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Autore: blueheavenal    28/02/2022    0 recensioni
[[Cole e Dylan Sprouse]]
[[Cole e Dylan Sprouse]][[Cole e Dylan Sprouse]]La madre di Blue è scappata da tre mesi. Il marito sembra avere accantonato la cosa, ma tra le mura di casa continuava a cercarla. Blue vacillava tra la speranza e la rassegnazione. Ma quando un barlume di speranza si accendeva in lei, nessuno riusciva a placare la follia che ne scaturiva.
Harvie forse era l'unico a non volerla placare, ma alimentare.
Harvie : Dylan Sprouse
Blue: Barbara Palvin
Genere: Sentimentale, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Altri
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Il sole stava tramontando. La giornata sembrava appena essere iniziata, invece eccola scappare sfacciata, lasciandomi in balia della notte con l'amaro in bocca. Era settembre. L'estate mi era appena scivolata dalle dita, e così sembrava fare tutto. Forse ero solo rimasta tanto delusa da trovare delusione in tutto il resto. Sapevo che tale prospettiva non mi agevolava di certo, ma non ero pronta a cambiarla. L'autocommiserazione era indispensabile per guarire. Darsi la colpa di tutto a volte aiutava; perché noi stessi siamo le uniche cose che siamo in grado di controllare in un mondo che ci sfugge.

L'ufficio di mio padre era diventato, da qualche tempo, il mio unico e solido rifugio. Non ero certa del perché amassi tanto stare lì. Forse per l'infinita libreria che minacciava di inghiottire l'edificio, o per il conseguente profumo di carta aleggiante nell'aria... oppure perché casa mia aveva stranamente iniziato a somigliare ad una grande valigia color caffè; la stessa valigia che mia madre aveva tenuto stretta, mesi prima, varcando la porta, e con la quale non tornò. Quella casa, tuttavia, era solo una goccia dell'immensa marea di cose che mi rammentavano la notte che ha spezzato la mia famiglia, irrimediabilmente.

L'edificio, dall'affascinante sfondo avorio e dettagli in miele, era diventato tanto familiare da risultare accogliente per me. Vi entrai tranquillamente, tenendo stretti al petto un libro- frettolosamente afferrato mentre correvo verso la porta- e un quaderno stropicciato che, in fondo, ne aveva viste tante. Non ero certa di come definirlo; bizzarro, ma comunque privo di un titolo. Mi piaceva scrivere, di tutto; qualsiasi cosa desideravo rimanesse. E non sapevo perché lo tenevo ancora tanto stretto dato che, qualsiasi cosa riguardasse quel periodo della mia vita, era da dimenticare.

Sorrisi allegra quando vidi Hilary seduta, come al solito, dietro la scrivania opposta all'entrata, posizionata contro una parete divisoria tra due corridoi.

-Ciao, Hilary! - la salutai sorridente. - Mio padre è in ufficio?

L'anziana segretaria rispose con un caloroso sorriso. Era una donna innegabilmente tenera; la nonna che tutti vorrebbero. Inoltre, era attiva e piuttosto sveglia per la sua età. Sedeva a quella scrivania da non so quanti anni. Quello era il suo regno. Sapeva qualsiasi cosa dell'intera casa editrice, di tutti gli impiegati e persino qualcosa sulle loro storie personali. Era una vera enciclopedia vivente. Non per altro, era lei a giostrare le cose lì dentro.

Inoltre, era persona più intelligente e perspicace che io conoscessi. Si vedeva che nella vita avesse vissuto sul serio. Aveva passato la sua intera vita immersa tra miriadi di libri. Era un tipo che adorava i classici e i romanzi e notare che ultimamente avesse sulla scrivania sempre un libro diverso di fantascienza mi aveva fatto uno strano effetto.

- Oh, ciao cara, - cantilenò col suo adorabile accento irlandese. - Sicuramente lo troverai lì. Da qui non è uscita anima viva, perciò... - rispose, alzando le gracili spalle e mettendo su una smorfia con tanto di profonde fossette.

- Va bene, grazie. Gentile come sempre! - la ringraziai, addentrandomi nel corridoio. Mentre camminavo, gettavo lo sguardo alle numerose porte di entrambi i lati. Il piano terra era totalmente dedicato alla libreria. Vi erano varie grandi sale, in cui erano smistati i libri per genere. Io mi perdevo nella sala dei romanzi, solitamente. Mi era capitato di esplorare altri generi, ma, alla fine, tornavo sempre al punto di partenza.

C'era particolarmente silenzio quella sera. Di solito, tra i corridoi, vi era sempre un tranquillo viavai di gente. Di solito, c'era sempre qualcuno che si recava lì per dare un'occhiata, a qualsiasi ora. Ma non quella sera. Mi soffermai, senza rendermene conto, davanti l'ingresso della sala romanzi. Mi venne voglia di entrare, ma era tardi e, per frugare lì in mezzo, avevo bisogno di calma. Forse solo un quarto d'ora più tardi, avrebbero chiuso le sale.

