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Autore: Clementine84    25/02/2022    0 recensioni
Dal primo capitolo:
“Hai paura?”
Seduto in macchina, davanti all’imponente cancello della scuola, l’uomo si voltò a guardare suo figlio, quel bel ragazzo quasi diciottenne che gli somigliava come una goccia d’acqua, e si trovò a domandarsi quando il tempo avesse iniziato a correre così in fretta.
Gli sembrava ieri che aveva stretto quel fagottino tra le braccia, sentendosi l’uomo più felice e fortunato sulla faccia della Terra. Adesso, invece, felicità e fortuna sembravano essersi dileguate e si ritrovava con una vita a pezzi e una carriera in bilico, entrambe da ricostruire. E aveva pensato di farlo tornando a casa, in Kentucky. A Lexington c’erano ancora i suoi genitori e suo fratello, con la sua famiglia, senza contare zii e cugini che avrebbero potuto dargli un po’ di supporto.
E Dio solo sapeva quanto ne avesse bisogno, in quel momento.
Gli ultimi mesi – o forse anni – si erano portati via qualunque certezza avesse mai avuto e aveva dovuto scendere a patti con la cruda realtà che la vita perfetta che credeva di avere fosse una mera illusione.
Genere: Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brian Littrell, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nulla di quanto narrato è reale o ha la pretesa di esserlo. Questo scritto è frutto della mia fantasia e non vuole, in nessun modo, offendere le persone rappresentate. I personaggi originali, invece, appartengono alla sottoscritta e ogni riferimento a persone reali è da considerarsi puramente casuale.
La canzone citata lungo tutta la storia è Rushed Over Me, dei Backstreet Boys, che dà anche il titolo alla fanfic.
Se qualcuno volesse contattarmi per dirmi cosa ne pensa della storia, sappiate che mi fa piacere.


 

Washed away my sad face
You flooded all my empty space

 

“Hai paura?”

Seduto in macchina, davanti all’imponente cancello della scuola, l’uomo si voltò a guardare suo figlio, quel bel ragazzo quasi diciottenne che gli somigliava come una goccia d’acqua, e si trovò a domandarsi quando il tempo avesse iniziato a correre così in fretta.

Gli sembrava ieri che aveva stretto quel fagottino tra le braccia, sentendosi l’uomo più felice e fortunato sulla faccia della Terra. Adesso, invece, felicità e fortuna sembravano essersi dileguate e si ritrovava con una vita a pezzi e una carriera in bilico, entrambe da ricostruire. E aveva pensato di farlo tornando a casa, in Kentucky. A Lexington c’erano ancora i suoi genitori e suo fratello, con la sua famiglia, senza contare zii e cugini che avrebbero potuto dargli un po’ di supporto.

E Dio solo sapeva quanto ne avesse bisogno, in quel momento.

Gli ultimi mesi – o forse anni – si erano portati via qualunque certezza avesse mai avuto e aveva dovuto scendere a patti con la cruda realtà che la vita perfetta che credeva di avere fosse una mera illusione.

Era stato un brutto colpo da cui non si era ancora ripreso completamente.

Aveva dovuto cambiare aria, da qui il trasloco, e prendersi un periodo di pausa dal lavoro. Almeno dalla parte più stressante del suo lavoro, che prevedeva girare il mondo per condividere la sua arte e il suo talento con la gente e rendere felici le persone, offrendogli la possibilità di evadere dai loro problemi e dalla loro quotidianità e immergersi in un sogno, anche se solo per qualche ora. Adorava quel lato del suo lavoro, lo amava forse più di ogni altra cosa. Ma, anche quello, gli era stato portato via da un destino crudele che sembrava voler farsi beffe di lui, giocando a dadi con la sua vita e strappandogli quanto di più importante avesse.

Con lo sguardo ancora fisso su suo figlio, prese un paio di respiri profondi, per calmare i battiti accelerati del cuore e far sì che i muscoli, che sentiva già stringersi attorno alla gola, bloccandogli l’aria e impedendo alle corde vocali di funzionare come avrebbero dovuto, si rilassassero, così da poter parlare.

Hai ancora lui, si disse. Non ti hanno portato via tutto.

