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Autore: Manami    05/09/2009    1 recensioni
Un compito terrificante,
un'ispirazione traditrice e recidiva,
il temutissimo blocco dello scrittore
e un piccolo sgambetto del destino.
E poi...solo un sogno.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nuova pagina 1

Una piccola storiella originale scritta per un concorso.

Non ha avuto molto successo (con i giudici, la mia Prof l'ha adorata!O.O): troppo lunga (!) e leggera (leggasi: nessuna morale da trasmettere).

La posto giusto per non lasciarla in balia delle ragnatele nell'hard-disk del pc.

Se vi va, come sempre i commenti sono più che graditi.

Enjoy the reading,

Manami.

 

 

Solo un Sogno

 

 

La piccola sveglia posata sul comodino di legno chiaro, posto al fianco del letto bianco sul quale lei era seduta da ore, stava ridendo.

Ne era certa.

La fissava ridacchiando sotto quei suoi piccoli baffetti neri, tesi a ricordarle che mancavano solamente tre minuti alla mezzanotte, beffandosi delle sue disgrazie.

Chiuse gli occhi sconfortata, lasciandosi sfuggire un sospiro.

- Idiota -

Liberò quella parola nell’aria con un altro sospiro, indecisa se rivolgerla al foglio ostinatamente bianco, posto di fronte alle proprie gambe incrociate o, ancor meglio, a se stessa.

Dopo un lunghissimo minuto di silenzio e ostinata riflessione, il suo proverbiale orgoglio fu costretto a cedere e ad ammettere la sconfitta, scegliendo la seconda ipotesi.

Era una emerita idiota, e non c’erano scuse o prove a sostenere una qualsiasi teoria contraria.

A voler essere pignoli, o meglio a volersi arrampicare sugli specchi, forse una scusa c’era.

Più che un’arma vincente però, era poco più che uno scudo di vetro contro le spade di un intero esercito nemico e, seriamente, dubitava che la sua professoressa l’avrebbe accettata.

Aveva avuto quasi due mesi e mezzo per completare quel lavoro ed era praticamente impossibile che non avesse avuto nessuna ispirazione.

Eppure era stato così.

Fra lei e la sua ispirazione c’era sempre stato un rapporto di amore ed odio, principalmente dovuto al fatto che quest’ultima non aveva mai avuto fama di essere un’onesta e costante ispirazione; e anche in quel caso, come al solito, lei era finita nei guai per colpa delle mancanze di quella sua non molto fedele compagna.

Quando la professoressa di italiano aveva presentato alla classe quel progetto, raccogliendo i nomi dei volontari disposti ad immolarsi per la causa, la sua ispirazione sopita si era prontamente risvegliata fornendole un canovaccio niente male, e così, entusiasta e pronta a mettersi alla prova, aveva accettato.

L’eccitazione per quella nuova sfida però era durata sì e no mezza giornata.

Giusto il tempo di arrivare a casa, sedersi davanti al suo notebook , e scoprire che quella piccola traditrice era scomparsa.

Di nuovo.

Si era letteralmente dileguata; ed era tuttora latitante.

Riusciva quasi ad immaginarsela, spaparanzata su di una spiaggia dalla sabbia bianca e finissima, a crogiolarsi sotto il sole rovente dei Caraibi e, naturalmente, a ridere di lei.

Come la invidiava; avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poterla raggiungere.

Ma ora stava decisamente vaneggiando, e il punto non era quello.

Il punto era che non aveva ancora scritto nulla e, se non lo avesse fatto entro le prossime nove ore, sarebbe stata crocifissa dalla sua entusiasta e fiduciosa professoressa.

Arrivati a quel punto però era totalmente inutile recriminare e cercare di discolparsi.

Era semplicemente un’idiota, e questo era quanto.

Con uno spasmo isterico lanciò alla cieca la matita che fino ad un istante prima si rigirava nervosamente fra le mani, colpendo il pouf azzurro sul quale stava acciambellata la sua paffutissima gatta Urania che, con un miagolio di protesta, uscì indignata dalla porta leggermente aperta.

Aprì gli occhi e oramai rassegnata si alzò dal letto per andare a recuperare la matita.

Ora, Artemisia, così si chiama la nostra giovane protagonista, era sempre stata un po’ sbadata e l’equilibrio non poteva di certo essere catalogato fra le sue migliori virtù ma, quella sera di metà febbraio c’era qualcosa di diverso.