Lasciai perdere l'istinto di entrare comunque nel mio mondo perfetto e premetti il pulsante dell'ascensore, arrivata alla fine del corridoio. Le porte si aprirono immediatamente davanti a me, mostrando mio padre borbottare qualcosa in un angolo, immerso nei pensieri, intento a scrivere degli appunti a mano su un blocco di carta.

- Blue! - sbottò, alzando gli occhi verso di me, colto di sorpresa. La penna gli cadde dalle mani e si chinò con un lamento per raccoglierla. - Per l'amor del cielo. Come sei arrivata quassù...? - la sua voce si ammutolì gradualmente quando, guardando oltre la mia spalla, riconobbe il piano corrispondente al corridoio. - Ma che sbadato che sono... - esclamò, colpendosi la fronte con una mano. - Devo avere cliccato il pulsante sbagliato. Ho appena finito di correggere un testo, e proprio adesso ho un colloquio con l'autore. Ero al primo piano e, in teoria, dovevo farmi portare al terzo, - ridacchiò nervosamente, facendomi cenno di entrare. Mio padre è sempre stato un tipo un po' imbranato - caratteristiche ereditiere, a quanto pare -.

Ero consapevole che, obbiettivamente, mio padre poteva sembrare rigido come genitore; ma era un'apparenza che spesso ingannava anche me. Lui era molto tollerante e permissivo con me. Di lui, non apprezzavo solo la freddezza che inculcava nel nostro rapporto.

Come se non bastasse, quest'ultimo è peggiorato ulteriormente dopo la fuga di mia madre. Entrambi avevamo cercato di ignorare la faccenda, peggiorandone i postumi. Stare insieme nella stessa stanza era diventato un disagio, poiché entrambi dovevamo esprimere una spensieratezza che non provavamo. Ma, ingenuamente, ciò sembrava meglio di affrontare il dolore.

- Non preoccuparti, papà. Può succedere, - lo rassicurai, entrando nel cubicolo. Premetti poi il tasto che ci avrebbe condotto al secondo piano; dove si trovava il suo ufficio.

- Mi aspetti nell'ufficio di Harvie? Lui sta iniziando la traduzione di un testo appena approvato. Sai che a lui non dà fastidio la compagnia durante il lavoro, però non disturbarlo. È ancora alle prime armi e ha bisogno di concentrazione, - spiegò con espressione seria.

Harvie poteva essere definito il pupillo di mio padre. Lo ammirava per la sua capacità di finire lunghi lavori nel minor tempo possibile, o per i consigli che riusciva a dargli riguardo alle correzioni di alcuni testi, in momenti in cui mio padre giungeva bloccato. Eppure, Harvie, non era un incallito lettore. Anzi, lui non leggeva proprio; non era un suo hobby. Allora cosa cavolo ci fa in una casa editrice? potreste chiedervi come mi domandai io dopo avere saputo tutto questo. Ma, in fin dei conti, il suo ruolo era quello di tradurre; esclusivamente da inglese a italiano. Era molto bravo nella lingua. Lo parlava agevolmente, dovevo ammetterlo. Mentre, riguardo ai consigli che dava a mio padre, lui aveva solo una dote naturale. A lui non serviva allenamento; leggere tanto per cogliere i veri significati delle azioni umane o per prevedere come si sentirebbe o come agirebbe un individuo in una data situazione. Lui, semplicemente, si impersonava nell'interessato per scovare la risposta che mio padre cercava con disperazione. E la faceva tanto facile da fare sentire tutti degli idioti. Non si scervellava per creare schemi, complessi, di come scaturisse qualcosa e da dove. Lui sapeva, per certo, che la risposta è sempre la più semplice.

- Sono mai stata il tipo che crea disturbo? - chiesi, effettivamente cosciente di esserlo davvero.

- Certo che no, - rispose, divertito. - Ma non farlo comunque, - aggiunse, contraddicendosi. In quel momento, le porte si aprirono nuovamente.

Abbandonai mio padre nell'ascensore e mi diressi con decisione verso il distributore di bevande dietro l'angolo, invogliata ferocemente dal fluttuante aroma di tè al bergamotto. Quel piano era riservato ai traduttori di italiano, spagnolo e francese. Nonostante la modestia della cittadina, quell'azienda andava meglio del previsto. Non era raro che un buon numero di abitanti vi spedisse dei manoscritti, sperando di ricavarci qualcosa. Ed era molto raro che uno di questi venisse valutato positivamente, poiché la maggior parte conteneva, più o meno, lo stesso genere di trama.

- Mi raccomando papà; terzo piano! - gli suggerii, senza guardare indietro. Mi voltai un attimo, non ricevendo risposta. Le porte erano chiuse.

Speravo che avrebbe avuto successo con l'autore. Aveva talento in ciò che faceva, ma alcune persone non sopportavano il fatto di essere corrette.

