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Autore: FiloRosso    22/02/2022    1 recensioni
Se non siete amanti dei racconti post apocalittici, dei mangia-carne e non amate le imprese stoiche di alcuni sopravvissuti...be' allora questa storia non fa per voi.
-Tutti abbiamo una storia.
La fine del mondo è iniziata, per ciascuno di noi, all'improvviso. Ma non ha spazzato i ricordi del passato.
Ci siamo lasciati alle spalle morti, cari, persone a cui volevamo bene. Qualcuno si è anche sacrificato per darci la possibilità di sopravvivere. Non è giusto dimenticarli così.-
Genere: Erotico, Horror, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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                                     Caos.

 

  L’unico problema con la fine del mondo è che non la si potrà raccontare ai propri nipoti.

(Arnaud Cotrel)                     

           

                                                 2.

 

                                                ➽

 

Il mondo, all’imbrunire, fa paura.

Quando l’oscurità inghiottisce anche gli ultimi raggi di sole, la terra cambia. Loro si svegliano. Sono lì fuori, pronti a cacciare.

I miei occhi si stanno abituando ad essa: l’unico bagliore luminoso è quello di un raggio di luna che trapassa le fronde degli alberi.

La Jeep di Mel è parcheggiata fra due sequoie al centro di questo dannato bosco.

Mi maledico ancora una volta per aver deciso di correre in questa direzione.

Dovevo percorrere la nazionale. Ci sarebbero volute ore, magari giorni ma, alla fine, avrei raggiunto l’ovest.

 

«Non è molto comoda, lo so.» Mi dice, affrettandosi a riporre la tracolla e il fucile nel bagagliaio.

Almeno ha avuto premura di trascinare dentro la vettura prima me, benché di peso, che le sue armi o la telecamera. «Ma vedrai che passare una notte al sicuro renderà questa vecchia carretta il giaciglio migliore che potessi trovare.» La quinta portiera sbatte rumorosamente facendo oscillare l’abitacolo sul posto.

Mel gira attorno alla Jeep, apre lo sportello e si sistema accanto a me dalla parte del guidatore.

«Vivi qui dentro?» Sono incredula. Nessuno sceglierebbe mai di vivere in un’auto consapevole che i mangia-carne pullulano strade e boschi di notte.

Sorride quasi imbarazzata «Lo trovi strano…Lo so.», poi, si sporge verso i sedili posteriori. La sento frugare dentro qualcosa, forse uno scatolone.

«Se ti organizzi, riesci a sopravvivere anche all’esterno dei rifugi.» Afferma.

Per un momento vorrei essere un’altra persona, più coraggiosa. Da quando il mondo è diventato macerie non ho mai pensato, nemmeno una volta, di muovermi lontana da un gruppo. Dalla luce.

«Eccole.» Torna con la schiena dritta sul sedile. Stretti fra le mani due oggetti di forma conoidale probabilmente di plastica.

Ne rovescia uno a testa in giù e tocca un pulsante.

In un attimo, l’interno dell’abitacolo si illumina di un bagliore blu-violaceo elettrico.

«Lampade UV. Inutile che ti spieghi a cosa servano.» 

A far sì che quei mostri non si avvicinino all’auto.

A due mesi dallo scoppio del morbo, molti di loro sono mutati: hanno iniziato a perdere i capelli, la loro pelle si è assottigliata e i loro occhi sono diventati ciechi. 

La loro sensibilità agli ultravioletti, alla luce del sole, li rende molto più vulnerabili di giorno e molto più feroci di notte.

«Quando hai capito che servono i raggi UV per scacciarli?» le domando. Credo che ognuno di noi sopravvissuti abbia fatto questa scoperta in modo diverso.

«Mentre scappavo dalla Virginia. Ma quella è la mia storia e non siamo qui per ascoltare me.»

Già, lo avevo dimenticato: la stronza ha una fissa per me e per ciò che mi è accaduto.

Lancio gli occhi in una direzione qualsiasi purché lontana dal suo viso. «Giusto…»

Mel allunga le mani sul cruscotto e poggia le due lampade.

Non ha tirato fuori dalla borsa la videocamera, ragion per cui, sono portata a credere che non mi lascerà andare domani mattina.

Sospiro avvilita.

Credo di aver bisogno di mangiare e di dormire, anche se, tutto ciò che voglio è scappare da quest’auto e correre il più lontano possibile.

Voglio perdermi, così che nessuno possa ritrovarmi mai più.

“Cosa mi è successo?”

«A cosa pensi?» vedendomi perplessa aggiunge «E’ da un po’ che fissi il vano portaoggetti, non c’è niente lì dentro. Le tue armi sono nel bagagliaio assieme al mio fucile.»

Non so perché senta il dovere di mettere in chiaro che non ho la possibilità di poterle fare del male. Non ho intenzione di ucciderla. Non ancora per lo meno.

Credevo che volesse qualcosa di più serio di uno stupido racconto sul dramma che stiamo passando da quasi un anno. Invece no: lei vuole la mia storia e poi, probabilmente, mi lascerà libera.

Ha detto che ha qualcosa per me…

«Non mi lascerai andare domattina, vero?» abbasso lo sguardo sui miei polsi legati.

«No.» Sospira dal naso, sembra le coli «Ti lascerò andare quando finirai di raccontarmi la tua storia.».

Quando mi volto a guardarla, la trovo con gli occhi lontani da me e dall’interno della Jeep. Se ne sta lì a guardare il buio avvolgere il bosco. 

«Hai fame, Karina?», -chissà a cosa pensa…

Non voglio dirle di si ma il mio addome suggerisce la risposta al posto mio.

Il gorgoglio che emette il mio stomaco si attira una risatina divertita da parte di capelli corvini.

«Quand'è stata l’ultima volta che hai messo qualcosa sotto i denti?» Torna a sporgersi verso i sedili posteriori e allunga una mano in una direzione ben precisa. Un leggero scricchiolio, un piacevole rumore di carta stropicciata, arriva alle mie orecchie. Ho un fremito.

«Non lo ricordo. Due giorni fa, credo.» 

Quando riemerge dall’incavo fra i nostri sedili, stringe per mano una barretta al cioccolato ricoperta di arachidi.

Ho gli occhi spalancati come due uova all’occhio di bue.

Non vedevo quelle dannate, deliziose, barrette da mesi.

Seguendo il doloroso impulso della fame allungo entrambi i polsi, allacciati fra loro, verso il trofeo che Mel stringe fra le dita.

Stranamente non reagisce: lascia che le sfili la barretta dalle dita, come un avvoltoio, senza opporsi in alcun modo.

Ci impiego un attimo per strappare la carta ed addentare il cioccolato come una disperata.

«Dio» mugolo.

Sorride.

Mentre sto masticando con voracità, la mia mandibola inizia a rallentare.

«Qualcosa non va?» domanda, all’improvviso.

Fisso il cioccolato come se avessi qualcosa di viscido fra le mani.

«Che ci hai messo dentro?».

All’impatto con la mia domanda, sul suo viso si piazza un palmo di risentimento.

«Nulla.» Sento una punta di nervosismo nella voce. «Cristo! Ti ho dato del cibo e tu insinui che ci abbia messo del veleno?».

I nostri occhi si sfiorano per un momento, poco prima che distolga lo sguardo dal suo, imbarazzata.

Come può biasimarmi? Nessuno offrirebbe mai del cibo di questi tempi.

La vedo assottigliare le palpebre «Che ti hanno fatto per diventare così…malfidata?».

Per un momento ho l’impressione che i suoi occhi stiano disperatamente cercando di scavare dentro di me.

Stringo le labbra l’una contro l’altra: sono tentata di chiederle scusa. Mi sento una merda per averla accusata.

«Qualcuno in passato ha provato ad avvelenarmi.» Riesco a dire, poiché il mio orgoglio batte tutte le cose giuste da dire o da fare.

C’è un attimo di silenzio fra noi. Mel guarda nella mia stessa direzione, oltre il parabrezza.

«Non diventare come le persone che ti hanno ferita, Karina. Sii meglio di loro.»

Quella frase è un pugno allo stomaco. Mi fa pensare ad una persona in particolare: Kael.

Subito, però, una nube scura di consapevolezza e dolore si piazza al centro del mio petto. 

Il viso di Kael sparisce in fretta da davanti ai miei occhi.

«Le circostanze ti costringono a cambiare delle volte.» Le allungo la barretta verso il braccio, dandole due colpetti.

La guarda per un po’ poi decide di raccoglierla.

«Ho bisogno di dormire.» dico mentre mi rannicchio sul sedile voltandomi di spalle.

Forse mi sbaglio. Forse, esiste ancora del buono nelle persone.

Forse…La fine del mondo non ha spento la gentilezza nell’animo di alcuni di noi.