Forse si trattava di una sfortunata, ma chissà magari fortunata, congiunzione astrale, o forse era tutta colpa di una strana forma di magia.

Oppure, era semplicemente destino che andasse così.

Il tappeto nero striato d’argento che per anni era stato la sua gioia e la sua croce, perché lo adorava letteralmente ma non era in grado di avvicinarcisi senza finire a terra piena di lividi, era sparito una mattina di settembre.

Al suo ritorno da scuola non era più al suo posto al centro della stanza e, solo dopo un lungo interrogatorio, sua madre aveva confessato di averlo fatto sparire per il suo bene.

Aveva strillato e ostentato un broncio da primadonna per giorni, ma il tappeto non era ricomparso.

C’erano voluti ben due anni di duro allenamento ma finalmente, proprio quella mattina, sua madre aveva deciso che il suo equilibrio aveva raggiunto livelli accettabili e così, il tappeto era riapparso al suo posto.

Ma sua madre aveva fatto male i conti.

Artemisia non seppe mai dire cosa successe esattamente quella sera; se inciampò realmente sul tappeto o se quella macchia nera che vide di sfuggita prima di toccare il pavimento fosse quella matta di Urania.

Però successe.

Sentì il piede fasciato dalle pantofole di pelo scontrarsi contro qualcosa, il suo già precario equilibrio abbandonarla e il tappeto farsi sempre più vicino.

Poco male, fu l’ultima cosa a cui pensò, per lo meno sarebbe atterrata sul morbido.

Poi tutto divenne nero.

 

?ª?

 

Aprì gli occhi piano, sbattendo più volte le palpebre per riabituarsi alla luce abbagliante del sole, e rimanendo perfettamente immobile, distesa sull’erba umida di rugiada.

Quando dopo qualche istante riuscì a mettere a fuoco la vista, e a riacquistare un minimo di lucidità, si rese conto di tre cose piuttosto preoccupanti.

Innanzitutto era mezzanotte e si trovava nella sua stanza.

E allora perché in cielo splendeva un sole abbagliante e sotto di lei non c’era il tappeto nero ma solo una distesa di verde umido?

Ma soprattutto, di chi erano quei piedi all’interno del suo campo visivo, e perché indossavano sandali di pelle a febbraio?

Stordita e leggermente dolorante si mise a sedere lì dov’era, alzando lo sguardo sul proprietario di quei piedi.

Un istante dopo aveva gli occhi chiusi e le mani a reggere la testa che sembrava scoppiarle.

Doveva essere uno scherzo, o forse un sogno, non c’erano altre alternative.

Riaprì gli occhi fiduciosa; ma non era seduta nel mezzo della sua stanza e nessuno stava ridendo.

Attorno a lei c’erano solo tralci di viti colmi di grappoli maturi, un cielo azzurro e limpido come quello nei disegni dei bambini e il proprietario degli strani calzari.

Incredula e un po’ sfacciata puntò il suo sguardo su quest’ultimo, studiandolo.

Era un ragazzo giovane, che dimostrava forse qualche anno in più dei 18 di lei; e aveva un fisico snello e probabilmente agile, con le gambe lunghe e magre.

Portava i capelli castani tagliati non troppo lunghi, e sul viso pulito e ben rasato spiccavano gli occhi marroni, svegli e brillanti.

Aveva il naso affilato, forse un po’ troppo grande, e nel complesso non era né bello né brutto; un tipo un po’ anonimo, di quelli che di certo non fanno girare a guardarli la gente per strada.

A esser sinceri forse lei si sarebbe voltata, non per il suo aspetto però, piuttosto per il suo abbigliamento bislacco: oltre ai sandali di pelle – piuttosto fuori moda – indossava una tunica color sabbia, di quelle antiche viste solo nei tanti film sull’età classica o durante le feste in maschera.

Si, qualcuno sarebbe saltato fuori a momenti ridendo di lei.

Ma più i secondi passavano più le sue speranze si affievolivano.

Il ragazzo nel frattempo la osservava a sua volta, sorridendo gentile ma con una punta di divertimento che gli occhi non riuscivano a nascondere.

Immaginava che quella mal celata ilarità fosse dovuta alla sua espressione, che in quel momento, stordita com’era, doveva essere proprio buffa.

Quella situazione era assurda.