Come a voler confermare quella teoria, suo figlio gli sorrise e scosse la testa.

“Onestamente? No. Sono eccitato come la prima volta che mi hai fatto salire su un palco a suonare e non vedo l’ora di fare questa nuova esperienza” confessò.

Sentendo una parte della tensione che lo opprimeva abbandonarlo, ricambiò il sorriso di suo figlio, ripetendosi, per l’ennesima volta, che la decisione di tornare a Lexington e di iscrivere Bay a una scuola vera, invece di continuare a istruirlo a casa, fosse la cosa migliore che potesse venirgli in mente.

Forse lui e la felicità avevano una relazione complicata, ultimamente, ma voleva fortemente che suo figlio fosse felice. L’ultimo periodo era stato pesante anche per lui e ancora non riusciva a credere che avesse deciso di voler vivere con lui, invece di restare ad Atlanta con sua madre.

Lentamente, si slacciò la cintura di sicurezza e posò una mano sul ginocchio di suo figlio, annunciando “Bene. Andiamo a conoscere questa nuova scuola, allora”.

 

~ * ~

 

“Ehi!”

Sentì qualcuno urlare da una finestra e, con la coda dell’occhio, controllò a chi appartenesse la voce, senza distogliere l’attenzione dall’azione che si stava svolgendo in campo, davanti a lei. Solo quando fu certa che la sua squadra avesse conquistato il punto, si permise di voltare la testa verso l’edificio e concentrarsi sulla persona che stava gridando.

“Ehi, Mila Azuki!” ripetè Bill, il suo collega di informatica, richiamando la sua attenzione e rivolgendole uno sguardo tra il divertito e l’incredulo.

Emma sorrise. Nessuno dei suoi colleghi capiva perché preferisse passare la pausa pranzo a giocare a pallavolo con gli alunni, invece di starsene tranquilla a chiacchierare in aula insegnanti. Ma lei amava stare con i ragazzi e si divertiva a giocare con loro.

“Dici a me, per caso?” lo canzonò, sollevando un sopracciglio.

Bill si lasciò sfuggire una risatina e annuì, prima di annunciare “Mi dispiace interrompere il gioco, ma devi venire. Il tuo appuntamento è arrivato”.

“Arrivo subito” rispose, iniziando ad allontanarsi dal campo.

Mentre si dirigeva verso l’istituto, sciogliendosi lo chignon in cui aveva legato i lunghi capelli castani e abbassandosi le maniche della felpa che indossava, sentì una voce lamentarsi, dietro di sé. “No! Miss Williams, non se ne può andare! Perderemo”.

Si voltò, ridendo, e, continuando a camminare all’indietro, replicò “Mi dispiace ragazzi, il dovere mi chiama”. Poi, dopo aver scoccato un’occhiata furba al ragazzo che aveva parlato, aggiunse “E comunque, muovi il sedere, invece di startene lì impalato, Matt, e vedrai che qualche palla in più la prendi”.

Una risata e ulteriori lamentele da parte di Matt la accompagnarono fino all’ingresso della scuola, mentre la brezza ancora calda di quel primo pomeriggio di settembre le scompigliava i capelli, donando un po’ di sollievo alle guance accaldate per il gioco.

Non appena varcata la soglia, fu accolta da Bill, che le porgeva una bottiglietta d’acqua.

“Grazie” gli disse, prendendone un sorso e sentendosi subito meglio. “Dove sono?”

“Li ho fatti accomodare nel tuo ufficio” spiegò il collega.

“Okay” ribatté, registrando l’informazione e iniziando a dirigersi verso la porta del suo ufficio.

La voce di Bill però, la fece fermare sui suoi passi e voltare nuovamente verso il collega. “Ehm...Emma?”

“Sì?”

“Tu...sai chi è questo nuovo studente, vero?” le domandò.

Stupita da quella che riteneva una domanda curiosa, ripescò nella memoria le informazioni che aveva letto sulla scheda del ragazzo, proprio quella stessa mattina, e annuì.

“Ma certo” gli assicurò. “Baylee Littrell, da Atlanta. Ha sempre studiato da privatista e vuole frequentare da noi l’ultimo anno. È tutto qui dentro, stai tranquillo” concluse, dandosi un colpetto sulla tempia con la punta dell’indice.