Del mio si. Da un bel po’.

                                                    ➽

Qualcosa urta la fiancata della Jeep facendola oscillare un paio di volte. Spalanco gli occhi di colpo. Quando mi sono addormentata?

«Tranquilla.»     

Sento la voce di Mel ma sono ancora confusa dal sonno e dallo spavento.

«Sono i mangia-carne?» le chiedo abbassando di qualche decibel il tono della mia voce.

«Notturni.»

Quando mi volto è seduta con una carabina da militare fra le cosce e fissa un punto oltre il cofano della sua vettura.

Quando ha preso il suo fucile? Perché non l’ho sentita scendere dall’auto?

«Perché hai il fucile con te?» 

«Iniziavo a sentire un discreto movimento intorno a noi.», Ammette. «Ho preferito premunirmi.»

E’ inevitabile che io sia frastornata dai dubbi e dalla paura in questo momento.

«Ti ho detto che puoi dormire tranquilla.» è tremendamente sicura quando parla «Ci sono io di guardia.»

Serro la mascella per trattenere i nervi. Non è un gioco!

«Io sono tranquilla solo quando mi proteggo da sola.»

Non ho idea di dove siamo adesso. Mel ha spostato la Jeep, è scesa, ha preso il suo fucile e tutto quanto lo ha fatto mentre dormivo.

Gli alberi hanno cambiato disposizione attorno alla vettura e ora, sento scorrere un ruscello a qualche metro da noi.

Ci sono troppi scricchiolii di foglie a rompere il silenzio della notte.

Mi sollevo come posso sul sedile: ci sono affondata dentro.

Aggrappandomi al cruscotto riesco a riemergere dal basso e a guardare fuori.

Ho una stretta alla pancia e il respiro resta incastrato fra le pareti della mia gola.

C’è una specie di mandria che si muove nell’oscurità.

Almeno una ventina di notturni brancola nel buio. Sono veloci, affamati.

Quando spalanco la bocca sto per urlare ma la mano di Mel scatta verso le mie labbra.

«Non farlo. Non gridare.» bisbiglia «Non ci faranno niente, abbiamo le torce, ricordi?».

Il battito del cuore è a mille e mi viene in mente di tutto; nonostante ciò, faccio come dice.

Li sento passarci accanto, urtando l’auto diverse volte, evitando il tettuccio e il parabrezza.

«Visto?» 

Sono esterrefatta. 

«Adesso fa come ti dico, riposati. Domani sarà una lunga giornata.»

Non so se riuscirò a dormire, ho paura. Una fottuta paura di morire. 


L’indomani, i primi raggi del sole mi irradiano fastidiosamente il viso.

Mi sveglio di soprassalto e credo ancora che i notturni ci stiano intorno.

Non ci sono e non c’è nemmeno Mel.

Guardo oltre il finestrino: le sue cose sono accantonate vicino a quello che sembra essere un piccolissimo falò rimediato. Appoggiata sopra ad un cerchio di pietre una griglia da barbecue.

C’è un barattolo fumante.

«Ti sei svegliata» lo sportello dal lato del guidatore si apre di colpo facendomi trasecolare.

«Cristo, Mel» borbotto.

Mi sorride raggiante.

I suoi occhi indugiano lungo le mie gambe.

«Dammi un momento.» Ad un tratto, sparisce dietro la Jeep per poi riapparire davanti al mio sportello.

Lo apre e tira fuori qualcosa dalla sua tasca.

Quando si china verso i miei piedi ho l’impulso di tirare indietro le gambe.

Prima che lo possa fare, afferra il mio polpaccio e con il pollice estrae una piccola lama dall’insenatura di quello che, ora, so essere un coltellino svizzero. La corda si tende contro la lama, sfilacciandosi all’estremità e infine, si rompe.

Non ha paura che le tiri un calcio e scappi via? 

Ed io perché non lo faccio? Perché non la colpisco?

«E’ ora della colazione! A pancia piena le storie vengono raccontate meglio.»

Chi è Mel?

Mi sollevo. Ho le gambe intorpidite e zoppico leggermente.

Il formicolio ai piedi è la cosa che, in questo momento, mi da più fastidio.

«Allora, abbiamo…Fagioli in scatola, caffè, orzo…» Ci sono almeno dieci barattoli diversi appoggiati fra l’erba. 

Come se li è procurati? 

Entrare da soli dentro qualsiasi locale, palazzo o casa in città è praticamente un suicidio.

Si gratta la nuca imbarazzata «Non sapevo cosa preferissi, così ho tirato fuori un po’ di tutto.»

Faccio una smorfia. «Qualsiasi cosa va bene.».

A che gioco sta giocando? Perché è gentile con me?

Mel si accuccia e raccoglie un barattolo leggendo l’etichetta «Caffè istantaneo» fa una breve pausa e vedo i suoi occhi scorrere sulle righe dell’etichetta «Duecento ml di acqua.»

Si guarda attorno. «Ho dell’acqua in bottiglia», afferma con risolutezza «Non saranno duecento ml, ma andranno bene lo stesso.»

Dopo aver recuperato l’acqua prende un tegamino di ferro e mischia la polvere di caffè al liquido. Aspettiamo che bolle e quando è pronto, dopo tanti mesi, riscopro un sapore che in passato amavo.

Socchiudo gli occhi: ho un barattolo fumante che sa di caffè fra le mani; è quasi uno spreco berlo.

«Come ti sei procurata tutta questa roba?» le chiedo.

Sta riordinando alcune piccole cassette. Ci sono scritti nomi, cognomi, soprannomi e luoghi. Ne ha a bizzeffe.

Chissà se quelle persone sono ancora vive?

«Un po’ di ingegno e molti, molti proiettili.»

«Dovresti insegnarmi come si fa.» Ammetto e faccio un sorso dal barattolo di latta.

Mel alza gli occhi verso me e sorride «Sei sopravvissuta fin’ora anche te…Non credo che ti servano dritte

«Già…» -come no.

Dopo una manciata di minuti finisco il mio caffè e Mel termina di sistemare la telecamera e le sue cassette. Ci spostiamo sulla riva del fiume. Ama le inquadrature da reportage televisivo sofisticato. Io le trovo inutili data la circostanza in cui ci troviamo.

Mi fa sedere su una roccia.

 Ancora non mi slega i polsi, «Sembro una prigioniera», e glielo faccio notare.

Si accomoda di fronte a me, «Ti ho liberato le caviglie, non è abbastanza?», e sistema l’obiettivo della telecamera.

«E poi, non punterò l’inquadratura sui tuoi polsi.»

Sospiro dalle narici. Un pugno di nervi mi sta facendo pulsare le meningi.

«Fatto. Possiamo iniziare.» afferma, di colpo, soddisfatta.

La fisso inespressiva.

L’autoreverse gracchia per alcuni istanti e il puntino rosso torna a brillare ad intermittenza.

«Dove eravamo rimaste?» -l’ufficio.

Mi tornano in mente gli occhi umidi di terrore che aveva Kael quel giorno.

«Siamo stati costretti a risalire al primo piano.», dico.

So che ben presto tornerò a provare quel maledetto dolore sordo al centro del petto.

                                             

                                               ▶

Kael respirava così velocemente da poter rischiare di svenire da un momento all’altro.

«Dobbiamo cercare aiuto.» mi chinai alla sua altezza. Sembrava perso in un limbo la cui uscita stava sparendo lentamente. «Kael!»

I suoi occhi si spostarono sul mio viso. Aveva persino annuito, eppure, non riusciva a muoversi. 

La paura lo aveva paralizzato ai piedi di quella parete. La montagna di persone in preda al terrore stava risalendo le scale: c’era rumore. I muri tremavano, esattamente come i corrimano lungo le gradinate.

Dovevamo spostarci da lì o ci avrebbero calpestati, nella migliore delle ipotesi.

«Cerca di alzarti» dissi tirandolo per un braccio. 

Non lo avrei lasciato lì: non ero così egoista. Non all’epoca.

Kael ci impiegò qualche istante ma, alla fine, riuscì a sollevarsi da terra.

 

“Avviso urgente. Tutto il personale all’interno dell’edificio è pregato di abbandonare il proprio ufficio all’istante, passando per le apposite uscite di emergenza. Ripeto, tutto il personale all’interno dell’edificio è pregato di abbandonare il proprio ufficio all’istante.”

 

Scoppiò il caos. Nessuno sapeva esattamente che direzione prendere. Kael ed io imboccammo a ritroso il corridoio verso il lato est del primo piano, mentre, come un’onda, tutti i miei colleghi ci correvano contro nella direzione opposta.

Ci venivano addosso come guizzi schiumosi contro la battigia. Camminare stava diventando difficile. Correre, impossibile.

