Serie TV > I Bastardi di Pizzofalcone
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Autore: Cattive Stelle    24/02/2022    0 recensioni
[I Bastardi di Pizzofalcone - stagioni 2&3]
Cos'è una notte insonne?
La fotografia di un'emozione, delle paure più profonde, dei pensieri più veri.
E' il rifugio delle anime più inquiete.
In questa raccolta di racconti, una notte e la dedica di una canzone per ognuno dei Bastardi di Pizzofalcone.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Contesto: I Bastardi di Pizzofalcone 3 ~ episodio 3x05  - Sangue

Dopo aver litigato furiosamente con Aragona a causa di frate Leonardo, Pisanelli si ritrova da solo a fare i conti con il fastidio di non essere creduto dagli altri Bastardi e l'angoscia dell'imminente resa dei conti, annunciata da un presentimento che rimbomba in lui in modo sempre più forte.

 

 

 

Pisanelli


♫ Sempre e per sempre (Francesco de Gregori)

 

 


 


VIII

Sempre e per sempre

 

 

Di camomille indigeste e faticose rese dei conti



 

 

 

 

Erano passate sì e no due ore da quando la porta di ingresso si era chiusa sbattendo fragorosamente, facendo sparire provvidenzialmente dalla sua vista Aragona.
Ma, nonostante l'assenza di quel fastidioso e ingombrante inquilino, in quella casa non sembrava comunque essersi ristabilita la pace.

Pisanelli sfidava da qualche minuto il tremore delle mani nel tentativo di farsi una camomilla. Un diversivo di poche pretese che, nella realtà, però si stava rivelando un'impresa a dir poco titanica.
Si maledisse tra sé quando, nel versare l'acqua calda in una tazza che ospitava al suo interno una bustina pronta a disperdere un gradevole profumo, si scottò.
Oltre il danno la beffa – si disse l'anziano vice commissario, ammettendo tra sé che quell'insipida e maledetta bevanda, alla fine dei conti, non sarebbe servita assolutamente a niente.

Giorgio aveva sempre pensato che quello di accompagnare una bevanda a una determinata sensazione o stato d'animo fosse, in fondo, null'altro che un pagliativo, un atto consuetudinario quasi scaramantico.
E così, devi civettare con qualcuno o spettegolare amabilmente?
Ti fai un the.
Vuoi trovare una scusa per perdere tempo facendo conversazione o ti serve un'informazione con una certa urgenza, ma sarebbe indelicato chiederla direttamente?
Offri il caffè a qualcuno.
Non riesci a dormire perché la vita è grama e hai bisogno di tranquillizzarti?
Prepari una camomilla.
Tutto inutile.
O, almeno, per la versione più disillusa di lui era così.

Pisanelli era, infatti, un uomo troppo pragmatico, saggio ed accorto per pensare che sarebbe bastata un po' di insipida acqua calda giallastra a togliergli di dosso quell'inquietudine.
Eppure, anche lui ci era cascato.
Ma è umano – pensò tra sé - nel tentativo di levarsi un peso si fa qualsiasi cosa.
Anche se ciò che lo aveva realmente spinto verso il malefico infuso era stato pensare che Carmen lo avrebbe fatto.
Proprio lei che, vedendolo in pensiero, si sarebbe diretta in cucina, avrebbe messo l'acqua sul fuoco, sforzandosi poi di raggiungere il ripiano della mensola in alto in punta di piedi, per recuperare un paio di bustine.
Conoscendola, avrebbe poi preparato la zuccheriera, due tazze e, infine, ci avrebbe versato l'acqua con cura, sorridendo mentre si colorava lentamente.
E poi sarebbe rimasta lì, con lui.
A pensarci, gli sembrava di vedere quella scena davanti agli occhi: lui, seduto a capotavola, e lei, sul lato, a guardarlo senza fare domande mentre aggiungeva di tanto in tanto un cucchiaino di zucchero alla tazza di lui.
«Almeno ti addolcisce un po', male non fa» – avrebbe detto, come faceva sempre in quelle occasioni.
Ma lei non c'era e la tazza ormai era una sola.