Bill aprì di nuovo la bocca per palare ma Emma non gliene diede il tempo e, ormai raggiunta la porta del suo studio, abbassò la maniglia per entrare, mimando con le labbra Ci vediamo dopo per salutare il collega.

 

~ * ~

 

Li avevano accompagnati in un ufficio luminoso, con le pareti ricoperte di libri, una scrivania con un portatile, pile di fogli e una tazza con un buffo disegno di un unicorno con il mantello da supereroe e una scritta che diceva Being a teacher is my superpower. Aveva sorriso, notandola, e si era detto che chiunque fosse il proprietario di quella tazza – e dell’ufficio in cui si trovavano – doveva per forza essere una persona simpatica. Nonostante questo, non era riuscito a sedersi tranquillo ad aspettare, insieme a Baylee, e aveva preferito ingannare il tempo dell’attesa guardando fuori dalla grande finestra aperta, che dava su un campo da pallavolo in cui si stava svolgendo una partita piuttosto combattuta.

Da quella postazione privilegiata, ma nascosta, aveva assistito al buffo scambio di battute tra quella che doveva per forza essere un’insegnante – sebbene i leggings neri e la felpa rossa dei Tampa Bay Buccaneers le conferissero un aspetto tutt’altro che autoritario – e un alunno, che si lamentava per il repentino abbandono del gioco da parte di quella che, evidentemente, consideravano la componente chiave per la vittoria della squadra. E si era ritrovato a ridacchiare, tutta la tensione che l’aveva accompagnato a partire da quella mattina completamente scomparsa.

Mentre stava ancora pensando a quanto curiosa fosse stata la scena a cui aveva appena assistito, sentì la maniglia della porta che si abbassava e si voltò di scatto, percorrendo in pochi passi lo spazio che lo separava da suo figlio, in modo da essergli accanto.

Sapeva che il preside della scuola era Paul Miller, con cui aveva parlato al telefono per prendere accordi nei mesi precedenti al trasferimento. Non aveva idea di che faccia avesse ma, a giudicare dalla voce, si aspettava di trovarsi davanti un uomo alto e distinto, ma anche molto gentile e accogliente. Per questo il suo stupore fu enorme quando, invece, la porta si aprì e vide una donna piccolina, con lunghi capelli castani, varcare la soglia e rivolgergli un sorriso caloroso e sincero.

Gli ci vollero solo un paio di secondi per riconoscerla: leggings neri e felpa rossa dei Buccaneers, le guance ancora arrossate dalla partita a cui aveva appena partecipato.

Era l’insegnante che aveva visto giocare a pallavolo con i ragazzi, poco prima, e che era stata richiamata per un misterioso appuntamento con quel buffo riferimento al personaggio di un cartone animato giapponese.

E loro, lui e Baylee, dovevano essere l’appuntamento.

Non appena mise piede nella stanza, richiudendosi la porta alle spalle, Emma incrociò lo sguardo di un ragazzo biondo, con vispi occhi verdi, che le rivolse un timido sorriso. Accanto a lui, in giacca di jeans e maglietta nera, stava la versione più adulta del ragazzo, i capelli di una tonalità di biondo più tenente al miele, un filo di barba a mo’ di pizzetto che gli incorniciava la mascella pronunciata e gli occhi azzurri più luminosi che avesse mai visto.

Le ci volle un istante per domandarsi dove diavolo l’avesse già visto e ancora meno per mettere insieme tutti i pezzi di informazioni che non aveva collegato fino a quel momento.

Ecco perché Bill le aveva fatto quella strana domanda. Che stupida era stata a non collegare a lui il cognome del ragazzo. E dire che avrebbe dovuto saperlo!

Cercando di mantenere la calma e dimostrare un minimo di professionalità, fece un passo verso le due figure davanti a lei e tese la mano al ragazzo, presentandosi.

“Piacere, io sono Miss Williams. Tu devi essere Baylee, giusto?”

“Sì, Baylee Littrell. Piacere” confermò lui, stringendogliela.