Ad un tratto, qualcuno urtò il mio braccio destro. Subito dopo, una donna mi sfrecciò accanto colpendomi il sinistro.

Restai indietro.

«Kael!»

Non vedevo che volti spaventati. Terrore. 

Sentivo solo le grida.

In un attimo, mi ritrovai sola.

Mi voltai a destra e sinistra, scrutando gli occhi di tutti alla ricerca di quelli del ragazzo.

Ma erano tutti anonimi, sconosciuti.

Immersa, al centro di quella mandria di teste, continuavo a ricevere spinte, gomitate. Ad un tratto qualcuno mi colpì dritto al centro della schiena, per poi superarmi senza nemmeno voltarsi.

Il dolore mi esplose lungo la spina dorsale togliendomi il fiato. Caddi sulle ginocchia e fui costretta a ripararmi il viso con le braccia pur di non essere colpita dalle ginocchia o dai piedi dei miei colleghi.

“Devi correre”, ripeterselo non bastava.

Provai a sollevarmi.

«Karina!» 

Maggie piombò davanti a me come un fulmine a ciel sereno. Mi afferrò le spalle aiutandomi a tornare in piedi. Era terribilmente spaventata.

 «Dove stai andando? L’uscita è dalla parte opposta!».

Voleva che la seguissi ma io non potevo.

«Devo trovare Kael Brayton e la sua famiglia», dissi.

Mi scosse per le spalle «No, devi uscire da qui!».

Guardai oltre l’onda di persone, verso la direzione che aveva preso Kael. Era sparito. Forse era stato calpestato.

Tornai a guardare Maggie mimando un no sofferente.

«Uscirò da qui, te lo prometto.» affermai «Ma adesso devo trovarli.»

Una parte di me non si sarebbe mai sentita tranquilla e con la coscienza a posto sapendo che Kael stava cercando i suoi genitori mentre io lo avevo lasciato in balia di se stesso.

«Non dire cazzate, Karina! Lasciali perdere. Mettiti in salvo!»

Si dice che è proprio nei momenti peggiori che la vera essenza di noi salti fuori.

Maggie avrebbe veramente lasciato qualcuno indietro, in balia degli eventi, potendolo aiutare?

Non risposi. L’abbracciai e mi separai da lei nella frazione di un attimo.

«Karina!» gridò, ma ero già tornata ad immergermi nella folla.

                                                      ॥

«Perché sei tornata indietro? Maggie aveva ragione, dovevi lasciar perdere, potendo.» 

Mi mordo un labbro.

«Sapendo di poter aiutare qualcuno, chiunque esso sia, in una circostanza di estremo pericolo…Ti volteresti dall’altra parte?»

Mel abbozzò un sorrisetto vittorioso. «Adesso capisci perché io ho aiutato te?»

Schiudo le labbra. Voglio dire qualcosa ma non so esattamente cosa risponderle.

«Ti ho trovata che correvi come una pazza in questo bosco.»

«Mi hai colpita» le faccio notare.

«Eri spaventata, mi avresti sparato se fossi apparsa all’improvviso.» Ha ragione.

Temporeggia sul mio viso «Perché scappavi?»

Quella domanda è una cazzottata in pieno viso.

«Non ha importanza.» dico, sfuggendo al suo sguardo.

 

                             ▶

 

Il corridoio a ferro di cavallo, in quel momento, mi sembrava infinito. Raggiungere il lato est pareva un’impresa titanica. Lo divenne realmente quando il sangue incominciò ad imbrattare le pareti.

Chi era stato morso al pian terreno ci aveva impiegato poco più di sette minuti per trasformarsi in qualcosa che non era né umano, né animale.

Le grida che, dapprima, parevano un’eco lontano giù per la tromba delle scale, stavano risalendo verso il piano come un vaso che velocemente finisce per riempirsi d’acqua.

«Ma cosa?...» Un uomo mi superò per poi rallentare di colpo.

Mi voltai verso l’uscita intasata di schiene febbricitanti pronte a colpire chiunque, se solo ce ne fosse stato bisogno, pur di scappare.

-Gli infetti.

 Chi aveva scelto di correre nella direzione opposta alla mia, aveva scelto inconsapevolmente il suicidio.

«No-no-no» incespicai un paio di passi all’indietro.

                                               

                                             ॥

«Non dimenticherò mai quel momento. Il sangue. I loro occhi.» Ho uno spasmo.

Se socchiudo le palpebre ho l’atroce impressione di essere ancora bloccata in quel corridoio.

                                 

                                             ▶

 

Fra tutti gli occhi iniettati di sangue e con le pupille dilatate, ne riconobbi un paio all’istante.

Mike.

Il Mike che mi sorrideva sempre, che era sempre gentile con me, che mi aveva raccontato la sua storia, ora, stava strappando la faccia di una ragazzina a morsi.

Ringhiava gutturalmente, un suono che faceva accapponare la pelle.

Non era più Mike. Non era più umano.

Dovevo allontanarmi, subito.

Mi voltai pronta a correre di nuovo, quando, all’improvviso, un paio di occhi rossi apparve a meno di qualche metro da me.

In quel momento tutto ciò che avevo attorno si cristallizzò.

Rimasi paralizzata. Quell’abominio non si guardava attorno, aveva scelto la sua preda. Io ero la sua preda.

Feci un minuscolo ed impercettibile scatto di lato e fu allora che si lanciò in una corsa folle e scoordinata nella mia direzione.

Mille immagini mi attraversarono la mente, alternandosi rapide come in un album fotografico.

Amici, persone, sentimenti, momenti di ogni genere mi passavano davanti e mi sembrò di non poter fare più nulla. Smisi di respirare. Di lottare.

 

                                                    ॥

 

«Ma poi qualcuno ti ha aiutata…»

Mi trema il labbro inferiore. La costante lotta contro le lacrime che scalpitano per uscire mi sta sfinendo.

«Già…» mormoro penosamente con la voce rotta «Alla fine, non ero l’unica che aveva deciso di tornare indietro.»

 

                                                    ▶

Era ad una spanna da me, pronto a mordermi, sbattendo la mascella come un ossesso, quando, di colpo, qualcosa lo mandò contro la fotocopiatrice dietro le mie spalle.

Quello che una volta era un liceale finì per ruzzolare lungo la moquette un paio di volte grugnendo. 

Una mano mi strinse il polso e quando mi voltai di soprassalto «Kael» era lì.

Mi aveva cercata. 

                                                    ॥

 

«Ho pianto quando l’ho visto, sai? Credevo - anzi no, ero certa - che mi avesse abbandonata. Chiunque lo avrebbe fatto.»

Mel solleva lo sguardo dall’obiettivo «Gli hai mai chiesto perché è tornato indietro?»

Scuoto la testa.  «No, mai.»

                                                      ▶

 

Gli occhi mi si appannarono in fretta: un attimo prima avevo visto la mia vita spegnersi, quello dopo, lui mi aveva salvata.

«Dobbiamo trovare un posto sicuro», disse facendo del suo corpo uno scudo per il mio.

Riuscimmo, seppur con difficoltà, a raggiungere e svoltare l’angolo della prima metà di quel corridoio.

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Scoprimmo che non c’era nessun’altra uscita.

L’ala est era intasata di persone impazzite che dilaniavano a zannate i miei colleghi.

E quando ebbero terminato di saccheggiare i loro corpi ormai vuoti, la massa caotica di persone fuori di senno si lanciò nella nostra direzione: non c’era più tempo per pensare.

Kael allungò una mano sulla maniglia di una porta e provò ad aprirla.

«Stanno arrivando!», gridai.

Provò ad abbatterla con un paio di spallate ma sembrava chiusa dall’interno.

A quel punto, si allontanò di un paio di passi e prendendo la rincorsa, colpì con tutta la forza la porta, in direzione della maniglia, con un piede.

Il ferro si staccò dallo scheletro di legno tonfando a terra e ci ritrovammo in un battito di ciglia all’interno di un ufficio vuoto.

Kael, senza perdere tempo, poggiò le mani sul bordo di una scrivania, «Aiutami», e insieme la trascinammo contro la porta.

La porta oscillò. Sentivo quei mostri abbattersi come pioggia contro di essa. Ebbi l'impressione che mi mancasse la terra sotto i piedi. Che cosa diavolo stava succedendo?

Le gambe molli non ressero il mio peso: caddi a sedere sulla moquette.

Il cuore che mi pulsava in gola, nelle meningi.

Solo dopo svariati minuti, quando il respiro tornò a placarsi dentro la mia gola, mi accorsi che la maglietta di Kael era sporca di sangue.

Notò che le mie palpebre spalancate lo stavano scrutando con terrore e abbassò lo sguardo al suo addome.

«Non è mio.», affermò.