Al distributore di bevande, richiesi con decisione un rasserenante tè. Quando fu pronto, lo presi e feci per andarmene, quando mi venne in mente di prenderne un altro. Mmh, perché no? Mi dissi mentalmente. Una volta pronto anche l'altro, entrai in ufficio. La prima cosa che vidi fu la scrivania incasinata. Era piena di fogli svolazzanti, ma Harvie non era lì. Solo spostando lo sguardo, lo vidi in un angolo della stanza, con un'espressione terribilmente concentrata in volto e una freccetta tra le dita. Questa volò nell'aria giungendo con successo in un punto molto vicino al centro del bersaglio. Con l'intento di distrarlo e interrompere la sua pausa, tossii. Quando si voltò verso di me, sorrise, ma non smise di sfidare se stesso nemmeno per cortesia. Io ricambiai con un sorriso forzato, salutandolo.

- Ehi, Blue. Tutto bene? - mi salutò cordialmente, tirando una seconda freccetta. Mi diressi verso la scrivania, posai i due bicchieri bollenti su di essa e mi abbandonai sulla comoda poltrona girevole in pelle nera. Girai su me stessa con le mani giunte sul ventre, dedicandomi del tempo per rispondere. Tanto, supponevo che fosse così concentrato sul bersaglio da essersi dimenticato di avermi posto una domanda, per quanto banale.

- Sì, sì... tutto a posto, - risposi con tono annoiato. Nell'attesa che smettesse, rivolsi la mia attenzione alle mie mani danneggiate. La pelle sulle nocche era particolarmente screpolata e arrossata, per non parlare delle unghie, la cui lunghezza variava dall'una all'altra. Inoltre, le pellicine sanguinanti erano un massacro per gli occhi.

- Mi fa piacere, - concluse, non interessandosene davvero. La sua attenzione sperduta iniziava ad innervosirmi. Ero in procinto di prendere le sue piccole freccette e di spuntarle una ad una. Ma se non volevo apparire un animale ringhioso, credevo fosse meglio lasciar correre.

- Ti ho portato un tè, - lo informai con tono calmo, rigirandomi tra le mani il mio, ancora fumante.

- Che tesoro che sei, - commentò con un sorriso sghembo, non fermandosi un attimo, non volgendomi lo sguardo nemmeno per constatare se io fossi davvero lì o la mia voce solo frutto della sua immaginazione. Senza aggiungere altro, a parte un rumoroso sbuffo di disappunto, mi alzai e camminai verso di lui con decisione. Stava giusto per lanciare un'altra freccia quando le mie mani bloccarono la sua. Harvie mi guardò, finalmente, confuso. - Ma che stai facendo? - chiese con la fronte corrucciata.

- A meno che tu non stia cercando di afferrare l'ispirazione incastratasi nel bersaglio, non credo tu stia facendo ciò che dovresti, - lo ammonii, consapevole di non essere irritata solo per quello. In fondo, cosa poteva importarmene del suo lavoro? Aveva già una certa fama lì dentro. Odiavo il semplice fatto di non essere guardata in faccia. Nessuno può parlare con una persona e guardare altrove. Lo trovo poco rispettoso.

- Da quando sei una moralista tu? - domandò, sorpreso e ancora leggermente scombussolato. Con un gesto secco, gli strappai la freccetta dalla mano e il resto del mucchio dall'altra. Ero particolarmente suscettibile quel pomeriggio; giusto un pochino. Il lato positivo era che il mio nervosismo non durasse chissà quanto.

- Mai stata. Voglio solo rovinarti la pausa, - improvvisai con un sogghigno, tornando a sedere. Ripresi il bicchiere di plastica tra le mani, iniziando a sorseggiare. Il calore ancora esagerato mi indolenzì la lingua, ma era uno di quei dolori che valeva la pena sopportare. Non ci volle molto prima che i miei sensi si rilassassero completamente.

- Molto gentile da parte tua, - commentò sarcasticamente, arrendendosi e raggiungendomi alla scrivania. Si sedette davanti a me, in una delle due sedie di legno in bianco, riservate a possibili ospiti o colleghi. Trascinò il suo bicchiere vicino a sé e lo osservò per qualche attimo.

-Grazie- disse dopo. Alzò gli occhi verso di me. La sua voce mi aveva scosso e riportato con i piedi per terra. Non ricordavo nemmeno più a cosa avessi pensato in quel breve attimo di silenzio. Di fronte a quel ringraziamento, mi trovai disorientata.

-Per cosa? Oh, il tè, certo. Di nulla- balbettai, agitandomi. Subito dopo il mio farfugliare, cercai di sprofondare nella comoda poltrona, sentendo le guance arrossire. Fui sorpresa quando sentii Harvie ridacchiare. Lo guardai storto, con un immaginario punto interrogativo sulla fronte.

- Sai, sei buffa, - constatò, divertito. Quell'osservazione mi lasciò perplessa; non avevo idea di come interpretarla.

- Ed è una brutta cosa? - domandai, incerta. Lui, in risposta, scosse la testa con convinzione.

- No, è... - iniziò, ma la frase rimase interrotta. Un leggero bussare alla porta lo bloccò. Ed io mi ritrovai realmente curiosa di sapere come avrebbe concluso la frase solo quando, probabilmente, non l'avrei più potuto sapere.

 

   
 
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