“E lei deve essere il padre, a giudicare dalla somiglianza” aggiunse, porgendo a mano anche a lui.

“Indovinato” rispose lui, accettando la mano, con un sorriso. “Piacere, Brian Littrell”.

Per quanto estremamente incuriosito da quell’incontro inaspettato, Brian si domandò come mai non ci fosse il preside ad accoglierli, come si aspettava.

Probabilmente notando il suo sguardo perplesso, la donna si affrettò a spiegare la situazione.

“Il preside, il Signor Miller, purtroppo oggi non c’è, ma io sono la vice e farò da tutor a Baylee per l’inserimento, quindi in realtà stiamo velocizzando le cose. Poi, se vuole comunque parlare al Signor Miller, posso farle fissare un appuntamento”.

Brian le sorrise, iniziando a rilassarsi grazie al suo modo di fare onesto e alla mano.

“Non ce n’è bisogno. Se lei sa cosa fare, ci fidiamo” le assicurò.

“Molto bene” concordò lei, ricambiando il sorriso e facendo cenno a lui e a Baylee di accomodarsi sulle due poltroncine davanti alla scrivania.

Mentre loro prendevano posto, lei si sedette dall’altro lato, recuperando una cartellina azzurra con il cognome e l’iniziale di Baylee scritte in pennarello nero e spostando la buffa tazza che aveva catturato l’attenzione di Brian poco prima, per fare posto sul tavolo.

“Dunque,” iniziò, aprendo il fascicolo e dando un’occhiata veloce al primo foglio al suo interno “ho visionato tutti i tuoi documenti scolastici, Baylee e, a quanto ho capito, hai sempre studiato da privatista per poi sostenere gli esami in una scuola di...Atlanta, giusto?”

Baylee annuì, serio. “Sì. Vivevamo lì ed era comodo fare lì gli esami. Ma non l’ho mai frequentata sul serio” spiegò. “Era difficile, con il lavoro di papà, sempre in giro per il mondo”.

Mentre osservava suo figlio rispondere alle domande della donna, orgoglioso per come se la stesse cavando perfettamente in una situazione nuova, sentì Emma ribattere “Immagino”. Poi, dopo avergli rivolto uno sguardo rassicurante, proseguì “E adesso, invece, hai deciso di frequentare l’ultimo anno”.

Baylee annuì e Brian decise che, a quel punto, fosse necessario prendere la parola per illustrare la situazione.

“Ci siamo trasferiti da poco e, dato che qui ho mio fratello e i miei genitori, ho pensato che Baylee può stare con loro, se io devo assentarmi per lavoro, e frequentare come si deve almeno l’ultimo anno”.

La donna sorrise e annuì. “Mi sembra una decisione sensata” concordò.

Studiò ancora un attimo i documenti contenuti nel fascicolo, poi lo chiuse e alzò lo sguardo su Baylee.

“Dunque, da quello che ho visto non hai nulla da recuperare e la tua preparazione è perfettamente in linea con quella dei tuoi compagni” disse, con un tono calmo e allegro. Allungò una mano, fino a mettergli un foglio sotto al naso “Ho buttato giù un piano di studio che comprende anche i corsi a scelta, tenendo conto di quello che hai fatto finora. Proviamo a dargli un’occhiata e mi dici se può andare, così poi ti do subito l’orario, ti va?”

Baylee annuì e Brian riuscì a distinguere l’entusiasmo crescere nei suoi occhi.

Restò a fissare il figlio che studiava attentamente il documento, la testa vicina a quella della strana donna che li aveva accolti, sentendo crescere dentro di sé una tranquillità che non provava da molto tempo e dandosi dello stupido per essere stato così in ansia per quel giorno. Era così terrorizzato dalla piega catastrofica che aveva preso la sua vita, da convincersi che anche quella nuova esperienza di Baylee sarebbe stata disastrosa. Invece, non solo stava andando tutto bene ma si stava anche rivelando più facile del previsto.