Non chiesi di chi fosse, sapere che non era ferito mi sollevò nell’immediatezza.

                                                      ॥

 

«Perché hai deciso di fidarti?»

Mi fermo a rifletterci.

Alzo le spalle, realmente non so perché «Volevo fidarmi, avevo bisogno di sapere che in quel caos, non ero sola. Che non lo sarei stata.»

 

                                                      ▶

 

«I tuoi genitori?»

Kael era seduto con la schiena appoggiata contro uno dei due pannelli che fungevano da “piedi” della scrivania.

Continuava a rigirarsi una medaglietta fra le dita guardandola insistentemente.

«Loro sono al sicuro», disse, con il tono della voce che rasentava un sussurro. Poi aggiunse: «Ervin ha portato mia madre in un ufficio, un paio di piani sopra questo. Si sono chiusi lì dentro con altre persone.»

Mi sentii un po’ più tranquilla sapendo che Kael non avrebbe dovuto piangere la morte di sua madre o di suo padre.

Sospirai, stringendo le ginocchia contro il petto.

Poggiai il mento su di esse e strinsi forte le braccia attorno alle gambe.

«La tua famiglia?», mi chiese solo dopo svariati minuti di silenzio.

Scossi il capo «Sono a Boston, io vengo da lì.»

Kael accennò un sorriso breve «E’ una fortuna che non siano qui.»

«Già.» Lo era veramente.

Mia madre era l’unico affetto che mi restava e saperla in pericolo mi avrebbe divelto l’anima.

Ad un tratto qualcosa trillò. Riconobbi la suoneria di un cellulare. Era il suo.

Lo sfilò dalla tasca e quando i suoi occhi lessero il numero che era apparso sul display, rispose immediatamente.

«Mamma!», esclamò, «State bene? Ervin ti ha portata al sicuro?»

«Si. Siamo chiusi in un ufficio con degli avvocati. Tu? Sei al sicuro?»

Kael spostò lo sguardo su di me «Si, sono al sicuro.»

«Mi raccomando, resta nascosto.» La voce della donna iniziava ad inclinarsi. D’un tratto, la sentii piangere.

«Promettimelo.»

Gli occhi di Kael vacillarono all’interno della stanza. Una nube di tristezza li oscurò velocemente.

«Te lo prometto, mamma.»

Il microfono del cellulare gracchiò per un istante.

«Mi dispiace per come siano andate le cose. Mi dispiace di averti trascurato, di-» Un altro suono distorto.

«Mamma?»

«Perdonam-»

«Mamma! Mi senti?» La chiamata si interruppe di colpo e potei sentire solo un paio di bip dal vivavoce.

Kael fissò l’apparecchio per qualche istante, prima di passarsi una mano sul volto come a voler scacciare un pensiero fastidioso.

«La raggiungeremo», dissi.

Per un momento il nostro sguardo si incrociò.

Nei suoi occhi potevo leggere di tutto. Kael aveva paura, probabilmente, più di qualsiasi altra volta nella sua vita.

Annuì anche se non sembrava affatto convinto.

Effettivamente, non avevamo la benché minima idea di come saremmo riusciti a scappare da quel palazzo.

 

                                          ॥

Mi muovo sulla roccia: non riesco a star ferma.

Una parte di me scalpita di nuovo per scappare e questa volta posso farlo. Mel ha liberato i miei piedi. Ma c’è qualcosa che mi tiene imprigionata qui.

Sono i ricordi. E’ il passato.

«Hai bisogno di fare una pausa?», domanda di colpo.

«No, posso continuare.»

                                            ▶

 

«C’è una scala antincendio, qui fuori.» Sollevai lo sguardo sulla schiena di Kael leggermente sporta oltre il parapetto.

«Non credo sia sicura.» mormorai, anche se ero al limite delle idee e quella si proponeva come ultima chance. «Non fanno mai manutenzione in questo posto, quella scala è vecchia e arrugginita. Non reggerà il peso di entrambi.»

«E’ l’unico modo che abbiamo e se andrà male, almeno, ci avremo provato.».

La scala esterna era a ridosso della nostra finestra, uno spazio libero per ogni due rampe: una che scendeva verso il basso e l’altra che saliva. Parte della ringhiera si era arrugginita esattamente come i perni che la tenevano agganciata alla parete del palazzo. Ricordavo di aver sentito Susanne parlare al telefono con gli addetti alla manutenzione sottolineandone proprio la pericolosità.

Era un’idea malsana quella che stavamo avendo.

«Basterà lanciarsi li sopra», Kael mi raggiunse costringendomi a sollevarmi da terra. Agguantò il mio braccio e mi fece avvicinare alla finestra. Con la mano libera indicò lo spazio di ferro vuoto fra una gradinata e l'altra. Era quello il punto di atterraggio.

«Non so se ne sarò capace», mormorai rabbrividendo. Mi vedevo già con la testa spappolata sull’asfalto.

«Certo che ci riuscirai», il tono d’ovvietà nella sua voce mi fece credere, per un istante, che forse potevo veramente farcela. Certo, soffrivo terribilmente le altezze e quel dettaglio non aiutava, ma i rumori oltre la porta barricata stavano aumentando e mi spingevano sempre di più verso il vuoto oltre la finestra.

Kael poggiò una mano sul telaio di alluminio della finestra a scorrimento. Guardò in basso per un po’ «Saranno un paio di metri massimo», affermò «Intendo dalla finestra allo spazio libero della scala.»

Due metri. Non era una grande distanza da coprire, ma avrebbe retto quel rottame?

Di colpo, con uno slancio, lo vidi mettere un piede sul termosifone che precedeva il parapetto e issarsi su, un momento dopo.

Allungò anche l’altra mano verso il telaio così da potersi reggere sospeso nel vuoto.

 «Kael! Diamine, sta attento!» D’istinto gli afferrai un lembo della maglietta.

Si voltò e guardando in basso, mi sorrise: «Ehi, va tutto bene. Non mi sono ancora lanciato.»

Il cuore mi martellava in petto. 

Se quella scala non avesse retto e lui ci fosse morto sopra, sarei rimasta sola.

«Dovresti scendere, troveremo un altro modo», provai a dirgli.

Mi guardò per un lungo istante, prima di chinarsi sulle ginocchia. Allungando una mano e poggiandola sulla mia spalla, disse:«Ascolta, non c’è un altro modo.»

Non risposi, mentre faceva correre le dita lungo il mio braccio.

Tornò a sollevarsi senza che io potessi aggiungere nulla per dissuaderlo.

«Allora» disse con una certa risolutezza nel timbro della voce «Se cado e muoio, di a mia madre che la perdono.»

Sentivo lo stomaco aggrovigliarsi sempre di più.

Kael guardò in basso.

All’improvviso, lasciò andare la presa.

«Kael!»

Lo vidi planare verso il vuoto e sparire velocemente risucchiato dalla gravità.

Un tonfo ferruginoso fece oscillare lo scheletro della scala d’emergenza davanti alla finestra.

Mi sporsi oltre il parapetto di colpo.

Tornai a respirare solo quando incrociai i suoi occhi.

Kael mi sorrise vittorioso. Sembrava essere tutto intero.

Mi portai le mani alla fronte di riflesso. 

Ora toccava a me.

Ero un fascio di nervi con il cuore al galoppo.

Non avevo idea di quello che mi stesse passando per la testa in quel momento o di ciò che stavo per fare, ma presi un lungo respiro e mi arrampicai sul parapetto.

La sensazione di instabilità nelle gambe mi aveva costretta a piegarmi sulle ginocchia già un paio di volte.

«Non ce la faccio, Kael! E’ troppo alto.»

Kael, che intanto si era sollevato da terra, mi fissava dal basso continuando ad infondermi coraggio.

«Ce la puoi fare!»

La marea di sensazioni che mi serpeggiavano per tutto il corpo era tutt’altro che piacevole.

Se qualcuno, quella mattina, mi avesse avvertita che mi sarei ritrovata sul parapetto di una finestra pronta per buttarmi nel vuoto, gli sarei scoppiata a ridere in faccia e lo avrei chiamato pazzo.

Invece, ero esattamente lì, su quel dannato spazio di cemento a chiedermi se sarebbe andato tutto bene.

«No, Kael. Non posso.» Stavo per accovacciarmi di nuovo. -Mi sarei arresa. Qualcuno mi avrebbe cercata prima o poi, no?

«Ehi! Ehi! Non tornare dentro!»

La paura mi aveva assalita prendendosi ogni fibra del mio corpo.

«Stang!», gridò ancora.

Poi, accadde l’imprevisto.

La scrivania, che fungeva da barricata contro la porta, venne spinta via da qualcosa che premeva oltre di essa.

