, dalla barba scura con strisce grigie che la solcavano secondo onde irregolari, acconciata in una selva di complicate treccine. Come tutti i membri della sua razza era basso e tarchiato, con un’espressione burbera sul viso. Era anche quasi completamente calvo, un altro segno della sua età non esattamente verde. Il nano lo osservò con aria bonaria.
“Meglio, vero?” borbottò. “Allora, facciamo le presentazioni. Io sono il dottor Glanderl Valzak, dei Monti delle Nuvole. E tu sei?”
Parlava un Comune dal forte accento, ma l’uomo riuscì a capirlo abbastanza bene. Alcuni termini però suonavano strani alle sue orecchie, come se non significassero esattamente quello che lui si aspettava.
“Dottore...” gracchiò, per poi tacere immediatamente. La gola gli raspava, e il suono che ne uscì lo spaventò Sembrava il grattare di unghie su una lavagna.
“Oh, aspetta.” Il nano si piegò e raccolse da terra una borraccia e un piccolo bicchiere di coccio. Versò dell’acqua nel bicchiere e lo tese all’uomo.
“Ecco – Piano!” esclamò, colto alla sprovvista.
Incurante del fatto che le sue mani non gli rispondevano ancora del tutto, l’uomo era scattato verso il bicchiere come se non bevesse da una vita. Prima che il nano potesse reagire, lo aveva afferrato con dita malferme e se n’era vuotato il contenuto in gola. Iniziò immediatamente a tossire, piegato in due dalle fitte, fino a che non si piegò di lato e rigettò tutto il liquido a lato del letto. Dopo qualche altro colpo di tosse, il suo stomaco finalmente si placò.
“Per questo avevo detto di fare piano.” Per nulla impensierito, il nano scosse la testa. “Sembra che il tuo corpo non veda cibo o acqua da settimane. Il che è impossibile, ovviamente, ma in ogni caso devi andarci a piccoli passi, o non ti resterà giù niente. Ecco, riprova.”
Con inaspettata delicatezza riprese in mano il bicchiere, ci versò dentro meno di mezzo dito d’acqua e poi lo ripassò all’uomo. Quest’ultimo lo afferrò di nuovo, ma questa volta si costrinse a bere a piccoli sorsi, tenendo in bocca l’acqua prima di inghiottirla. Anche la sola sensazione di quelle poche gocce sulla lingua asciutta era paradisiaca.
“Ecco.” Il dottor Valzak annuì di nuovo. “Ora, riproviamo. Vuoi dirmi come ti chiami, figliuolo?”
“Io...” iniziò l’uomo, per poi interrompersi di nuovo. Questa volta però il suono della sua voce non c’entrava per niente. “Io non lo so.”
“Non lo ricordi?” Il nano sollevò un sopracciglio.
L’uomo sollevò la mano sinistra, quella priva di bende, e se la passò sul viso. Poi i suoi occhi rividero il reticolo di cicatrici sul braccio, e il suo respiro ricominciò ad accelerare. Nelle orecchie gli pareva di sentire come un rombo lontano, grida disperate e risate malevole.
“D’accordo, non preoccuparti.” Il nano doveva essersi accorto dello stato di ansia in cui si trovava il suo paziente, perché gli poggiò una di quelle mani al tempo stesso dure e delicate sulla schiena. “Quando si hanno subito dei traumi, può capitare che la memoria faccia le bizze. E da quello che vedo, tu di traumi devi averne subiti parecchi. Ma ora è passata.”
“Dove sono?” gracchiò l’uomo.
“Nel mio carro. Viaggio con una carovana di mercanti. Ti abbiamo trovato in una radura, nei boschi di Neverwinter. Stavamo cercando un posto per passare la notte, e gli esploratori ti hanno trovato lì, privo di sensi. Non avevi nulla con te, solo gli occhiali sul naso. E questo.”
Tese all’uomo quello che pareva un medaglione di acciaio, di forma circolare e con alcune lievi incisioni tutto intorno che ricordavano rami di edera. Era opaco, come se fosse molto antico, ma sorprendentemente pulito.
“Te l’ho lucidato mentre aspettavo che ti svegliassi,” spiegò il nano. “Dovevi tenerci davvero tanto: lo tenevi talmente stretto in mano che ti era entrato nella carne.”
Indicò la mano destra bendata dell’uomo. Quest’ultimo lo stava ascoltando solo in parte: quando aveva visto il medaglione, qualcosa nella sua mente era scattato.