Contando mentalmente fino a cinque, tra un respiro e l’altro, come gli aveva insegnato la sua terapista, spostò l’attenzione dal figlio alla donna seduta di fronte a lui, permettendosi di studiarne attentamente la figura. Da quello che aveva visto quando era entrata, doveva avere pressapoco la sua età, forse qualcosa di meno. Era appena più bassa di lui, di corporatura media e con lunghi capelli castani, mossi e intervallati da un serie di ciocche più chiare, color caramello. Non era riuscito e vederle gli occhi o, meglio, aveva notato che luccicavano di entusiasmo e cordialità, ma non ne ricordava il colore. Con quel suo abbigliamento estremamente sportivo e quella personalità singolare, di cui aveva avuto un assaggio grazie a quello scambio di battute a cui aveva involontariamente assistito, era quanto di più lontano dall’ideale dell’insegnante potesse esistere ma, invece di esserne deluso o preoccupato, Brian si ritrovò a pensare che era felice che fosse stata lei ad accoglierli, invece del preside, perché sicuramente quel suo modo di fare anticonvenzionale aveva aiutato a mettere a suo agio Baylee. E anche lui stesso, inutile nasconderlo.

Fu riportato alla realtà dalla voce di suo figlio, che chiese “Io faccio musica. C’è un corso di musica?”

“Certamente” rispose la donna, sorridendogli. “E abbiamo anche la banda della scuola, che si occupa dell’accompagnamento musicale a feste e spettacoli, se suoni qualche strumento e può interessarti”.

“Suono la chitarra” annunciò Baylee, orgoglioso.

“Ottimo” esclamò lei, mostrandogli il pollice alzato. “Sei dentro, allora. Le prove sono tutti i giovedì pomeriggio, dalle tre alle cinque. Avverto il Signor Rodriguez che avrà una chitarra in più”.

Baylee sorrise, entusiasta di avere, in qualche modo, fatto colpo con le sue qualità ed essersi già assicurato un posto in un’attività extra scolastica.

Emma gli consegnò un foglio con l’orario delle lezioni che avrebbe dovuto seguire, poi chiuse la cartellina e posò le braccia sulla scrivania.

“Bene,” propose, sorridendo ai suoi ospiti “se vi va, vi porto a fare un giro della scuola, così inizi a orientarti, Baylee”.

“Sì, perfetto” concordò il ragazzo, entusiasta.

Brian e Baylee si alzarono entrambi dalle poltroncine, seguiti subito dopo da Emma, che si avvicinò alla porta e la aprì, invitandoli a uscire. “Andiamo”.

Richiudendosi la porta dell’ufficio alle spalle, Emma iniziò a percorrere i corridoi dell’istituto, ormai gremiti di ragazzi che, finita la pausa pranzo, si affrettavano a raggiungere le loro aule per le lezioni del pomeriggio, seguita dai suoi due ospiti. Baylee si guardava intorno, estasiato e incuriosito, mentre Brian continuava a scrutare la loro guida con interesse.

Incrociarono un gruppo di ragazze che chiacchieravano animatamente tra loro e una biondina con la coda di cavallo salutò Emma, sorridente “Buongiorno Miss Williams”.
“Ciao Linda” rispose Emma, gentile, e le domandò “Com'è andata la festa di compleanno?”

La ragazzina sorrise. “Alla grande, grazie. Poi le racconto che sorpresa mi ha organizzato mio fratello”.
“Okay, ma dopo la lezione” acconsentì Emma, rivolgendole uno sguardo di affettuoso rimprovero. “Non tentare di usarla come scusa per scampare Shakespeare perché non attacca”.
La ragazza scoppiò a ridere e promise “D'accordo, afferrato il messaggio. Ci sorbiremo il buon vecchio Will senza fiatare”.

Emma la salutò con una pacca sulla spalla e proseguì la sua strada, con Brian e Baylee dietro di lei, sempre più incuriositi dallo strano personaggio che li stava guidando.

A un certo punto, Brian decise di dare voce a parte del suo stupore e chiese “Conosce tutti gli alunni?”

Senza smettere di camminare, Emma si voltò a guardarlo e annuì.

“Diciamo di sì. Qualcuno meglio di altri, ma in generale li conosco tutti per nome. Qui alla Paul Laurence Dunbar nessuno è considerato un numero. È il nostro punto di forza” spiegò, orgogliosa.
Baylee spalancò gli occhi, colpito. “Vale per tutti gli insegnanti?” domandò.
Emma gli rivolse un sorriso furbo e, strizzandogli l’occhio, rispose “Ci proviamo”.