In un attimo, l’anta si spalancò lasciando invadere la stanza dalla morte.

Mi sollevai di colpo cercando di afferrare lo stipite della finestra. Inavvertitamente, però, la mano mi scivolò.

E poi non ci fu più nulla, né gli occhi rossi, né la paura. Serrai le palpebre.

Stavo cadendo nel vuoto attirata come un magnete dalla gravità. I pensieri sciamarono in fretta così come la paura. Ero arresa, svuotata. Qualcosa di morbido attutì la mia caduta.

Quando riaprii gli occhi, le braccia di Kael erano attorno alla mia vita. Mi voltai di scatto. Era tutto intero? Gli avevo rotto qualcosa? -Io mi ero rotta qualcosa?

«Te l’ho detto che ce l’avresti fatta», mimò un sorriso.

Stava bene. Certo, l’indomani si sarebbe sentito un po’ acciaccato e sicuramente anche io mi sarei sentita allo stesso modo, ma eravamo vivi e questo bastava.

                                                     ॥

 

«Grazie a quella scala», dico, «Siamo riusciti a raggiungere la finestra dell’ufficio dove si erano nascosti Alisha e gli altri.» 

Guardo i polsi arrossati dalla fascetta di plastica.

«Stavano bene?».

Mi mordo un labbro «Non tutti.»

                                                      ▶

Quando gli occhi di Alisha si posarono sullo spazio non più vuoto al centro della finestra, lessi dentro le sue iridi la parola speranza.

«Kael!», esclamò attorniando la nuca di suo figlio con entrambe le braccia. «Stai bene, grazie al cielo!».

Due piccole lacrime le si incastrarono fra le folte ciglia chiare.

Mi arrampicai sul parapetto e con cautela, misi prima una gamba e poi l’altra, al di là di esso.

L’interno dell’ufficio 456 era un disastro di scrivanie ribaltate, fogli sparsi, sangue e persone terrorizzate.

Alisha ed Ervin non erano gli unici che avevano trovato rifugio lì dentro.

Con loro, c’erano altri cinque avvocati fra cui Sanchez.

La sua espressione era il ritratto dello sgomento e del dolore. La camicia bianca, sotto la giacca scura, era macchiata di sangue, le sue mani erano sporche e da come aveva mugugnato di dolore, provando ad alzarsi, capii che doveva essersi slogato una caviglia.

«Luis» La prima cosa che mi venne in mente fu quella di accertarmi che non fosse stato morso. Avevo ancora impresso il ricordo di Mike che si era trasformato irreversibilmente in qualcosa di mostruoso. Temevo che altri, lì dentro, avrebbero fatto la sua stessa fine.

Sanchez sollevò lo sguardo dolorante verso me.

«Sei ferito?» 

Annuì indicandosi la gamba.

«Posso dare un’occhiata?» 

«Si.»

Sollevai l’orlo del pantalone nero e notai che non si era solo slogato la caviglia: se l’era spezzata.

Una frattura scomposta: l’osso era venuto fuori dalla carne lacerandola ed il sangue che gli stavo vedendo addosso veniva proprio da lì.

Ne aveva le mani intrise, la giacca, il viso.

Mi passai una mano sulla fronte.

Quello si che era un problema.

«Voi altri state tutti bene?» mi rivolsi alle altre quattro teste sedute accanto a Sanchez.

Li vidi annuire, qualcuno con più convinzione, qualcuno meno.

Mi sollevai. 

Alisha, Ervin e Kael erano in piedi accanto alla finestra.

I genitori di Kael erano sconvolti ma non sembravano feriti, solo terrorizzati.

«L’unico messo male sembra essere Sanchez», dissi avanzando verso i tre, indicandolo con il pollice alle mie spalle.

Ervin si strinse le braccia in petto: «Anche se riuscissimo a scappare da qui grazie a quella scala, non potremo portarlo con noi. Non riuscirebbe mai a saltare.»

Un piano della scala antincendio combaciava perfettamente con la finestra di quell’ufficio. Non c’erano più i due metri a dividerci dal ferro ma uno scarso. Quella gamba, conciata in quel modo, però, non avrebbe permesso all’avvocato di saltare comunque.

«Non possiamo lasciarlo qui, Ervin!», si affrettò a dire sua moglie bisbigliando.

Ervin aggrottò la fronte «Alisha, è messo male. Molto male.»

Stranamente Kael non parlava. Se ne stava appoggiato al bordo di una scrivania, a braccia conserte, fissando un punto cieco oltre l’orizzonte fuori dalla finestra.

«E’ una persona, Ervin!»

I toni accesi della discussione stavano arrivando alle orecchie degli altri presenti nella stanza e velocemente si creò scompiglio.

 «Ehi, non vorreste lasciarlo qui?!», un uomo sulla sessantina,vestito di grigio, si sollevò da terra. L’espressione cinerea e i pugni stretti.

Venne verso di noi a passi pesanti con fare minaccioso.

«Vi abbiamo indicato noi quest’ufficio!»

«Già! E’ vero!», commentò nervosamente un’altra voce in fondo alla stanza.

Scattai in avanti, opponendomi a lui, con le braccia sospese a mezz’aria «Signor Collins.», lo chiamai, leggendo il suo nome sulla targhetta agganciata alla giacca, «Nessuno lascerà nessun altro qui dentro.»

«Ho solo detto che non riuscirà a saltare dal parapetto.», proferì Ervin alzando di un tono la voce per farsi sentire da tutti.

L’uomo oltrepassò con lo sguardo la mia spalla, sfidando il padre di Kael con un’occhiata torva.

«Signor Collins, per favore», lo supplicai. La tensione era alle stelle. Se non eravamo morti per le creature oltre la barricata di sedie e tavoli, lo saremmo stati per mano di Collins o di Ervin o di chiunque altro in quella stanza.

Collins afflosciò le spalle.

Tornai a respirare solo quando lo vidi camminare a ritroso sulla moquette, verso la parete dalla quale era venuto.

Ma non aveva nessuna intenzione di lasciar cadere la cosa.

Si accomodò a sedere, appoggiò gli avambracci alle sue ginocchia e fissandoci tutti e quattro in cagnesco, disse: «Perché non avete controllato loro due?», indicando me e Kael con l’indice.

«Non sono feriti.» Si affrettò a rispondere Alisha facendo un passo avanti.

Un sopracciglio, folto e grigio, dell’uomo scattò in alto «E tu come fai a saperlo? Il ragazzo ha la maglia intrisa di sangue.»

Guardai Kael preoccupata. Mi aveva detto che il sangue non era suo, ma ora che quell’uomo stava insistendo per fargli alzare la maglietta, avevo l’impressione che l’espressione sul suo viso fosse atterrita.

«Non è mio», disse per la seconda volta.

«Collins ha ragione. Avanti! Solleva la maglietta!», Due avvocati si alzarono da terra e avanzarono verso di noi.

«Si! Solleva la maglietta!»

Kael indietreggiò, incuneandosi fra una scrivania e il parapetto della finestra.

«Non toccate mio figlio!»

«Altrimenti?».

A quel punto, Ervin scattò verso i due uomini, pronto per fare qualcosa, quando uno di loro lo colpì dritto sul naso con un pugno.

Alisha venne bloccata dall’unica altra donna presente nell’ufficio a parte me, ed io da Collins che, come un rapace, aveva atteso il momento giusto per agguantare le mie braccia.

«Kael!», gridò sua madre disperata.

«No! No!» Kael provò a divincolarsi ma fu inutile. Erano due contro uno. E lui…era ferito.

Il tipo più giovane lo placcò sbattendolo contro il piano di una scrivania per poi premere un braccio contro il suo collo. L’altro non perse tempo e agguantando il tessuto della T-shirt, gli scoprì il ventre.

Persi un battito.

Il sangue usciva in piccoli fiotti dalla sua carne. 

«Come immaginavo», commentò uno dei due con soddisfazione.

«Non è un morso», bofonchiò a fatica Kael, «Mi hanno ferito con un cutter.»

«Avete sentito? Non è un morso!», gridò Alisha.

Effettivamente, la lacerazione era lunga, lineare, come se qualcuno lo avesse ferito con qualcosa di acuminato.

Al suo aggressore non interessava. Era pronto a colpirlo, annebbiato dalla paura.

«Joseph non è un morso», esclamò Collins avvicinandosi a Kael. Gli occhi che indugiavano sul taglio. Joseph fermò il suo pugno a mezz’aria.

«Ad ogni modo, per sicurezza,  dovremmo controllare che nessuno oltre Sanchez e il ragazzo abbia addosso ferite.» Collins mi lasciò andare e così fece anche la donna che aveva bloccato Alisha.

Per un momento sembrava essere tornata la calma all’interno dell’ufficio.