Istintivamente portò una mano alla tasca dei jeans in cerca del suo fedele blackberry, ma con orrore si rese conto di indossare non i suoi amati jeans ma gli ancor più amati, e in quel momento tremendamente imbarazzanti, pantaloni del pigiama con gli orsacchiotti.

Stava imprecando a mezza voce in tutte le lingue a lei conosciute, e forse anche in qualcuna inesistente, quando la voce del ragazzo, limpida e costante, la richiamò a quella che fino a prova contraria doveva essere la realtà.

- Ti senti bene? –

Sussultò leggermente incrociando gli occhi curiosi del giovane.

- No…non sto affatto bene – mormorò astiosa.

Che domanda stupida, come poteva star bene?

- Mi sveglio persa chissà dove, senza sapere come ci sono arrivata e perché…e non ho neppure il mio cellulare! Ti pare che io possa star bene? – continuò alzandosi inviperita e facendo sussultare il ragazzo che, in barba a qualsiasi forma di orgoglio e dignità maschile, indietreggiò leggermente impaurito.

Poi cominciò a camminare avanti e indietro sbuffando e mormorando fra sé.

- Cel…cellu cosa? – azzardò lui riacquistando un po’ di coraggio.

In fondo era solo una ragazzina vestita in modo buffo, con un buffo modo di parlare e un modo di fare piuttosto irriverente, che male avrebbe mai potuto fargli?

Nessuno, appunto.

Lei si bloccò di colpo fissandolo con un misto di incredulità e di terrore negli occhi.

 - Lo sai cos’è un cellulare vero? – il tono della ragazza era piuttosto accusatorio, come se dalla risposta di lui dipendesse la sua vita.

No, lui non lo sapeva cosa fosse un “cellulare”, così si limitò a scuotere la testa in segno di diniego.

- Oh cielo...non ci credo – farfugliò incredula.

Tutti nel 2009 sapevano cos’era un cellulare, molti anche senza averne mai visto uno.

Forse, pensò, si trovava in uno di quei paesi che per convenzione chiamavano del “Terzo mondo”, tecnologicamente poco avanzati; ma anche se così fosse stato, come diavolo c’era finita?

- Dove siamo? – chiese infine speranzosa avvicinandosi a lui fin quasi a sfiorarlo.

- Ecco…ci troviamo un poco a nord di Atene, e quel boschetto che si intravede laggiù è dedicato ad Akademos – le rispose indicando un folto bosco alle pendici del colle sul quale si trovavano loro.

Anche fra le viti rigogliose era facile scorgerlo e Artemisia rimase incantata a guardare mentre il ragazzo continuava la sua spiegazione.

- Da questo punto non si riesce a vedere, ma è là che ha sede l’Accademia fondata da Platone – fece una pausa guardando la ragazza immobile affianco a lui con lo sguardo fisso verso il bosco.

- Io studio lì - asserì infine orgoglioso.

Artemisia annuì distratta poi qualcosa scattò nella sua testa.

Platone? Accademia? Atene?

L’accademia di Platone era stata soppressa nel 529 d.C. per volontà dell’imperatore Giustiniano.

Non era possibile.

- Ah… Non mi sono neppure presentato, il mio nome è Aristotele. – disse il ragazzo con un sorriso interrompendo il corso dei suoi pensieri.

Aristotele.

Una pugnalata le avrebbe fatto sicuramente meno effetto.

Se quello che il ragazzo diceva era vero, se era davvero quell’Aristotele, si trovavano a poche centinaia di metri dall’Accademia e se la sua memoria non la ingannava, doveva essere finita più o meno nel 364 a.C..

- Aristotele… Da Stagira? -

La voce le tremava mentre chiedeva quella conferma; così come le gambe, che minacciavano di cedere da un momento all’altro.

Lui annuì, chiedendosi come facesse quella strana ragazza a conoscerlo.

Artemisia invece sentì il respiro venirle meno e le gambe cedere.

Si ritrovò nuovamente seduta a terra, senza sapere come ci fosse finita, tremante come una foglia al vento.

Aristotele: com’era difficile credere che quel ragazzo emaciato in ginocchio di fronte a lei, il cui sguardo preoccupato non la lasciava un istante, fosse davvero il grande filosofo le cui teorie riempivano pagine intere dei suoi libri scolastici.