Salirono le scale per raggiungere il piano superiore dove, gli aveva spiegato Emma, si trovavano le aule di musica e i laboratori. Qui, Emma si fermò e richiamò l’attenzione di una ragazzina che stava per entrare in un’aula.

“Lexi”.

Sentendosi chiamare, la ragazza si voltò e Brian e Baylee poterono osservarla meglio, mentre si avvicinava a loro. Era di media statura, magra e molto minuta, con capelli castani, lisci come spaghetti, che le arrivavano più o meno alle spalle, labbra sottili e occhi azzurri che irradiavano intelligenza e curiosità. Indossava un paio di jeans scoloriti e una felpa celeste con il logo della scuola e sul suo visto, reso più interessante da un paio di occhiali con la montatura nera, sembrava non esserci traccia di trucco.

“Sì?” chiese, fermandosi accanto a Emma, che le sorrise, posandole una mano sulla spalla.

“Lui è Baylee” spiegò, indicando il ragazzo. “È nuovo. Hai voglia di fargli finire tu il giro della scuola, così gli racconti tutte quelle cose da studenti che io non so, mentre io finisco di parlare con suo padre?”

La ragazzina annuì. “Okay, nessun problema”. Poi si rivolse a Baylee e gli porse la mano, sorridente. “Ciao, io sono Alexis. Ma puoi chiamarmi Lexi” si presentò.

“Piacere, Baylee. Ma chiamami pure Bay” replicò lui, stringendole la mano e ricambiando il sorriso.

“Vieni, Bay. Ti faccio fare un giro” annunciò Lexi, approfittando del fatto di avere già la mano del ragazzo stretta nella sua e trascinandoselo dietro lungo il corridoio.

Emma e Brian li guardarono allontanarsi, con un mezzo sorriso. Poi la donna gli fece cenno di seguirla, dicendo “Venga, le faccio vedere il laboratorio di chimica. È nuovo e ne siamo piuttosto orgogliosi”.

Finita la visita al laboratorio, Brian ed Emma ridiscesero le scale e tornarono all’ingresso, chiacchierando del più e del meno, in attesa che Baylee terminasse il giro turistico con Lexi. Mentre aspettavano, Emma disse “Bene, direi che abbiamo sistemato tutto. Baylee può iniziare domani e per qualsiasi cosa il mio numero è scritto in fondo al foglio con l’orario che gli ho consegnato”.

“Perfetto” commentò Brian, rivolgendole un rapido sorriso.

“Domande?”

Preso alla sprovvista, Brian si limitò a fare no con la testa. “No, tutto chiaro”. Poi, però, ci ripensò e decise di togliersi una curiosità che gli girava in testa dal primo momento in cui aveva visto Emma. “In realtà, una domanda ce l’avrei” esordì.

“Mi dica” lo spronò lei, affabile.

“Cosa ci fa una fan dei Buccaneers in Kentucky?”

La donna rise e Brian le fece compagnia.

“Storia lunga” rispose. “Sono originaria di Bradenton, in Florida, ma a un certo punto ha iniziato a starmi un po’ stretta e diciamo che ho voluto cambiare aria” spiegò.

“È un bel cambiamento dalla Florida a Lexington” osservò lui, curioso.

“Vero,” convenne Emma “ma mi piace qui, mi trovo bene. Anche se resto fedele ai Bucs”.

Si guardarono, pensando reciprocamente che l’altro era una persona decisamente simpatica, poi risero di nuovo.

A quel punto, Alexis e Baylee tornarono dal giro orientativo. Baylee si fermò accanto al padre e Alexis si mise di fianco a Emma, salutando educatamente gli ospiti.

“Ciao Bay, ci vediamo domani. Se hai bisogno hai il mio numero”.

“Okay. Grazie, Lexi. A domani” ricambiò lui.

“Arrivederci Signor Littrell” aggiunse la ragazzina, sorridendo a Brian.

“Ciao Alexis” la salutò lui “e grazie per aver fatto da guida a Baylee”.