«Sono d’accordo», disse Ervin risollevandosi da terra con il dorso della mano premuto contro il naso.

Poco dopo, sotto ordine di Ervin e Collins ci separammo in due schieramenti: gli uomini da una parte e le donne dall’altra. Alisha si offrì di controllare sia me e che Carmen, mentre gli uomini furono controllati da Ervin.

 

Ci sistemammo dietro un paio di scrivanie ed incominciammo a farci perquisire.

 

«Mi dispiace di averti fermata.», Carmen osservava le dita di Alisha muoversi sulla sua pelle alla ricerca di ferite.

«Lo hai fatto per paura.», indugiò sulla schiena della donna, c’era qualche abrasione, un paio di graffi nulla di preoccupante. 

«Ma non credo che tu abbia dei figli.»

«No, ma mi piacerebbe averli un giorno.», sorrise debolmente Carmen.

«Allora, sarà quel giorno che scoprirai cosa vuol dire temere per la loro vita.» Alisha si sollevò da terra; lo sguardo serio verso la donna. Le porse la camicetta a stampe floreali e rivolse l’attenzione a me.

Mi privai della giacca, della camicetta bianca e della gonna.

 

«Grazie per aver salvato mio figlio» 

Mi rannicchiai nelle spalle «Non sono stata io a salvare lui, bensì, il contrario.»

Senza Kael sarei morta.

Sentii Alisha sospirare un sorriso mentre mi sfiorava la pelle con la punta fredda delle dita «Sai, Kael è molto altruista.», ammise «E’ sempre stato pronto ad aiutare gli altri, finché…Non si è perso.»

Pensai al fascicolo. Era dipendente dalle droghe.

«E’ ancora così», proferii di getto, facendole affiorare un altro sorriso sulle labbra.

«Lo spero. E’ un bravo ragazzo, veramente.»

Alisha mi pizzicò delicatamente la spalla con i polpastrelli.

«Sei apposto. Ora tocca a me.»

Controllai il suo corpo, non era ferita e averne la certezza mi fece tirare un sospiro di sollievo. 

Ora, però, il problema era un altro…

«Lo sapevo!», gridò, carico di soddisfazione, Ervin «Avete accusato mio figlio di essere stato morso, e guarda un po’!».

Mi infilai velocemente la camicetta e la gonna rialzandomi da terra. Ci voltammo tutti in direzione del dito di Ervin puntato contro Crane: uno dei due uomini che aveva aggredito Kael.

Il giovane avvocato impallidì «No, non è come pensi.» bofonchiò indietreggiando con le mani avanti «Mi sono ferito cadendo.»

«Fammi vedere la ferita, Crane», ordinò Collins estremamente serio in volto.

Il ragazzo lo scrutò spaurito.

Mosse da paura e curiosità, ci avvicinammo anche Alisha ed io.

«Signor Collins, la supplico…deve credermi».

Purtroppo, lo squarcio che aveva sul polpaccio aveva una seghettatura sul contorno visibilmente ricollegabile ad un’arcata dentale.  

«E’ indubbiamente un morso», constatò Collins.

«Ma non è diventato come quelle persone lì fuori!» si intromise Carmen a favore del giovane collega.

«Non ancora, magari.», constatò Ervin.

Joseph aveva lo sguardo che trasudava odio. Era stato zitto fino ad allora; finché non aveva sentito il bisogno di esplodere: «Fottuto bastardo, sei stato morso e ce lo hai tenuto nascosto?», gridò sovrastando tutte le altre voci.

Kael, Alisha ed io eravamo impietriti. Cosa avrebbero fatto a Crane?

«Propongo di liberarci di lui», sentenziò quello che fino a pochi minuti prima lo aveva spalleggiato quando si era trattato di mettere Kael all’angolo.

Crane sgranò gli occhi, una goccia di sudore gli zampillò dal viso «Andiamo, amico…Sono io, Crane» proferì con la voce tremante «Ci conosciamo da un’eternità.»

Joseph lo scrutò con sprezzatura: «Ci conosciamo da un paio di anni e tu non sei mio amico.»

«Jo non puoi fare sul serio!» Carmen era disperata. Si piantò davanti a Joseph afferrando i suoi polsi e supplicandolo in lacrime. Non so se avesse avuto a che fare con Crane in precedenza, ma dal suo viso capii che l’idea di poterlo mandare a morire l’avrebbe ferita mortalmente.

«Preferisci che metta a rischio le nostre vite?».

Collins fissava il giovane avvocato ferito come se la risposta ad ogni suo dilemma fosse nascosta nel suo cranio.

Si inumidì le labbra e disse: «La vita di uno per la salvezza di tutti.»

Una frase breve che capitolava un’esistenza.

«Non potete farlo!», gridò Crane in lacrime.

Mi sembrava di impazzire. Anzi, tutti stavano impazzendo lì dentro.

«Credo che Collins abbia ragione», mormorò Ervin.

«Papà!» La voce di Kael raggiunse le mie orecchie strappando dalla mia mente ogni pensiero. Ervin faceva sul serio? «Sei impazzito? E’ un essere umano, cazzo!»

Forse stare chiusa lì, con quelle persone, si stava rivelando peggio del previsto.

Peggio di quello che c’era fuori.

«Propongo di aspettare.», Alisha fece un passo avanti rivolgendosi a tutti «Aspettiamo che si trasformi e poi penseremo a cosa fare.»

Joseph le rifilò un’occhiata all’arsenico «E se ci attacca? Come pensi di fermarlo?».

A quel punto, lo sguardo della donna parlava chiaro dicendo fra le righe: “Lo uccideremo, ecco come.”


Era appena nato dal nulla uno schieramento: chi era sano doveva stare al centro della stanza mentre chi era ferito o chi, come Crane, era stato morso doveva restare dietro una barricata di fortuna fatta di sedie e scrivanie accatastate. Kael era dall’altra parte della barricata di scrivanie con suo padre Ervin.

«Sei stato tu a ferirmi!», Protestò lo stesso, dichiarando più volte che non era quello il lato giusto della stanza per lui.

«Sei ferito, adesso. Perciò resterai lì.», rispose Joseph sdraiato al centro della stanza sulla moquette: braccia allacciate dietro la nuca, testa appoggiata sulla sua ventiquattrore.

Ervin sospirò amareggiato: se avesse potuto, avrebbe torto il collo a quell’uomo.

Guardai Kael. Il capo contro la parete, gli occhi socchiusi.

Probabilmente i suoi pensieri avevano incanalato una direzione oscura.

«Dobbiamo trovare un modo per portarci tutti in salvo», sentenziò Collins in piedi al centro della stanza.

Si guardò attorno rimbalzando da viso a viso.

«E’ chiaro che la scala lì fuori, oltre ad essere pericolante, non è praticabile per Sanchez. Perciò, qualcuno ha qualche idea?».

«Potremmo armarci.» Propose Carmen, spostando una ciocca castana dietro il suo orecchio.

Ervin lanciò gli occhi al cielo abbozzando un sorriso isterico «Armarci? E con cosa esattamente? Spillatrici e plichi di fogli?»

La ragazza lo guardò storto «No, stronzo. Romperemo i piedi alle sedie, spezzeremo le scrivanie e useremo i pezzi di legno come armi.» 

Le sopracciglia di Ervin scattarono verso l’altro per lo stupore «Wow, quanti film d’azione hai visto, per sparare stronzate simili?».

«Fate silenzio!» Collins fece un passo avanti: «Carmen non ha avuto una brutta idea, ma è rischioso avventurarsi lì fuori.»

Lo era sul serio. Pezzi di scrivania e piedi delle sedie fino a che punto ci avrebbero protetti?

Spostai lo sguardo angosciato verso Alisha. Non era d’accordo con quel piano.

«Io non vado lì fuori.» All’improvviso, Kael schiuse le palpebre. La sua voce non aveva una tonalità ben definita, era piatta, tranquilla.

«Il tuo parere non conta, dobbiamo agire tutti insieme. Gli unici che devono restare qui dentro finché non torniamo con i soccorsi sono Sanchez e Crane.»

Gli occhi scuri del ragazzo piombarono sul viso di Collins «Io non esco lì fuori.» disse ancora. Adesso era molto più serio.

Collins serrò le labbra per un istante, ma poi, i lineamenti del suo viso tornarono a rilassarsi. Socchiuse le palpebre e accennando un sorriso velenoso mormorò: «Va bene, ragazzo. Sei ferito dopotutto. Resta pure. Ma tua madre, tuo padre e quella ragazza verranno con noi.»

«Cosa?!», Alisha balzò in piedi «Non puoi costringerci! Ognuno di noi deve poter scegliere!»

Collins rifilò un’occhiata in tralice alla madre di Kael: «Ma l’unione fa la forza e voi siete la minoranza.»