- Non è possibile - farfugliò agitata, guardando verso il bosco di Akademos senza vederlo realmente.

- Senti… - disse lui posandole le mani sulle spalle per costringerla a prestargli attenzione – io non ho idea di cosa stia succedendo ma, se vuoi, posso darti… -

- Un pizzicotto! – lo interruppe lei all’improvviso, negli occhi una luce speranzosa.

- … si, potrei darti un pizzicot… No! Io intendevo una mano, perché mai dovrei darti un pizzicotto? – chiese fissandola confuso.

Era sempre stato un bravo osservatore Aristotele, e più la guardava più quella ragazza gli appariva strana; sembrava quasi venire da un altro mondo.

Anzi, da un’altra epoca.

- Perché così mi sveglierò… Se questo è un sogno, un pizzicotto mi sveglierà, mi sembra ovvio. – rispose quasi scocciata, come se quella fosse un’ovvietà e lui un bambino poco sveglio a cui dover spiegare ogni cosa.

- Ma certo. Perché mai non ci ho pensato prima… – mormorò Aristotele, e se la sua espressione incredula  non fosse bastata, c’era il sarcasmo nella sua voce a rendere perfettamente la fiducia che riponeva in quell’idea assurda.

Con un movimento esagerato, e piuttosto teatrale, allungò la mano verso il braccio sinistro di lei e le pizzicò la pelle diafana come quella di una nobildonna.

Com’era scontato che fosse, il dolore non si fece attendere, e lei non si svegliò da nessun sogno.

Si passò invece la mano destra sul braccio offeso, sfoggiando un’espressione ferita e delusa, la stessa che la sua sorellina di dieci anni ostentava quando le veniva negato un nuovo giocattolo.

Il giovane invece stava sforzandosi di trattenere le risate che,  oramai prepotenti, premevano sulle sue labbra per essere liberate nell’aria.

Era buffa quella ragazza, ma sembrava triste, ed evidentemente lo era per qualcosa che nessuno dei due avrebbe potuto risolvere.

Forse ridere di lei non era la soluzione migliore.

Ridere con lei invece poteva essere una buona idea: se non poteva risolvere il problema, poteva per lo meno farglielo dimenticare per un po’.

- Senti… - si bloccò subito, rendendosi conto di non conoscere ancora il nome di lei.

- Artemisia – asserì lei intuendo il motivo della sua indecisione.

- …Artemisia, ecco, mi par di capire che non dovresti trovarti qui ora, ma oramai ci sei, e se volessi ritardare la tua partenza a domani, potrei mostrarti l’Accademia –

Non sapeva ancora come avrebbe fatto, ma si sarebbe fatto venire un’idea per avere il permesso di farla entrare all’Accademia.

- Ecco...mi piacerebbe ma, non posso, devo tornare a casa. Ho uno scritto  da consegnare entro domani e non ho ancora messo nero su bianco nulla… - rispose torcendosi le mani nervosa.

Si era completamente dimenticata di quel compito, a differenza della sua prof., che sicuramente glielo avrebbe rinfacciato da lì all’eternità.

- Uno scritto? Bè, modestamente, sono bravo con le parole…- commentò con orgoglio.

Ed Artemisia non riuscì a trattenere una risata.

Certo che era bravo, stavano parlando di Aristotele il grande filosofo, o futuro tale, a voler esser pignoli.

Sarebbe stato un bel colpo presentarsi il giorno dopo con un componimento scritto da lui.

Ma sarebbe stato anche scorretto, e lei era una persona leale.

Scosse la testa.

- Devo farlo da sola. -

- D’accordo, ma ormai sei comunque in ritardo. Credo che tu sia piuttosto lontana da casa e, anche con tutto l’impegno possibile, non riusciresti a tornarci con lo scritto pronto, quindi… perché sprecare l’occasione di visitare la nostra Accademia? - ribatté lui cercando di convincerla, la mano destra tesa verso di lei.

Lo sguardo di Artemisia vagò dal viso di lui fino alla sua mano tesa, fermandosi dubbioso su quest’ultima.

Forse aveva ragione lui.

Non sapeva quando e come sarebbe riuscita a tornare indietro, ma sarebbe comunque stato troppo tardi per il suo lavoro; e lei non era tipo da sprecare un’occasione come quella.

E quella era davvero una fantastica occasione: avrebbe visitato la scuola di Platone, con nientemeno che Aristotele a farle da cicerone.