Come in un sogno, tese la mano e lo afferrò con deferenza. Muovendosi d’istinto, le sue dita trovarono un piccolo bottone sul lato e lo premettero: il medaglione si aprì con uno scatto in due metà identiche. La metà di sinistra conteneva quella che una volta era stata un’immagine in miniatura, probabilmente di un giovane uomo. Era bruciacchiata, annerita e quasi irriconoscibile: si potevano intuire solo i capelli, castani e scombinati, e parte del viso su cui si affacciava un sorriso allegro.
L’uomo non la degnò di uno sguardo: con dita tremanti, sfiorò l’immagine nella metà destra del ciondolo. Era una donna, di circa vent’anni, dai lunghi capelli castani e l’incarnato pallido. Indossava un abito semplice, ma elegante, orecchini di perla e quello che sembrava un’opale in un medaglione appeso al collo. Gli occhi azzurri e gentili sembravano fissare oltre il vetro che proteggeva l’immagine dritto in viso di chi guardava. Aveva le labbra increspate in un lieve sorriso, che la faceva sembrare sul punto di scoppiare a ridere per qualcosa di divertente che qualcuno fuori dal ritratto avesse appena detto.
L’uomo fissò l’immagine per quella che parve un’eternità.
“Elisa...” mormorò, e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Iniziò a piangere, in silenzio, del tutto dimentico della presenza del nano che faceva tutto il possibile per guardare da un’altra parte e lasciargli un minimo di riservatezza. Quando al dottore parve che il suo paziente si fosse calmato, tornò ad apostrofarlo.
“Allora ricordi qualcosa,” disse con tono soddisfatto. “Il nome di quella donna.”
“Elisa.” L’uomo annuì. “Mia... Mia moglie.”
“Ricordi dove sia?”
“È morta, credo. Da molto tempo.” L’uomo tossicchiò e si portò la mano sinistra di fronte alla bocca, come se stesse cercando di non rimettersi a piangere.
“Oh. Mi dispiace.” Il nano indicò l’altra metà del medaglione. “Immagino che quello fossi tu. Che cos’è successo a quell’immagine?”
“Non... Non lo so. Non ricordo.”
Il nano annuì. “Senti, vorrei fare una prova se ti va.”
Prima che l’altro potesse rispondere, tirò fuori da chissà dove un oggetto piatto di metallo levigato. Quando lo voltò, l’uomo si accorse che dall’altra parte c’era un sottile strato di vetro.
“Forse guardandoti in faccia ti tornerà in mente qualcosa. Ma devo avvisarti: potrebbe non essere quello che vorresti.”
L’uomo esitò, poi annuì. Il medaglione stretto nella mano destra – adesso capisco come aveva fatto a infilarselo nelle carni, pensò Glanderl – allungò la sinistra per afferrare lo specchio. Quando lo rivolse verso di sé, incontrò lo sguardo di un uomo di circa trent’anni dai capelli castani e dal naso affilato. Era un viso che ricordava, in qualche modo, ma al tempo stesso c’era qualcosa che stonava. Ci mise qualche secondo a capire cosa fosse.
Gli occhi. Gli occhi sono sbagliati.
Nella sua mente, quella persona aveva gli occhi verdi. Il riflesso nello specchio li aveva di un colore simile al legno vecchio: castani scuri, quasi rossastri.
L’uomo inclinò lo specchio e si osservò da varie angolazioni. Sì, quello era lui. Se lo ricordava. E nel momento in cui lo realizzò, si accorse di conoscere anche il proprio nome. Come aveva potuto dimenticarlo?
“Mi chiamo Christopher Blackwood,” disse. Il nome rotolò sulla lingua con agio. Era quello giusto, ma mancava ancora qualcosa. “Dottor Christopher Blackwood.”
Meglio. Molto meglio.
Gli occhi del nano si allargarono. “Oh. Un collega?”
“A quanto pare,” rispose l’altro. Poi, una nuova fitta alla testa lo spinse a lasciar cadere lo specchio sul letto e a portarsi una mano alla fronte con un gemito.
Quando il dolore fu scemato un poco, chissà quanto tempo più tardi, provò a ricapitolare.
“Purtroppo non ricordo quasi nulla. Mi chiamo Christopher Blackwood. Sono... ero un dottore, ma al momento le mie nozioni di medicina sono quasi nulle. Mia moglie si chiama Elisa. Ho paura che sia morta.”
“Mi dispiace,” ripeté il nano. “Ricorda altro? Da dove viene, come è finito qui.” Esitò un attimo. “Come si è fatto quelle.”
Gesticolò in direzione di Christopher. Per la prima volta, l’altro abbassò lo sguardo sul proprio corpo smunto e vide che il reticolo di cicatrici che aveva sul braccio sinistro non si limitava a quello, ma si estendeva per tutto il busto fino al punto dove la coperta lo nascondeva alla vista. Ma Christopher era abbastanza sicuro che l’addome e le gambe non fossero in condizioni migliori.
