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Autore: Felixia    02/03/2022    1 recensioni
La storia della scoperta sulla propria identità di genere da parte di una persona che ha sempre provato un disagio verso se stessa, un disagio a cui non è mai riuscita a dare forma e nome finché un giorno, arrivata al culmine della disperazione, non entra in un bar e riesce finalmente a capire chi è.
Questa oneshot è ispirata alla canzone dei Roar, I can't handle change.
Genere: Malinconico, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Passare il tempo nel posto sbagliato non è niente di nuovo per me. 

 

Non avevo minimamente voglia di venire qui stasera, ma gli altri dell’ufficio volevano uscire a prendere una pizza, poi hanno proposto di andare a prenderci una birra e io non ce l’ho fatta a rovinare la serata a tutti. Non che la mia presenza avrebbe cambiato qualcosa, sono sempre nel posto sbagliato, o sono sbagliato io. Ma in ogni caso a nessuno interessa davvero che io sia qui o meno. O forse starebbero meglio se non fossi venuto.

 

Guardo il bicchiere di birra, la schiuma si è incrostata sui bordi di vetro. Non so che tipo di collegamento mentale mi fa ricordare la schiuma dello shampoo nelle docce della piscina dove andavo da piccolo. Anche quel posto era sbagliato. Gli spogliatoi, le docce, li sentivo così sbagliato. Non sono mai riuscito a capire cosa ci fosse di sbagliato nel dove mi trovavo, alla fine erano solo dei posti. Ma forse sono io ad essere sbagliato.

 

Credo che questo sia il terzo bicchiere. Merda, già mi gira la testa. Non riesco a reggere neanche tre bicchieri di bionda. Mi sento così stanco, sento che mi sto ripiegando su me stesso, non riesco a reggere il mio peso. 

«Oh, ma che c’hai? Se devi vomitare vai in bagno,» la voce di quello seduto davanti a me sembra scocciata. 

Penso che si sia accorto che sto oscillando. Non riesco a tenere il collo dritto, alzo una mano e abbozzo un sorriso, cerco di fargli segno di non preoccuparsi.

«Sto bene,» farfuglio.

«Bene il cazzo, vai a prendere un po’ di aria,» quello a fianco a me mi mette una mano sulla schiena e mi dà una spinta per farmi alzare. Non era così forte, ma non riesco a stare in piedi dritto, barcollo e mi appoggio allo schienale della sedia. Con la coda dell’occhio guardo il tavolo del pub, ora tutti i miei colleghi mi stanno guardando. Sento il loro disgusto addosso, se i loro occhi potessero parlare direbbero “perché cazzo ci siamo portati dietro ‘sto peso morto?”

«Hai ragione, vado a prendere una boccata d’aria» cerco di pronunciare le parole più chiaramente possibile, ma sento che nella mia bocca si rimescolano, la lingua non si ricorda più come si collabora con le labbra. La frase è biascicata, espone ancora di più il mio imbarazzo per me stesso a quella tavolata che continua a guardarmi scontrosa. Gli volto le spalle e cerco di incamminarmi verso la porta. Spero di essere riuscito a dare una parvenza di disinvoltura almeno alla camminata, ma ne dubito. 

Arrivo fuori, cerco nella giacca le sigarette, strizzo gli occhi cercando di mettere a fuoco l’accendino. Merda, non riesco neanche a tenerlo in mano. Non riesco neanche a fumare. 

 

Non so quanto tempo sto qui a fissare il marciapiede davanti al locale. Sono sicuro che appena sono uscito hanno iniziato a parlare di come non mi volessero lì, che è meglio se resto qua fuori. Neanche io ci volevo venire. Però ora mi sento così stanco, mi sento uno schifo. Sono a pezzi, non ho la forza di andarmene. 

Torno dentro e butto un occhio sul tavolo che stavamo occupando. Ridono. Sembrano contenti. Mi immobilizzo, la sensazione di essere nel posto sbagliato incombe su di me, mi schiaccia il petto. 