A raccontarlo, probabilmente nessuno le avrebbe creduto, e sicuramente non avrebbe mai potuto sfruttare quell’avventura come scusa per non aver svolto il suo compito, ma quella giornata lì nel passato valeva molto più che mille saggi vincenti.

- E va bene, mi hai convinta – accettò prendendo con un sorriso la mano che Aristotele le porgeva.

 

?ª?

 

Le aveva dato da indossare una tunica molto bella, trafugata chissà dove, fatta di una stoffa candida molto pregiata e con rifiniture dorate meravigliose; l’aveva anche costretta ad indossare un paio di sandali di pelle come i suoi.

Lei aveva protestato all’inizio, ma era evidente ad entrambi che le babbucce di pelo non erano adatte alla farsa che avevano organizzato.

Si era acconciata i capelli con una treccia semplice e morbida ed avevano finto che lei fosse una cugina di Aristotele venuta a visitarlo.

Con un po’ di fantasia e adattando la frottola alle tradizioni dell’epoca c’erano riusciti.

Artemisia aveva potuto visitare l’Accademia, aveva passeggiato e discorso con grandi filosofi e nel primo pomeriggio, dopo un pranzo leggero a base di frutta fresca di stagione, si era congedata con la scusa di far ritorno ad Atene.

Ovviamente Aristotele aveva il compito di accompagnarla fino alla polis ma, ovviamente, il loro percorso si fermò molto prima di raggiungere Atene.

Passarono l’intero pomeriggio nelle campagne lì vicino, passeggiando fra i frutteti o seduti all’ombra di qualche maestoso albero, sempre parlando.

O meglio, discutendo come due vecchie comari.

Non riuscirono infatti a trovarsi in accordo su nessuno degli argomenti di cui parlarono, e parlarono veramente di qualsiasi cosa.

Conversarono di tutte le muse, senza tralasciarne nessuna, ma su ognuna di esse riuscirono a trovarsi in competizione.

Artemisia parlava certa della veridicità delle sue parole ma, non potendo spiegare al ragazzo il perché delle sue certezze, finiva per scontrarsi nell’ostinatezza di quest’ultimo che, ovviamente, si fidava più delle parole dei suoi maestri che di quelle di una ragazzina.

Ed avendo entrambi un carattere piuttosto testardo, a causa del quale nessuno dei due era pronto a chinar la testa, si erano limitati a discutere per tutto il pomeriggio, saltando da un argomento all’altro con grande maestria.

All’imbrunire erano ancora lì; avevano deciso di raggiungere Atene per trovare ad Artemisia un posto per la notte, e stavano camminando uno a fianco all’altra, discutendo infine di un argomento che la ragazza aveva molto a cuore.

- Quello che dici è impossibile, sono stati gli dei a creare la vita… questa teoria evoluzionaria… -

- Evoluzionistica lo corresse pronta alzando gli occhi al cielo.

- Si, quel che è… insomma, non è plausibile! – terminò con enfasi agitando le mani dinoccolate di fronte a sé mentre lei scuoteva la testa desolata.

- E poi, chi l’ha mai sentito nominare questo Darvinne? – chiese retorico come se il fatto che lui, studioso dell’Accademia, non lo conoscesse ne pregiudicasse le teorie.

Artemisia ridacchiò pensando al famoso motto molto in voga durante il periodo umanistico.

Ipse Dixit

- È “Darwin”, non “Darvinne”. Ed è considerato un famoso scienziato nel… posto da dove vengo, uno dei più importanti a dir la verità. Le sue teorie sono… -

- Avanti Artemisia… proprio tu, che porti il nome di una delle Dee più importanti dell’Olimpo, credi a queste sciocchezze? – la interruppe ridacchiando, e stavolta la bambina testarda era lei e lui l’adulto paziente che cercava di spiegare un’ovvietà.

Lei scosse la testa un po’ irritata, ma in fondo divertita.

Chissà cosa sarebbe successo se invece che lei nel passato fosse finito lui nel suo futuro.

Per qualche minuto nessuno dei due parlò, poi ad un certo punto lui, prendendo il silenzio di lei come un’ammissione di errore, ruppe il silenzio con l’ennesima risata.

- Per un attimo ho temuto tu fossi realmente impazzita… come quel buffo individuo capitato qui qualche giorno fa, che sosteneva che fosse la Terra a gravitare attorno al Sole. Che sciocchezza. Mi pare si chiamasse… sì, Galileo… - .