Scosse la testa. “Non ricordo. Buio completo.”
“Non si preoccupi, dottore.” Solo a quel punto Christopher si accorse che Glanderl aveva iniziato a dargli del lei. Forse una forma di rispetto verso il titolo che aveva detto di possedere. “La perdita temporanea di memoria è un sintomo comune dopo –”
“Dopo un forte trauma. Mi ricordo.” Me lo ha detto pochi secondi fa.
“Esatto.” Il nano annuì. “Per il momento, cerchi di riposarsi. Vedrà che i ricordi torneranno da soli, con il tempo.”
“Lo spero.” Christopher fece scivolare le gambe e si rimise sdraiato. “Ho la sensazione che avessi qualcosa da fare. Qualcosa di importante. E di averla lasciata in sospeso.”
“Al momento, la cosa più importante è che si rimetta.” Il dottor Valzak andò alla propria dispensa dei farmaci, la aprì e ne estrasse alcune foglie secche.
“Vuole qualcosa per dormire?” domandò. “Mi pareva che avesse il sonno agitato, prima.”
Christopher osservò quello che il nano gli stava tendendo. Valeriana.
“No, grazie.” Tentò un sorriso. “Preferisco restare lucido.”
“Come vuole.” Glanderl si avvicinò alla lanterna, afferrò il sostegno e la trasportò vicino al letto, dove la poggiò con un tonfo sordo.
“Gliela metto qui, nel caso ne avesse bisogno,” disse. “C’è un acciarino giusto accanto, non può non trovarlo.”
Christopher ringraziò, e il nano aggiustò meglio la candela nella sua base prima di aprire la porta del carro. Dall’esterno, il vociare soffocato si quietò all’improvviso.
“Se ha bisogno, faccia una voce. C’è sempre qualcuno sveglio qui fuori.”
Per essere sicuri che non vi sgozzi tutti durante il sonno, pensò Christopher.
“La ringrazio, dottore,” disse invece. Si scambiarono ancora qualche cortesia, poi il nano chiuse la porta.
Christopher si sollevò su un braccio, spense la candela con un soffio e si ributtò sul letto, gli occhi spalancati nel buio. Il suo corpo si muoveva già molto meglio, notò.
Mi chiamo Christopher Blackwood, si disse.
Mia moglie è Elisa Maria Röckel-Blackwood. Il nome venne da sé, chiaro come il sole.
Sono un medico. Non ricordo dove sono nato, dove vivo o cosa mi piaccia mangiare. Ricordo però che il compleanno di mia moglie è il diciottesimo giorno di Marea d’Estate. Ricordo che adora i fiori e gli animali. Ricordo che ogni mattina lasciava sulla finestra un po’ di cibo per gli uccelli, e che i corvi avevano iniziato a portarle dei regali in cambio. Prima delle pietruzze. Poi, quando lei aveva dato una dose di cibo in più a uno che si era presentato con una camelia, avevano iniziato a tappezzarci il davanzale di fiori.
Non ricordava la casa, il luogo dove vivevano e neppure il giorno del proprio compleanno, ma l’immagine di Elisa che lasciava un po’ di pane secco sulla finestra con un sorriso era vivida come se l’avesse avuta davanti agli occhi in quel preciso momento. Ci mise qualche minuto ad accorgersi che, nonostante il buio completo all’interno dell’infermeria – non c’erano finestre, e la candela si era spenta da un pezzo – riusciva a vedere perfettamente intorno a sé. Sollevò la mano sinistra nel buio e spalancò le dita, osservando le cicatrici che si rincorrevano sulla sua carne.
Non so cosa mi sia successo. Ma lo scoprirò. E scoprirò cos’è successo a mia moglie.
Ogni volta che pensava a lei, sentiva un dolore sordo e profondo nel petto. Non era ancora riuscito a inquadrarlo, ma sapeva bene cosa significava.
Sei morta, amore mio. Cos’è successo? Chi ti ha fatto questo?
E, dal nulla, una nuova emozione gli esplose nel petto, come braci sotto la cenere che aspettassero solo un soffio di vento per riprendere ad ardere.
Rabbia. Di più. Odio.
Christopher Blackwood dovette farsi violenza per impedirsi di scattare in piedi e urlare con tutto il fiato che aveva in corpo. Rimase sdraiato nel letto, ad ansimare piano, digrignando i denti e stringendo il medaglione nella mano bendata. Un rivolo di sangue era sfuggito dalle bende e stava macchiando il lenzuolo, ma in quel momento non gli importava.
Scoprirò cosa ti è successo, amore. E i colpevoli pagheranno. Fosse l’ultima cosa che faccio.


[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel di NPC_stories e di Dira_]
   
 
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