«Scusi» un cameriere con un vassoio pieno di bicchieri stracolmi mi fa intendere di togliermi da lì in mezzo. Indietreggio istintivamente, volto le spalle alla tavolata dei miei colleghi e mi siedo al bancone.

Non ricordo quanto gin ho buttato giù da quando mi sono seduto lì, il barista deve essere stato contento di aver trovato un cliente da spennare. Non so dire se stavo dormendo in quel momento, ma il contatto di una mano sulla mia spalla mi ha ridestato all’improvviso.

«Noi stiamo andando,» dice il collega che prima mi ha dato la spinta. Penso si sia reso conto dello sguardo confuso che gli sto rivolgendo perché continua «guarda che sono le 2, il bar sta per chiudere».

Mi alzo e mi guardo intorno, effettivamente i tavoli si sono svuotati.

«Ci vediamo lunedì,» pronuncia queste ultime parole mentre si sta già voltando per uscire dal locale, ha già smesso di guardarmi in faccia. Non faccio neanche in tempo a salutare gli altri, vedo che si sono già incamminati senza neanche rivolgermi uno sguardo. 

Mi giro verso il barista: «Quanto ti devo?».

 

Mi sveglio con l’improvviso bisogno di vomitare, corro in bagno, ma non faccio in tempo a raggiungere il water. Mi piego sulle ginocchia e vomito ancora, questa volta la maggior parte riesce ad entrare. Lo stomaco sussulta ancora, un altro conato. Forse è l’ultimo. Sento ancora lo stimolo, ma non riesco a vomitare più niente, lo stomaco si è svuotato.

Ho il fiatone, respiro a bocca spalancata e sento l’odore acido che mi ferisce le narici, mi tocco la fronte sudata e fredda per lo sforzo del vomito. Mi siedo per terra e guardo le chiazze sul pavimento. Mi viene da piangere, merda. Guarda che schifo, guarda che schifo che hai fatto. Inizio a singhiozzare, non ho idea di quanto duri questo pianto inconsolabile, non so neanche da dove mi vengono tutte queste lacrime, so solo che non riesco a smettere. La fronte mi si contrae così forte da farmi male.

 

Potrebbe essere passata solo una mezz'ora come due ore, è impossibile capirlo. Mi accorgo improvvisamente che dalla tapparella si stanno facendo largo i raggi del sole. A fatica mi alzo, mi aggrappo al lavandino e riesco a trovare la forza di tirarmi su. Grave errore, appena mi metto in piedi mi ritrovo davanti ad uno spettacolo disgustoso. Lo specchio sopra il lavandino mostra una figura sconvolta, i capelli castani unti e disordinati, gli occhi gonfi di pianto e deprivazione del sonno, le labbra secche e spaccate. Poi il mio sguardo scende fino al mio petto. Il busto magro lascia intravedere le costole, mi soffermo sullo sterno sporgente e le clavicole ossute. Quando però i miei occhi cadono sui capezzoli ritorna quella sensazione di sbagliato. Istintivamente li copro con le mani. Vedo nel mio riflesso una persona distrutta, che tenta disperatamente di nascondere la piattezza del proprio petto. Il nodo in gola del pianto appena interrotto torna a farsi sentire, sento un dolore indescrivibile che mi sta montando dentro il corpo e non so come contenerlo. 

Sbagliato, sbagliato, sbagliato. È tutto così sbagliato, ma io non ci riesco. Non riesco a sopportare i cambiamenti. Sono spaventosi. Devo solo cercare di calmarmi e tornerà tutto alla normalità. Andrà tutto bene.

 

L’unica cosa che posso fare adesso è cercare almeno di ripulire questo schifo. 