Così, Pisanelli aggiunse a sua volta un paio di cucchiaini di zucchero e afferrando la camomilla con entrambe le mani si incamminò verso la camera da letto, trascinando i piedi.
Poggiò il tazzone sul comodino, in attesa che si raffreddasse un po', e si lasciò cadere con un sospiro sulla poltrona, foderata in pandant al resto dell'arredamento.
«Hai visto?» - disse ad alta voce rivolgendo uno sguardo al portaritratto affianco all'abatjour, con riferimento a quel maledetto liquame giallognolo – «Così, almeno tu, non puoi dire che non ti ascolto»
Si fermò un attimo.
«Anche tu pensi che sono pazzo, eh?» - continuò.
«Non saresti l'unica, sai? Qua sono tutti convinti che Pisanelli si sia rincoglionito, che dopo la pensione abbia dovuto per forza trovarsi qualcosa da fare...» - sbuffò il vice commissario, forse alzando un po' troppo la voce.
«Non potevano continuare a fare come hanno sempre fatto, no!? Pensavano che fossi pazzo anche prima, ma almeno mi ignoravano... Invece no, ora improvvisamente si preoccupano e si mettono tutti in mezzo. Che poi, dico, non tengono nient'altro di meglio a cui pensare? Non ne hanno già abbastanza, dei loro di problemi?» - domandò tutto d'un fiato in innegabile tono di rimprovero.
«A dirla tutta, mi sembra che quelli da aiutare siano loro, prima ancora di me... O sbaglio, Carmen?»
Detto ciò, Pisanelli, già esausto, fece una smorfia delle sue e si abbandonò alla poltrona sospirando rassegnato, con lo sguardo al soffitto.
«Tanto, con loro o senza di loro, è uguale: me la devo vedere io da solo. La resa dei conti è tra me e lui, una questione personale...» - fece una smorfia.


Come prevedibile, quel riferimento gli materializzò davanti agli occhi l'immagine di frate Leonardo, che negli ultimi mesi era diventato a pieno titolo il protagonista principale dei suoi incubi ricorrenti.
Tra sé Pisanelli constatò come poteva essere strana la vita, quando affianca persone, che man mano diventano incredibilmente vicine, e che finiscono poi per temersi, o addirittura a disprezzarsi.
Innegabilmente, da tempo, il vice commissario viveva in maniera conflittuale quell'amicizia andata in pezzi in modo così violento e definitivo. Si era sentito ingannato, preso in giro per anni dal suo più caro confidente, l'unico affetto che gli era rimasto e a cui aveva affidato le sue sofferenze, i suoi pensieri più oscuri.
Da quando avevo scoperto la vera natura di quel frate apparentemente innocuo e rassicurante, Giorgio si era tormentato senza tregua cercando un perché. Si interrogava sulle convinzioni che avevano guidato Leonardo in quel percorso impervio, in quel piano diabolico.
Ma, soprattutto, voleva capire il motivo per cui, in tutto quel tempo, lui, che si era erto a Dio in Terra nel decidere chi doveva vivere e chi morire, lo avesse risparmiato.
Quel pensiero lo perseguitava.
D'altronde anche lui aveva manifestato a più riprese il desiderio di morire, di mettere fine a tutto, nella speranza di tornare da Carmen il prima possibile.
Perché gli altri sì e lui no?

Quelle domande ronzavano nella sua testa continuamente, non trovando risposte.
Anche perché l'unica risposta plausibile, a quel punto, sarebbe stato l'affetto.
Lo stesso affetto che, però, Pisanelli non riusciva proprio più a riconoscere verso chi, da anni, metteva in atto una pietà deviata che portava ad uccidere le stesse persone per cui si provava compassione.
Chissà quale meccanismo bacato si instaura in un cervello per arrivare a fare cose del genere? - si chiedeva Giorgio - Tra l'altro, con la convinzione di essere nel giusto, auto-lodandosi e credendo addirittura di fare del bene.

Per l'anziano vice commissario, quello era il tipo di domande che aveva, da sempre e a fasi alterne, rinvigorito e sfinito il suo impegno da poliziotto.
E se c'era una cosa a cui, in 40 anni mal contati di carriera, proprio non si era abituato era il confronto con il colpevole.
Il più delle volte si trattava di un insospettabile, uno che vedi tutti i giorni a comprare il giornale sotto casa o che incroci tutti i weekend al supermercato, con una faccia anonima: uno normale, con una vita apparentemente normale, o addirittura monotona... Uno come tanti.
E così, qualcosa sul più bello si inceppa.
Chissà cosa e chissà perché poi?
Ma Pisanelli non era mai riuscito a rispondersi.
Certo, con il mestiere che aveva scelto di fare e che, da qualche anno, era diventato anche il suo unico motivo di vita, non poteva permettersi di passare sopra certe cose, di cercare scusanti.
Nel contempo, però, era fortemente convinto che “giustizia" non significasse rimanere ciechi, non porsi domande... quello sì, che sarebbe stato da stupidi.
E, in fondo, era certo che esistesse sempre una ragione.
Aveva sempre pensato che fosse estremamente difficile trovarsi davanti a qualcuno che senza motivo, dalla sera alla mattina, ammazza un altro.