“Si figuri, nessun problema” minimizzò lei.

“Grazie dell’aiuto, Lexi” si intromise Emma, sorridendole. Poi si avvicinò al suo orecchio e le bisbigliò “Adesso vai in classe che se no la Cullen chi la sente?”

Alexis ridacchiò e bisbigliò, a sua volta “Al massimo do la colpa a te”, poi corse su per le scale, agitando una mano in direzione di Baylee, che ricambiò il saluto.

Brian, nel frattempo, aveva notato quello strano scambio di battute tra la ragazzina e l’insegnante e l’aveva trovato estremamente confidenziale ma, considerato che nulla di ciò che riguardava la donna che gli stava davanti gli sembrava convenzionale, non se ne stupì più di tanto, preferendo non darci troppo peso.

Emma chiese a Baylee cosa gliene sembrava della scuola e i tre scambiarono ancora qualche parola, prima di salutarsi definitivamente.

“Bene, direi che, se non c’è altro che vuoi chiedermi, noi ci vediamo domani a lezione, Baylee” sentenziò Emma, accompagnandoli alla porta d’ingresso.

“Certo. A domani, Miss Williams. Grazie” ricambiò il ragazzo, felice.

“Arrivederci, Signor Littrell. È stato un piacere conoscerla. Per qualsiasi cosa, mi chiami” gli ricordò.

“Arrivederci a lei. Certo, lo farò” le assicurò Brian, prima di salutarla con una stretta di mano e uscire dall’edificio, insieme a suo figlio.

Risalendo in auto, mentre ascoltava distrattamente Baylee che gli raccontava tutto quello che aveva scoperto da Lexi sulla scuola e sugli altri insegnanti, Brian sentì distintamente la morsa sulle sue corde vocali allentarsi leggermente e prese un respiro profondo, prima di schiarirsi la voce.

Era andato tutto bene. Baylee sembrava entusiasta e, con un po’ di fortuna, si sarebbe inserito in fretta nella nuova scuola, trovando presto nuovi amici.

Un altro tassello per ricostruire la loro vita dalle rovine di ciò che ne era rimasto era stato messo al suo posto. Ora doveva solo sperare che tutti gli altri lo seguissero, piano piano, con la stessa semplicità.

Allora, forse, avrebbe potuto ricominciare a respirare.

 

~ * ~

 

Emma stava aspettando seduta in auto da circa dieci minuti quando, finalmente, la portiera dal lato del passeggero si aprì e Alexis fece la sua comparsa, sedendosi accanto a lei e lanciando lo zaino sul sedile posteriore.

“Sei in ritardo” le fece notare Emma, mettendo in moto.

“Sì, scusa. La Cullen mi ha trattenuta per parlare del mio elaborato per il test di domani” si giustificò.

“Nessun problema” minimizzò Emma, immettendosi sulla strada principale. “Piuttosto, ti ha fatto storie per essere entrata in ritardo?”

Con la coda dell’occhio vide Lexi fare no con la testa. “No, tranquilla. Mi ha chiesto dove fossi stata e le ho spiegato che avevo fatto da guida a un nuovo studente”.

“Molto bene. Grazie, tra l’altro” le disse Emma, con un sorriso.

“Di nulla, figurati” replicò la ragazza, ricambiando il sorriso. “Anzi, a primo impatto Bay è simpatico”.

“Sul serio?” domandò Emma, incuriosita.

Lexi si limitò ad annuire, senza aggiungere altro. Poi, dopo un istante, mentre erano ferme a un semaforo rosso, si voltò a guardare Emma e le chiese “Ti sei accorta chi è il padre di Baylee, vero?”

Emma si lasciò sfuggire una risatina.

“Certo che me ne sono accorta. Non sono mica scema” rispose, fingendo di essere offesa.

“Mai pensato che lo fossi, ma a volte vivi un po’ nel tuo mondo” commentò Lexi, lanciandole uno sguardo eloquente.

Emma sospirò. “Okay, forse hai ragione” ammise. “Ma perfino io so chi sono i Backstreet Boys. Come potrei non saperlo, dato che tua madre me li ha fatti ascoltare per tutta la vita?”