Nel giro di un’ora riesco a dare una sistemata al bagno, apro le finestre in casa e faccio entrare l’aria pulita che spero faccia sparire l’odore di vomito che sento ancora nel naso. Non resta che lavarmi, sciacquare via di dosso gli odori, le sensazioni e i pensieri. Cerco di non indugiare ancora con le mani sul mio corpo, sarebbe un errore, ho appena smesso di piangere e sono troppo stanco per ricominciare.

Ecco, vedi? Dopo una bella doccia si sta sempre meglio. Mi sembra di essere riuscito ad aggiustare almeno una cosa della mia vita. Ora prendo l’asciugacapelli, mi siedo comodamente sul letto e me li asciugo. Ah merda, ma ho messo a caricare il telefono ieri notte? Lo attacco alla presa e lo schermo si accende. 

«Mh? Ho delle notifiche?» chiedo ad alta voce come se ci fosse qualcuno nel mio minuscolo monolocale che potesse effettivamente rispondermi. È un messaggio dal collega che ieri mi ha svegliato, ho apprezzato che almeno lui si sia preoccupato per me.

 

Ehi, volevo solo dirti che non sei costretto ad uscire con noi se non ti va. Alla fine ieri hai passato tutto il tempo in silenzio, ti sei ubriacato a merda e ti sei messo da solo al bancone. Se non vuoi stare con noi, basta che lo dici, insomma si è capito che non ti andava per niente. La prossima volta dì di no e basta.

 

Rimango immobile. Rileggo più volte il messaggio. Il peso nel petto è tornato, nella testa mi rimbombano mille parole diverse, frasi che si compongono e scompongono e cercano di trovare un senso accoppiandosi freneticamente le une con le altre.

È vero che non volevo uscire con loro, ma pensavo che avrei fatto il guastafeste e dire di no per l’ennessima volta. Ho rovinato la loro serata? Ho fatto di tutto per non essere di troppo, non dare fastidio. Non ho detto niente perché nessuno mi chiedeva niente e non volevo interrompere gli altri mentre parlavano. Li ho anche lasciati soli così potevano divertirsi senza dover avere per forza a che fare con me. 

Niente di quello che faccio va mai bene. 

 

«Porca puttana» scatto in piedi ed urlo, sbatto il telefono per terra. «Non faccio mai niente di buono, porca puttana!» 

Continuo ad urlare stringendo forte i pugni, sento di voler colpire qualcosa ma non so dove dirigere questa rabbia che mi monta dentro. Prendo un cuscino dal letto e lo sbatto sul materasso. Non basta, non basta minimamente. Lo slancio violento è ancora forte, non so come sfogarlo. 

Niente di quello che faccio va mai bene.

Mi guardo i pugni stretti, le nocche sono diventate bianche. Le studio per qualche istante prima di far partire un cazzotto dritto sulla mia mascella. Sì, così va bene. Questo mi fa sentire meglio. L’adrenalina mi monta dentro e veloce mi tiro un altro pugno, questa volta puntando allo stomaco. In quel momento mi torna in mente l’odio che provo per il mio petto. Corro in bagno per guardarmi ancora una volta allo specchio e mi colpisco ripetutamente i pettorali. Mi sento stanco dalle percosse che mi sto autoinfliggendo, ma continuo finché sento di averne la forza. Mi fermo solo quando ho il fiatone. 

Ritorno in me solo quando sento squillare il telefono nell’altra stanza. Mi alzo di scatto, confuso e stordito da quello che mi sono fatto. Sul display leggo “mamma”, cerco di ricompormi prima di rispondere.

 

“Pronto?”

“Ma buongiorno, lo sai che ore sono? Che stava facendo l’ometto di mamma?”

“...”

“Pronto? Ci sei?”

“Sì, mamma, ti sento.”

“Allora che fai? Domani vieni a pranzo o no?”

“Mmh sì, okay.”

“Ma che c’è? Sei impegnato?”

“No no, sono solo… stanco.”

“Sei strano. Cosa c’è, hai conosciuto una ragazza?”

“No, mamma, non ho conosciuto nessuno.”

“Mh, sarà. Dai, domani mi parli di lei.”