Il vice commissario credeva che nella stragrande maggioranza dei casi il movente fosse sempre (e in maniera del tutto contraddittoria) lo stesso: l'amore. Declinato in tutti i modi.
Invidie, gelosie, odi, mancanze: tutte forme e sfumature di un amore deviato, trascurato, appassito o scappato di mano.
E questo non faceva altro che confermare che, d'altronde, solo le passioni forti, quelle che smuovono tutto, l'anima, i pensieri, il sangue potessero portare a una frattura così profonda per la propria umanità, per la propria coscienza.
In cuor suo, spesso e volentieri, Pisanelli aveva addirittura provato pena per certi colpevoli che, alla fine dei conti, si rivelavano null'altro che persone comuni travolte dalle miserie della vita, incapaci di controllare sé stessi e le proprie sofferenze in un momento di debolezza.
Si era chiesto più volte se potesse capitare a tutti di vivere una deviazione tanto crudele, se esistesse qualcosa che avrebbe potuto abbattere quel limite e magari portare anche lui a macchiarsi irrimediabilmente, senza via di ritorno.
Ma aveva avuto paura della risposta.
Così, puntualmente, arrivato a quel punto della riflessione, anche quella volta, preferì interrompere il filo di quel pericoloso discorso con un colpo netto di forbici.
Non era il caso di infierire in serate delicate come quella.

Si giustificò tra sé, convincendosi che anche un uomo integro ed esperto come lui, in assenza della dovuta lucidità, poteva finire a pensare cose di cui poi ci si pente, alimentando paranoie e tarli fondamentalmente inutili.
Con un respiro profondo, cercò di scacciar via prepotentemente quelle congetture, fortemente condizionate da quell'inquietudine ormai impossibile da tenere a bada.

Fu così che, nel tentativo di distrarsi, i suoi pensieri ricaddero, in modo del tutto masochistico, su quello sciagurato di Aragona.
Fingeva da ore di non covare una latente preoccupazione, principalmente incentrata sul dove fosse finito a quell'ora, senza l'ombra di un quattrino in tasca.
«Non mi guardare così, Carmen» – si girò puntando l'indice contro la foto della moglie per interromperla, come se potesse rimproverarlo – «E non ti azzardare a dire che sono preoccupato: è grande, grosso, adulto e, per non farci mancare niente, si crede di essere chissà chi manco fosse in un film Western. A quest'ora, sarà di sicuro a dare fastidio a qualche altro povero cristiano.»
Gli pareva proprio di vederlo: stravaccato da qualche parte a guardare per aria con la bocca aperta e il rischio sempre più concreto di ingoiare una mosca, mentre pensava a quale dei disgraziatissimi colleghi rivolgersi per elemosinare un letto o, alla peggio, la cuccia del cane (che, senza dubbio alcuno, sarebbe stata la scelta più consona).
Conoscendo il suo pollo, Pisanelli era praticamente sicuro che, dopo un'ardua diatriba tra l'emisfero destro e sinistro della sua modestissima materia grigia, sarebbe finito a suonare il campanello di Alex strepitando come un'aquila e in modo confuso le sue discutibili ragioni.

Pur sforzandosi di trattenere una reazione, nell'immaginare quella scena, a Pisanelli scappò un ghigno divertito.
«Immagina se si ritrova davanti la Martone...» - tossicchiò Giorgio nel tentativo di mascherare la sottile ilarità che gli causava l'innata ignoranza di Aragona.
«Che poi sai che novità?! Ormai lo sanno tutti… Giusto lui che si crede Sherlock Holmes non ha ancora capito che sarebbe il momento di smetterla di fare il cascamorto con quella povera figlia» – continuò alzando il mento al soffitto.
«Peccato solo che, a quanto è pieno di sé, la riterrebbe un attenuante al suo insuccesso, continuando a credere di essere irresistibile... Pensa che fesso!» - scosse la testa rassegnato, per poi allungare una mano verso la tazza ancora fumante che giaceva sul comodino.
Stette per qualche secondo a guardare con diffidenza quella bevanda acquosa e giallognola tra le sue mani, ammettendo che Alex non fosse affatto da biasimare.
Premesso, infatti, che si trattava di aspetti intimi e personali che tali dovrebbero rimanere, se ti trovi davanti uno come Aragona, famoso per essere detentore di tutti i difetti del mondo e di ogni forma discriminatoria esistente: sessista, classista, razzista, retrogrado e chi più ne ha più ne metta… Puoi aspettarti qualunque cosa.
Aggiungici poi un padre generale, la cui ottusa inflessibilità era leggenda nell'ambiente: ci sta pure che non venga voglia di attaccare i manifesti. Tutto ad un tratto, gli venne in mente la faccia del generale Di Nardo, scostante come non mai ed impressa staticamente in quelle foto istituzionali affisse sui muri scrostati della caserma del circondario, e fu così che con espressione schifata si inflisse il primo sorso di camomilla.
Solo in quel momento, con un certo sconforto, arrivò a realizzare che, in termini di spiacevolezza, addirittura Aragona poteva essere battuto sul campo: prova provata che non esistesse limite al peggio.
E a questa constatazione, sempre meno convinto, bevve un altro po'.
Ma si arrese subito dopo
e, disgustato come non mai, abbandonò nuovamente la tazza sul comodino, questa volta, ripromettendo a se stesso che non l'avrebbe toccata mai più.