Il sorrisetto sprezzante sulla sua faccia era odioso.

«Io parlo per la mia famiglia, non tu Collins.», protestò ancora la donna.

 All’improvviso, Ervin perse le staffe. Sorpassò la piccola barricata e si fiondò contro l’uomo, afferrandolo per il colletto.

Veloce, tanto che nessuno poté impedirgli di raggiungerlo.

«Ervin!», Alisha lo fissava scioccata. Conosceva suo marito, sapeva cosa era in grado di fare.

Ma Ervin, contro ogni previsione, mantenne la calma. - Più o meno.

«Chiunque voglia seguire Collins o Carmen, faccia pure» gridò rivolgendosi a tutti i presenti «Io e la mia famiglia troveremo un altro modo.»

Forse Ervin aveva atteso quel momento da quando si era ritrovato chiuso in quella stanza con loro, perché la sua espressione, seppur marcata di nervi, sembrava sollevata.

 

                                                  ॥

Scorgo l’espressione sul volto di Mel vacillare per un momento prima di chiedere: «Cosa è successo a Crane?Si è trasformato?»

Mi inumidisco le labbra «Ecco…Non proprio.»

 

                                                  ▶

«Ci vuole un’esca», sentenziò l’uomo dalla chioma grigia come il suo abito elegante.

«Un’esca?», Joseph non credeva alle sue orecchie.

«Proprio così, qualcuno che esca lì fuori e distragga quei mostri».

«E’ da pazzi!»

«E’ un suicidio!»

Mi ero accovacciata dietro una scrivania. Non volevo partecipare a quel piano suicida.

Avevo una vaga idea di quale piega avrebbe preso la situazione e non mi piaceva affatto.

Fra l’altro, cominciai a temere che, ben presto, quella fine sarebbe potuta toccare chiunque fra noi.

«Karina?» Sollevai gli occhi umidi di scatto, oltre la mia fronte. «Ti chiami Karina, giusto? Credo di averlo letto sul mio fascicolo quando ho richiesto un nuovo legale.»

Kael si accovacciò accanto a me piombando a sedere sulla moquette.

«Si.», ammisi.

Poggiò le mani per terra dietro la sua schiena.

«Non ti ho ancora ringraziato». Lo scrutai confusa. «Se non mi avessi trascinato via da quel pavimento, forse sarei morto a quest’ora.»

Scossi il capo accennando un sorriso tiepido, «Non sono io ad averti salvato, sei stato tu ad aver salvato me.»

Non l'avevo mai visto sorridere, intendo, sorridere per davvero.

Invece, in quel momento il suo sguardo si scaldò.

«Be’ ci tenevo a dirtelo» disse, facendo una breve pausa per ascoltare le voci alle sue spalle, «nel caso che quel fottuto pazzo ci usi come carne da macello.»

 

«Allora è deciso, Crane uscirà in corridoio distraendo le belve.», sentenziò Collins sbottonandosi la camicia. L’aria nella stanza era già satura da un po’, ma ora che l’avvocato sessantenne pareva aver preso il controllo dell’ufficio, immedesimandosi nella parte del “leader”, sembrava annaspare.

«Non funzionerà», si intromise Ervin quasi disinteressato.

Le braccia allacciate dietro la nuca, la schiena appoggiata alla scaffalatura agganciata alla parete.

«Lo armeremo e noi usciremo subito dopo di lui.», Carmen aveva cambiato del tutto opinione. Ora credeva in Collins e nella sua idea malata. La sua mente era annebbiata e plagiata dalla paura di morire e dalle parole di quell’uomo.

Collins sogghignò compiaciuto, accarezzandole la testa.

«Vedo che hai ben chiaro il da farsi», sibilò.

Crane non aveva più lacrime, le aveva piante tutte.

Era rimasto in disparte per tutto il tempo, accucciato dietro il mucchio di scrivanie che lo separavano dal centro della stanza. L’avevo visto piangere in silenzio, tirare fuori dalla tasca il suo cellulare, mandare un vocale a qualcuno, salutarlo. Poi, con il passare del tempo, cominciò a star male. Lo vidi portarsi una mano sul pantalone in direzione del morso. Sudava, la sua pelle era pallida. Quando sollevò il tessuto in direzione del polpaccio, la ferita sembrava trasudare pus. Attorno alla fila di denti che gli avevano trapassato la carne, si era espanso del rossore: le vene erano in rilievo e formavano tante piccole ramificazioni verso ogni direzione. 


                                                ॥

«Stava morendo», dico, «ne era consapevole.»

Abbatto lo sguardo. Il ricordo di Crane, di ciò che è accaduto dopo, mi torce le budella.

Mel scruta il mio volto dal piccolo schermo agganciato alla telecamera «Cosa è successo a Crane, dopo?».

Sospiro.

«Secondo te?» 

                                                 ▶

 

Ad un tratto, i suoi occhi si incrociarono con i miei. Credo che in quel momento lui stesso avesse realizzato che la sua esistenza era arrivata al capolinea. Ciò che non mi spiegavo, però,  era perché Mike si fosse trasformato in meno di sette minuti mentre lui aveva passato ore prima che la ferita degenerasse. Non mi rassegnavo all’idea che, in qualche modo, potesse sopravvivere.

Io non lo avevo fatto, non lui…

Ci fissammo per un lasso di tempo indefinito. Ad un tratto, mi sorrise tristemente, si passò una mano sul viso e prese un breve respiro. Quello che accadde dopo, successe in fretta.

Si sollevò da terra con le gambe tremanti, raggiunse la finestra alle sue spalle e fece scorrere l’anta.

Poi, davanti ai miei occhi, si issò sul parapetto sedendosi di spalle al vuoto e…

«Crane!», gridai.

Si voltarono tutti di scatto, ma era troppo tardi. Crane si era già lasciato cadere nel vuoto.

 

                                                  ॥

Serro la mascella.

Sento mille sensazioni orribili scorrermi nelle vene.

Potevo fermarlo? Dovevo, sicuramente.

Mel abbassa la cinepresa e mi lascia in balia dei pensieri per un po’. Apprezzo che sia discreta.

«Sentii solo il tonfo ferruginoso che fece quando atterrò sul tettuccio di un’auto e subito dopo, l’allarme. Non ho avuto il coraggio di affacciarmi come hanno fatto gli altri.»

                                                     ▶

 

«Oh, maledizione!». Il piano di Collins era saltato e nonostante un ragazzo di appena trent’anni si fosse tolto la vita, pur di non finire a fare l’esca, lui non aveva avuto nemmeno la decenza di tacere. Imprecò abbastanza volte da farmi irradiare le guance e irritare i nervi.

«Cristo! Hai appena costretto un ragazzo ad uccidersi e sei persino deluso che non si sia ammazzato per proteggerti il culo! Sei rivoltante!».

Alisha mi strinse delicatamente un braccio tentando di farmi tacere.

Ma io non volevo tacere. Io mi auguravo che il prossimo a fare quella fine fosse proprio lui. E la cosa peggiore, fu realizzare che, desiderando che anche Collins morisse, non ero poi così diversa da lui o dalla sua malvagità. 

Collins ammiccò un ghigno e sibilò: «Vuoi essere la prossima?»

Un brivido di angoscia mi percorse la spina dorsale. 

«Karina, no.» mormorò Alisha, quando notò nelle mie gambe uno scatto «Non farlo, è un uomo pericoloso.»

Sfidai Collins con lo sguardo e lui non esitò a ghignare sprezzante un’altra volta.

«Con o senza Crane, usciremo lo stesso.» Vidi i suoi occhi virare nella direzione di Luis.

Avevo già capito tutto.

“ No, questa volta no.” mi dissi.

La reazione mente-corpo fu istantanea, incontrollata. Mi liberai dalla presa di Alisha,

afferrai una pianta accantonata in un angolo del parapetto, e non appena Collins si voltò, lo raggiunsi, colpendolo alla nuca con tutta la forza.

L’uomo cadde sulle sue stesse gambe come se, di colpo, fossero diventate di gelatina, perdendo i sensi.

Ricordo che ebbi l’impressione di respirare realmente solo nell’attimo in cui lo vidi privo di sensi a terra.

«Sei impazzita?», Carmen gattonò verso di lui.

Strinsi la circonferenza del vaso sempre più forte. Sentivo scalpitare dentro di me la voglia di colpirlo ancora, di ferirlo mortalmente.

«Karina», ma poi la voce roca di Kael raggiunse i lobi delle mie orecchie. Lasciai andare il vaso che ruzzolò sulla moquette un paio di volte.

«Mi dispiace, non so cosa mi sia preso», mormorai in un filo di voce. Sollevai la testa, e andai in tilt quando i nostri occhi si incrociarono. Il suo sguardo vagò su di me.