“Mamma, non c’è nessuna lei.”

“Sì, sì, va bene.”

“Ora devo andare, ciao.”

“Eh? Di già? Okay, allora ci vediamo domani.”

“A domani.”

“Ciao, ciao, ometto!”

 

Ho sempre mal sopportato quel soprannome, ma adesso non sembra solo un fastidio, sento di detestarlo dal profondo delle mie viscere. 

Perché non mi lasci in pace, mamma? Che cazzo vuoi da me? Quando sblocco il telefono mi trovo di nuovo davanti il messaggio del collega.

 

«Lasciatemi tutti in pace!» non riesco a contenere le parole che dalla mia mente si fanno strada fino alla mia bocca, il volume della mia voce è incontenibile, sento di non avere più il controllo su niente. Il mio interlocutore invisibile non risponde, rimango solo io a parlare con me stesso, continuo a ripetere ossessivamente «Lo so che non è colpa loro, sono io che sono sbagliato». 

E mentre articolo queste parole, sento di iniziare a tremare. Che motivo c’è? Non c’è nessun motivo di tremare adesso. Ho freddo? Non capisco cosa succede. Il bisogno di movimento mi investe, sento di non poter riuscire a tenere i muscoli fermi. Inizio a camminare avanti e indietro per la stanza e a ripetermi che non è colpa loro, ma sembra che neanche questo basti a calmarmi, i tremori sembrano sempre più forti e implacabili. Mi vesto freneticamente, infilo le scarpe ed esco di casa senza una vera e propria destinazione. 

 

Metto le mani in tasca e cerco di ritrovare una compostezza che forse non ho mai avuto. Non so da quanto tempo mi sento così, potrebbe essere da sempre, ma non ne so il motivo. Le falcate dei miei passi si fanno sempre più lunghe, non so dove mi vogliano portare, sono unicamente concentrato sui battiti fortissimi del mio cuore. 

È come se fossi completamente estraniato da tutto quello che mi succede intorno. Vedo le persone sulla strada, ma ho la sensazione di essere lontano da tutto, il vuoto che era dentro di me è in qualche modo uscito fuori e si sta riversando sulla città? 

Continuo la mia marcia decisa e senza meta, alterno i passi meccanicamente, ma inizio a sentire la fatica della foga che mi anima. Rallento il passo e respiro a bocca semiaperta, ma dove sono? Non conosco questa zona, non sono mai andato in questa direzione. Mi fermo per guardarmi meglio intorno. No, non ne ho davvero idea. Davanti a me c’è quello che sembra un bar che non ho mai visto. Ho sete, forse dovrei entrare. Appena mi avvicino alla porta e la dischiudo, mi rendo conto di non avere soldi.

«Siamo ancora chiusi» annuncia una voce dall’interno.

«Scusi, non…» a quel punto mi rendo conto che sulla porta che ancora stringevo tra le mani un cartello segnalava la chiusura. Mi affaccio di poco all’interno del bar per mostrarmi al mio interlocutore «Scusi, non ci avevo fatto caso» cerco di giustificarmi. Mi sento così in imbarazzo, non riesco mai a farne una giusta, meglio che me ne vada. «Arrivederci» concludo ritirandomi dall’uscio.

«Tutto bene?» chiede la voce. Mi sorprende che mi abbia rivolto ancora la parola, torno a fare capolino, questa volta cerco il suo sguardo. Prima non avevo avuto il coraggio di guardare in faccia la fonte di quella voce, ma qualcosa nel tono della domanda mi incuriosisce. Un uomo sulla quarantina, indossa una camicia elegante e colorata, baffi e capelli curati, il viso abbellito da un rossetto e dell’ombretto che si abbinano perfettamente ai colori dei suoi vestiti. Non avevo mai conosciuto un uomo così, e ora che si presenta davanti a me e non posso fare a meno di restarne affascinato, stregato.