«Sì, ma è da lei, è da lei» – si ripeté ripensando alla faccia poco intelligente dell'agente scelto e riportandosi al filo iniziale del discorso – «Figurati se va da Romano, da Lojacono o dalla Martini... peggio che mai.»
«No, da Romano non ci va perché ha paura di essere preso a mazzate. E, forse, in questo momento tiene pure ragione. Da come ho capito, le cose a casa non stanno andando bene e poi con gli assistenti sociali alle costole si sa come va a finire...» - sospirò Giorgio.
«La dottoressa che aveva in cura la bambina dici tu?» - guardò il soffitto distrattamente.
«Mai più né vista né sentita... A te non sfugge mai niente, eh?» - domandò divertito con un sorriso alla foto sbiadita.
«Ma, d'altronde, com'è che si dice? Chi vivrà vedrà.» - disse mentre si sfilava una scarpa, facendo leva con l'altra ancora indosso.

«Per non parlare di Lojacono... Te l'ho detto, no?» - intervallò con un sospiro di sollievo dovuto alla ritrovata libertà del piede sinistro.
«Dicono che la Piras debba scegliere se restare qua o accettare un incarico in Corte di Cassazione a Roma... E, che te lo dico a fare?! Dalla faccia che tiene lui ultimamente, mi sembra che sia più propensa per il sì che per il no» – concluse sommariamente, mentre tentava invano di levare l'altra scarpa con la stessa modalità usata pochi minuti prima, facendo perno con il calzino bianco che continuava a scivolare sulla para di gomma.

«E, comunque, una ne finisce e un'altra ne comincia. La Martini, sai?» - chiese retorico a chissà chi.
«Dal palazzo di giustizia arrivano voci che abbia attirato l'attenzione di Buffardi o che addirittura si conoscessero già da prima: insomma, ri-inizia la tarantella...» – sbuffò mentre, più arreso che mai, si chinava per sfilare la
calzatura questa volta con l'ausilio delle mani.
«Ma quella è un tipo in gamba, dura, determinata, affilata come la lama di un coltello. Se l'ho inquadrata bene, darà del filo da torcere a Palma...» - decretò con un filo di soddisfazione.

A quel punto, finalmente scalzo, si alzò in piedi e, tirato fuori il pigiama azzurro a righine da sotto il cuscino, iniziò a svestirsi mentre continuava a farneticare:
«Che, tra l'altro, un poco se lo merita pure, dato che non si fida di nessuno. Questa volta si sono pure coalizzati, lui e quella mezza carogna che mi tengo in casa. Col risultato che mo' mi chiamano centocinquanta volte al giorno: hanno paura che mi sia completamente rincoglionito e che faccia una sciocchezza» - disse
rimasto in boxer, mentre poggiava con cura i pantaloni piegati sul bracciolo della poltrona.
«Hai capito? Io faccio sciocchezze, non loro...» - tuonò con una mezza smorfia, infilando i pantaloni del pigiama.
«A quello gli è pure venuto il disturbo da stress post traumatico» – continuò con un'espressione sempre più perplessa, sfilando prima il golf e poi la cravatta.
«Non lo sapevi, Carmen? Così lo chiamano il mal d'amore i giovani, al giorno d'oggi» – ridacchiò sotto i baffi prima di prendersi una breve pausa per sbottonare uno a uno i bottoni della camicia.
«E che sono fesso io? Gli altri forse... ché sembra non si siano accorti di niente, in mezzo a questi due che fanno il bello e il cattivo tempo. E si prendono e si lasciano e si tirano e si mollano» - si morse un labbro mentre sfilava prima una manica e poi l'altra.
«Sì, lo so... Non tutti hanno la fortuna che abbiamo avuto noi, di trovarci subito e di stare sempre insieme, anche se sempre è stato un po' meno del previsto...» – sorrise amaramente alla donna nella foto.
«
Hai ragione...» - disse quasi in risposta, abbottonando intanto la casacca del pigiama – «E' sempre un peccato sprecarlo, l'amore quando c'è»