“Meno male!” esclamò Lexi, ridacchiando.

“Piuttosto,” si informò Emma, mentre ripartiva “hai mica scoperto come mai sono qui?”

Alexis si strinse nelle spalle. “Non abbiamo avuto molto tempo per chiacchierare, ma Bay mi ha detto che i suoi hanno divorziato e lui e il padre sono tornati a vivere qui per essere vicini ai nonni e agli zii”.

“Non sapevo che Brian Littrell avesse divorziato” commentò Emma, senza staccare gli occhi dalla strada.

“Nemmeno io” concordò Lexi. “Ma, onestamente, non è che io e te siamo proprio le regine del gossip, quindi magari è una notizia di dominio pubblico e noi ce la siamo persa”.

Emma si ritrovò a ridacchiare, mentre osservava “Effettivamente può darsi”.

Restarono un attimo in silenzio poi, mentre già imboccavano la via dove si trovava casa loro, Emma disse “Strano che Baylee abbia deciso di restare con il padre, non trovi?”

Di nuovo, Lexi fece spallucce ed Emma si ritrovò a mordersi la lingua per non farle notare quanto quel suo modo di fare le desse sui nervi.

Calmati, si disse. È stata una lunga giornata, sei solo stanca. Non ce l’hai veramente con lei.

Mentre Emma prendeva un respiro profondo, Lexi si decise a rispondere all’osservazione.

“Non so altro, mi dispiace” si scusò. “Ma, magari, scopro qualcosa di più nei prossimi giorni”.

Dopo aver parcheggiato nel vialetto d’ingresso della casetta in cui abitavano, Emma si slacciò la cintura di sicurezza e si voltò a guardare la ragazza, un sorrisetto divertito appiccicato sul volto.

“Conti di rivederlo, quindi?” le chiese.

“Togliti quel sorrisino dalla faccia” la ammonì Lexi, senza però riuscire a trattenere un sorriso a sua volta. “Sì, lo rivedrò. Gli ho promesso di pranzare con lui, domani, dato che non conosce nessuno”.

“Molto carino da parte tua” osservò Emma, sincera.

“Niente di che, in realtà” minimizzò Lexi. “Te l’ho detto, è simpatico. E non mi costa niente essere gentile con lui” spiegò. Poi, dopo un istante, aggiunse, abbassando subito lo sguardo “E poi, mamma ne sarebbe contenta”.

Istintivamente, Emma allungò una mano fino a posarla sul ginocchio della ragazza. Lexi rialzò gli occhi e incrociò quelli lucidi, ma pieni di affetto, della donna seduta accanto a lei. Si sorrisero ed Emma sentenziò “Non solo contenta, ne sarebbe entusiasta. E pretenderebbe che le raccontassi tutto, per filo e per segno”.

“Secondo me, mi obbligherebbe a diventare la sua migliore amica, solo perché così avrebbe più occasioni per vedere suo padre” commentò Lexi, ridacchiando, grata che Emma avesse smorzato quel momento di nostalgia con una battuta.

“Oh, questo è poco ma sicuro” convenne Emma. “Anzi, sono convinta che, entro un mese, avrebbe convinto il pover’uomo a invitarla a cena, non fosse altro che per averlo preso per sfinimento”.

Scoppiarono entrambe a ridere, poi Lexi si sporse verso Emma per stringerla in un abbraccio.

“Grazie” sussurrò, le parole attutite dalla vicinanza delle labbra al tessuto della felpa che Emma indossava.

“Per cosa?” chiese lei, mentre accarezzava i capelli della ragazza.

“Per...beh, lo sai” farfugliò Lexi, allontanandosi.

Lottando contro il groppo in gola che rischiava di farla scoppiare a piangere, Emma deglutì e si sforzò di sdrammatizzare, dicendo “In realtà, non so quanto tu sia stata fortunata, sai? Devi sopportare di vivere con me, che sono un concentrato di disorganizzazione e casino ambulante”.

Lexi si lasciò scappare una risatina e, sporgendosi verso il sedile posteriore per afferrare il zaino, ribatté “Ma cucini da Dio, quindi, tutto sommato, poteva andarmi decisamente peggio”.

  
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