«Ehi? Tutto bene?» torna a chiedermi, ma questa volta si avvicina a me, oltrepassa il bancone a cui era seduto e nel giro di pochi istanti arriva ad un metro da me. Mi guarda perplesso, forse preoccupato? Apre la porta completamente, mostrando la mia figura impietrita e strabiliata. 

«Lake, che succede? C’è un cliente?» un’altra voce ci distrae entrambi, ci giriamo automaticamente in sua direzione. Una donna, altissima e vestita come se fosse ad un gran galà, il vestito rosso brillava anche nell’ombra del locale chiuso al pubblico, il viso truccato con cura era incorniciato da un’acconciatura complessa, piena di boccoli biondissimi. Non riesco a contenere la meraviglia. Capisco in quel momento di essere davanti ad una drag queen. Non avevo idea che ci fosse un locale del genere vicino a casa mia. Ma in realtà ho camminato così tanto che non so neanche dove io sia. 

«Io… Non avevo notato che il bar è chiuso, vado via subito, scusate. Buona giornata» abbozzo un sorriso cercando di mascherare l’imbarazzo. Mi volto per uscire il più velocemente possibile da quel locale e da quella situazione, riesco a sbagliare anche in queste piccole cose, sono davvero irrecuperabile. 

Ma la mano dell’uomo si poggia rapidamente sulla mia spalla, in un gesto che riesce ad essere deciso e delicato allo stesso tempo. Per la terza volta mi chiede «Sei sicuro di stare bene?».

Come ha fatto a leggermi dentro? Si vede così tanto che sto cadendo a pezzi? Oltre il bancone che mi sta di fronte noto uno specchio, quando mi riconosco riflesso capisco il perché insista con quella domanda. Sto piangendo. Tremo e piango. Quando ho iniziato? Non me ne sono proprio accorto. Sento le orecchie diventare rosse dall'imbarazzo, le guance si scaldano e cerco di nasconderle passando velocemente le mani sul volto. Catturo qualche lacrima rimasta incastrata nell’incavo della mia narice. «Sto bene» sforzo un sorriso «la ringrazio per la premura, ma non c’è bisogno» vorrei andarmene, ma la sua mano poggia ancora sulla mia spalla e non accenna a toglierla.

«Vuoi qualcosa da bere? Anche solo un bicchiere d’acqua?» la drag queen si è avvicinata e mi guarda, non riesco a comprendere il modo in cui mi rivolge il suo sguardo. Non sembra disgusto, fastidio. Cerco gli occhi dell’uomo e anche in lui non mi pare di cogliere niente del genere. Quando però torno ad indugiare sullo specchio lo vedo, quel ribrezzo, quella repulsione c’è, ma è nell’espressione del mio stesso riflesso che mi guarda. I singhiozzi si fanno largo nella mia gola, impossibili da controllare e spasmodici, piango senza ritegno davanti a due sconosciuti. 

«Mi dispiace, scusate,» sillabo a fatica tra un singulto e l’altro.

«Ehi, su, calmati. Ora ci sediamo e ci racconti quello è successo» la drag queen ha una voce profonda e dolce, sento il peso sul petto un po’ più leggero.

«Penserete che non sono per niente un uomo a piangere così», cerco di sdrammatizzare per mascherare l’imbarazzo.

«Chi ha detto che gli uomini non piangono? Abbiamo anche noi condotti lacrimali, perché non dovremmo usarli quando siamo tristi?» l’uomo lascia la presa sulla spalla per sostituire il gesto con una pacca amichevole, penso voglia consolarmi.

«Su, vieni a sederti con noi e dicci cosa ti passa per la testa» dice la drag prendendomi la mano piano, sento la sua pelle morbida stringermi e mi lascio trasportare. 

 

Non so da quante ore sono qui, penso fosse circa mezzogiorno quando sono entrato, ma non sono mai stato così bene in un posto. Priscilla e Lake sono riusciti persino a farmi ridere. Vogliono che io rimanga per lo spettacolo della sera. Ho detto che ne sarei felice.