Per un attimo si fermò a piegare con cura la camicia e finì per pensare ad Ottavia, che conosceva da chissà quanto, e fu travolto da una forte malinconia.
D'altronde era rimasta solo lei, l'unica presenza fissa tra il vecchio e il nuovo corso dei Bastardi in quel tempo, che pareva ormai lontanissimo, quando Carmen c'era ancora e anche in quello in cui lo aveva lasciato da solo.
Sì, pensò ad Ottavia e al sorriso che, da sempre, sembrava mancare sul suo volto... O, per lo meno, da quando era nato Riccardo.
Lo sguardo di Giorgio si venò di dispiacere.
«Va bene,
va bene! Se Leonardo mi fa il piacere di non suicidarmi prima, le parlo io a Ottavia...» - riprese con la voce leggermente incrinata.
«Vediamo se serve a qualcosa...» – aggiunse poi, mentre poggiava, questa volta senza troppa attenzione, la camicia appena tolta sullo scrittoio.
«Magari, è la volta buona che Palma si distrae un po' e la smette di pensare così tanto ai fatti miei, a quanto mi sono rincoglionito, a Frate Leonardo,
ai vecchietti e a tutto il resto...» – ci scherzò su lui nel tentativo di mascherare gli occhi lucidi, nascosti dietro le lenti spesse.
«A proposito, quasi dimenticavo...» – farneticò tra sé, mentre si alzava faticosamente dalla poltrona.

Con qualche passo scomposto si avvicinò al cassetto del comò, tirò velocemente fuori un fodero in pelle e si diresse senza fretta verso il soggiorno.
Girò lentamente attorno alla tavola rotonda in legno massiccio che riempiva la stanza, facendola diventare all'occorrenza una bella sala da pranzo.
Dinnanzi al posto dove sedeva di solito e si inginocchiò con una leggera smorfia, dovuta a quelle sue gambe indolenzite che avevano camminato tutto il giorno per il quartiere.
Allora estrasse la pistola dal fodero, la infilò con cura maniacale al gancio di spago che aveva fissato nei giorni precedenti alla base inferiore del tavolo.
Accertatosi che l'arma fosse ben salda e in equilibrio, si rialzò, prima una gamba e poi l'altra, reggendosi alla sedia e, una volta in piedi, si incamminò nuovamente verso la porta.
Arrivato all'uscio, si voltò un'ultima volta, chinandosi leggermente prima a destra e poi a sinistra per verificare che quell'artigianalissimo "treppiedi" sospeso non risultasse eccessivamente visibile dall'esterno.
Così, compiaciuto del suo lavoro e con sottobraccio un plaid blu a quadri, fino ad allora piegato sul divano, ciabattò nuovamente fino alla camera da letto.
Mentre percorreva il corridoio, Pisanelli ricordò con orrore i calzini zozzi che Aragona era solito poggiare su quella vecchia coperta quando assediava il divano per guardare la TV.
Inutile dire che ebbe la forte tentazione di buttare tutto in lavatrice, agente scelto compreso, se solo lo avesse avuto sotto tiro. Ma, nonostante ciò, non poté trattenere un mezzo sorriso divertito a cui seguì ben presto un'occhiata preoccupata all'orologio a pendolo che segnava ormai un'ora tarda.

«Ecco, anche questa è fatta!» - esclamò appena superata la porta - «L'ho sistemata al suo posto»
«Così, anche se finisce male, almeno non possono dire che sono uno sprovveduto e che mi sono dimenticato come si fa il poliziotto. Vero, Carmen?» – chiese nello sprofondare nuovamente sulla poltrona accanto al comodino, coprendosi poi le gambe con il plaid sgualcito.

Fu così, che cercando di scacciare quell'angoscia, rivolse un ultimo sorriso al volto imprigionato in quel portaritratto fermo e freddo, che niente aveva di lei, in cerca del suo irrinunciabile benestare. E malgrado si fosse illuso di averle addirittura strappato un sorriso, per tutta la notte, con il presentimento che la resa dei conti fosse ormai sempre più vicina, non riuscì a chiudere occhio.

 

 

 

   
 
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