Come tanti ricordi di quella sera, anche quello che avvenne a quel punto, rimase anche a distanza di anni sfocato nella mente di Artemisia.

Era però sicura di essere rimasta sconvolta da quell’affermazione pronunciata con così tanta leggerezza.

Aveva mancato uno dei più grandi geni della storia per una sola settimana.

Forse, si ritrovò a pensare anni dopo, era così che funzionava, uno alla volta per non mescolare troppo la storia, e le idee.

Magari, una settimana dopo sarebbe arrivato lì ad Atene proprio lo sconosciuto Darvinne, portatore delle sue scoperte rivoluzionarie.

Ma Artemisia non lo avrebbe mai saputo, perché proprio in quell’istante il suo equilibrio dette nuovamente prova di sé e, aiutato da un sasso nascosto dall’erba incolta, la fece precipitare al suolo.

E tutto si fece nero.

Di nuovo.

 

?ª?

 

Quando riaprì gli occhi era a casa.

Se ne rese conto subito, per i colori chiari che regnavano tutt’intorno e che lei stessa aveva scelto, e per le urla isteriche di sua madre.

- Quello stupido tappeto! Ah, ma stavolta lo brucio! - stava urlando, e questo non era sicuramente un buon segno.

Sentì la voce di suo padre, un autentico coro angelico rispetto a quella da banshee inferocita di sua madre, cercare di dissuaderla dal processare – e giustiziare – l’arredamento.

Decisamente era a casa.

- Ciao straniera… - la voce bianca di sua sorella la riportò del tutto alla realtà.

- Ehi mostriciattolo. Cos’è successo? –

Il nasino grazioso di Cinzia assunse la smorfia buffa che aveva di solito al sentir pronunciare quel nomignolo che lei stessa le aveva affibbiato, per un istante ebbe quasi la certezza di vederla girare i tacchi e abbandonarla indignata alla sua momentanea confusione, ma stranamente la piccola peste rispose.

- Sei inciampata nel tappeto, caduta e svenuta. Al solito. – rispose con una risatina prima di svignarsela all’inseguimento della loro gatta persiana.

E mentre distratta fissava i suoi genitori, che continuavano a discutere sulle sorti del tappeto, nella sua mente iniziò a prendere forma ciò che era successo, e i ricordi tornarono tutti pressappoco al loro posto.

Allora era stato veramente un sogno.

Un bellissimo sogno, ma pur sempre il mero frutto della sua fantasia.

Però, si disse, e di questo era certa, avrebbe conservato il ricordo di quella notte in eterno.

Ridacchiò allegra; ora aveva anche una storia fantastica da raccontare, doveva solo metterla nero su bianco.

Nove ore erano più che sufficienti.

Si alzò di slancio, dondolando un po’ a causa del leggero dolore alla testa, e tenendosi con una mano alla sponda in ferro battuto del letto raccolse matita e foglio ancora completamente immacolato.

Poi, mentre raggiungeva la scrivania schivando sua madre che usciva dalla stanza con il tappeto fra le braccia, puntò distrattamente lo sguardo sulla sveglia indaco che, dal suo posto sul comodino, rideva ora a crepapelle.

Erano le 7.45, e i pallidi raggi di sole che filtravano dalle tende socchiuse lo confermavano.

Per il racconto il tempo era scaduto.

Ma per ricordare no.

E il sorriso sul suo bel viso stavolta non si spense.

 

Fine...?

 

 

~ Angolino di Manami ~

Lo ammetto... è un po' autobiografica.

L'ispirazione di Artemisia è la copia esatta della mia, così come la sua tremenda abitudine a ridursi sempre a fare le cose all'ultimo secondo e la completa assuefazione per il suo cellulare.

L'equilibrio no invece, il mio è quasi perfetto. ^__^

Ad ogni modo, se non vi è piaciuta prendetevela con il mio programma scolastico: mesi e mesi passati a studiare l'illuminismo hanno prodotto questi frutti.

Se invece vi è piaciuta o se, soprattutto, avete consigli su stile, forma e varie, siete liberi di lasciare un commentino.

E io ovviamente ve ne sarò eternamente grata!^__^

Ok, basta, ho finito.

Grazie per essere arrivati fin qui.

XOXO

 

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