Era imperscrutabile. Non avevo idea di cosa stesse pensando in quel momento, temevo solo che iniziasse a credere che avrei potuto fare del male a lui o ai suoi genitori.

Cosa avevo fatto? Ero un mostro.

«Hai fatto la cosa giusta.», proferì Ervin avvicinandosi a me, poggiandomi una mano sulla spalla.

Veramente? Perché io stentavo a credere che colpire un uomo alla testa fosse la cosa giusta.

Avevo l’impressione di essere stata corrotta. La paura di morire, il terrore, mi avevano plagiata.

Tremavo all’idea di poter essere impazzita come Collins o Carmen.

Temevo di poter fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, di cui poi mi sarei pentita per tutta la vita.

 

                                               ॥

«Ho fatto una marea di cose di cui mi sono pentita.», ammetto.

«Tutti noi ne facciamo in continuazione, Karina. E’ colpa di questo mondo in rovina.» Non ha tutti i torti. Questo mondo ti porta a compiere gesti che ti segnano.

«Già…»

                                               ▶

 

Il terrore si impossessò di me come un virus.

Non ero più la stessa Karina di qualche ora prima.

Dentro me incominciò a scalpitare una sensazione orribile. In oltre, la testa mi esplodeva e la gola mi bruciava.

Incominciai a respirare a fatica.

«Karina», Kael allungò una mano verso me, ma mi scansai di colpo. Non doveva toccarmi, mi sentivo un abominio.

I suoi occhi indugiarono sul mio viso preoccupati.

«Va tutto bene?».

«E’ un attacco di panico», lo informò Ervin facendo un passo avanti verso suo figlio.

«Sto bene.», bofonchiai indietreggiando «Sto bene.»

Guardavo Collins privo di sensi e Carmen che gli passava una mano sulla fronte ripetutamente.

Quella era la prima volta in assoluto che le mie mani avevano ferito qualcuno. Prima di allora, non avevo torto un capello mai a nessuno.

E ciò che ero in grado di fare, messa sotto pressione, mi spaventava mortalmente.

 

«Non possiamo restare qui.» Alisha ci raggiunse. Si era avvicinata a Sanchez per assicurarsi che fosse ancora vigile.

«Quando Collins riprenderà i sensi cercherà di convincere Joseph e Carmen a farci fare da esche.»

C’era questa possibilità e man mano che passava il tempo stava diventando certezza tangibile.

Oltrepassai con lo sguardo, ancora spaurito, la spalla della donna. Carmen e Joseph erano seduti attorno a Collins, Sanchez ad un paio di metri di distanza gemeva di dolore. 

Dovevamo trovare il modo di salvare Sanchez e di separarci da quelle persone.


                                                      ॥

«Cosa avete deciso?».

Sposto lo sguardo verso i fili d’erba attorno alla punta dei miei stivali. 

«Non potevamo lasciare Sanchez in balia delle idee folli di Collins. Quell’uomo aveva plagiato Carmen e Joseph irrimediabilmente e non gli sarebbe costato molto convincerli a trascinare Luis fuori di lì. Perciò, decidemmo di provare a curare quella frattura.»

 

                                                  ▶

 

«La scala. E’ l’unica via di fuga sicura», affermò Ervin sporgendosi dalla finestra.

«Come facciamo con Sanchez?», domandai.

Quell’osso di fuori non lo avrebbe portato da nessuna parte. Inoltre, il dolore lancinante gli aveva alzato la temperatura corporea. La sua fronte imperlata di sudore, bolliva.

Gli passai la manica della mia giacca sul viso.

«Lasciatemi qui, prima o poi arriverà qualcuno a cercarmi.», mormorò rivolgendo lo sguardo arrossato a me.

«Sanchez, non sappiamo se qualcuno arriverà. Non possiamo rischiare di lasciarti qui, morirai.»

Luis era stato un buon collega, nonostante lavorasse per lo più come avvocato della controparte, mi aveva dato un mucchio di consigli all’inizio di quel tirocinio, era un po’ un mentore per me.

Sorrise debolmente. La sua mano sfiorò il dorso della mia «Sei una brava ragazza, Stang.»

Sentii accrescere in me la voglia di piangere.

Mi voltai verso Ervin «Trova un modo, ti supplico.»

Il padre di Kael si massaggiò il mento.

Poi, qualcosa gli balenò sul viso: un’idea.

Si mosse verso Sanchez, «Kael aiutami.», portandosi un braccio dell’uomo attorno alla nuca. Kael si spostò dalla parete in fretta e mimò i gesti di suo padre un attimo dopo.

Luis lanciò un grido di dolore per poi mordersi le sue stesse labbra, soffocandolo. Gli esseri oltre la porta lo avevano sentito. Sentimmo un tonfo e poi grattare convulsamente. 

Ervin mimò di far silenzio con un dito.

«Vedrai andrà tutto bene.» Cercai di consolarlo. C’era poco che potessi dire o fare in quel momento.

«Qualunque cosa tu voglia fare, non funzionerà.», commentò Joseph sporgendosi da una scrivania.

«Non ci abbiamo ancora provato, non possiamo saperlo.», dissi.

L’avvocato sbuffò facendo una smorfia.

«Siamo al sicuro qui dentro, perché non tornate a sedervi e basta?»

. Sapevamo di non essere al sicuro. Loro erano il problema.

«Cosa vuoi fare Ervin?», domandò Alisha, seguendo i movimenti di suo marito e di suo figlio attentamente.

«Dobbiamo sistemargli la caviglia», affermò l’uomo.

«E come?», chiesi. Aveva un osso esposto! Nessuna manovra avrebbe fatto tornare la gamba com’era. Sanchez andava operato e possibilmente non spostato da dov’era. 

Ervin e Kael lo accompagnarono verso una scrivania colma di plichi. Kael spostò i mucchi di fogli con un braccio e un attimo dopo, aiutò suo padre a issare sopra il piano Luis.

«Trova qualcosa di rigido», ordinò Ervin.

Ci guardammo tutti attorno.

I piedi di legno delle sedie potevano andare bene.

«Kael aiutami a spezzare uno di questi.» Mi raggiunse in fretta. Rivoltai la sedia da un lato e la trattenni, finché, dopo svariati colpi, Kael non riuscì con un calcio a spezzare uno dei quattro piedi.

«Bene», mormorò suo padre, «Mi serve qualcosa per legare la sua caviglia.»

Guardai la mia giacca a terra.

Non ci pensai due volte. Velocemente raccolsi un paio di forbici da un portapenne e afferrai una manica della giacca.

«Può andar bene?»

Ervin annuì, poi tornò a voltarsi verso Luis. «Sanchez, ascoltami-», mormorò, «adesso proverai dolore ma non dovrai - per nessun motivo -, gridare.» 

Luis annuì. La fronte che gli grondava copiosamente di sudore.

«Alisha, mantieni il piede della sedia accanto alla sua caviglia.», Ervin corse con le mani verso la manica della mia giacca. La fece passare sotto la caviglia e annodò con forza i due lembi attorno ad essa e al piede della sedia.

Luis sommesse un altro grido.

Il dolore era ammorbante.

«Sicuramente non potrà camminare, ma sentirà meno dolore quando lo sposteremo.»

Joseph ci arrivò alle spalle. Allungò lo sguardo sulla gamba di Luis e sogghignò divertito. «Non ce la farà.»

Ervin lo scrutò con la coda dell’occhio «E’ un peccato vero? Vi sto portando via un’altra esca.»

L’avvocato serrò le labbra per un istante, si voltò alle spalle e poi tornò a rivolgere lo sguardo verso Ervin.

«Ascolta, non ero d’accordo con l’idea di Collins, ok?»

Ervin si voltò nella sua direzione e sollevò il mento «A me pare di si.»

In quel momento, nessuno di noi si fidava delle parole di Joseph.

 «Dico sul serio.». 

Vidi Carmen sollevarsi dal pavimento e raggiungerci.

«Avevamo paura che Collins potesse farci del male», ammise, un attimo dopo.

Per qualche motivo, non mi fidavo affatto di quei due.

«Oh, avanti! Messi alle strette lo avreste fatto anche voi!», protestò l’uomo.

Un muscolo guizzò sulla mascella di Ervin. «Messi alle corde, noi non abbiamo ceduto.», lo rimbeccò.

«Ok. Ok.» Alisha si insinuò fra i due uomini «Tutti vogliamo salvarci. Se siete disposti a darci una mano con Sanchez, usciremo di qui entro poco.».

Carmen e Joseph si scambiarono uno sguardo d’intesa. Sguardo, che a me puzzava di bruciato.

«Perfetto, diteci cosa dobbiamo fare.»…

 

   
 
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