«Hai mai pensato di usare del make up?» Priscilla mi passa una mano tra i ciuffi di capelli che mi coprono appena la fronte. Al suo tocco sussulto, sento ancora il dolore dei pugni che mi sono scagliato addosso poche ore fa. 

«No, non ci ho mai pensato,» mi tocco leggermente la guancia appena gonfia e guardo nello specchio oltre il bancone, «dici che ci starei bene?» le chiedo con un filo di imbarazzo. 

«C’è solo un modo di scoprirlo» risponde Lake al suo posto, mentre toglie i bicchieri sporchi davanti a noi. 

«Allora andiamo a vedere come stai con un po’ di mascara», Priscilla ancora una volta mi prende delicatamente per mano e io mi lascio guidare, «tranquillo non ti faccio un trucco pesante da drag, proviamo prima con uno stile più naturale». Annuisco senza pensarci troppo, potrebbe essere divertente, quindi perché no?

 

Siamo dietro le quinte del palcoscenico, il locale è piccolo, ma le drag sono riuscite a ritagliarsi uno spazio dove mettere i loro vestiti, le parrucche e anche alcune postazioni per truccarsi. Priscilla prima mi ha raccontato di come ha iniziato a fare drag. Quando era bambina sua madre la lasciava ballare e cantare nel salotto di casa, le permetteva di indossare i suoi trucchi e vestiti, persino i tacchi. Aveva già deciso di diventare una drag quando aveva appena 15 anni, dice che non gliene fregava niente di essere un maschio, a lei piace esibirsi in drag. 

Ormai mi sta truccando da qualche minuto e continua a raccontare della sua vita nel mondo dello spettacolo. Forse ha capito che faccio fatica a parlare di me e mi vuole far sentire a mio agio occupando i vuoti di parole che io lascio con le sue storie rocambolesche sull’essere una drag queen. A me sta bene così, mi sto divertendo. Mi soffermo a pensare che non ricordo l’ultima volta che mi sono divertito con qualcuno.

 

«Ecco, penso di aver finito,» mi guarda Priscilla soddisfatta.

In quel momento entra nel backstage anche Lake «Stai proprio bene,» commenta «però con un bel trucco ci devono stare anche dei bei vestiti,» dice mentre si dirige verso gli abiti appesi ad una stampella a qualche metro da noi. 

«Ed una bella capigliatura,» aggiunge Priscilla voltandosi in cerca di una parrucca adatta.

«Posso guardarmi intanto?» chiedo io, che per tutto il tempo ho dato le spalle allo specchio e non ho idea di come sono conciato.

«No! Aspetta, devi vederti nell’insieme,» mi ferma prontamente Priscilla ancora impegnata a valutare la migliore parrucca per me.

«Prova questo,» Lake mi porge un abito semplice, ma stupendo. Mi sento un poco incerto, ma arrivato a questo punto tanto vale continuare. Mi sfilo i miei vestiti, per poi infilare l’abito. Il tessuto mi cade leggero sui fianchi, dando l’illusione di una rotondità inesistente sul mio corpo. Il tulle rosa è completamente ricoperto di fragole, si chiude sulla vita e crea una scollatura generosa sul petto. Le maniche a sbuffo mi ricordano vagamente una bambolina di pezza con cui mia sorella giocava sempre quando eravamo piccoli. È strano che in questo momento ripensi a quella bambolina, mi è tornata in mente quella volta in cui chiesi di poterci giocare anche io, ma mia mamma rispose che io avevo le macchinine, mentre le bambole erano per le bambine.

«Ehi, ehi, ehi! Che succede? Non piangere adesso che si rovina tutto il trucco!» Priscilla si è voltata verso di me. Lake si mette dietro alla mia schiena e tira su la zip del vestito.

«Scusa, non me n’ero accorto», ancora una volta mi sento mortificato.

«Stai tranquillo,» mi rassicura mentre mi posiziona sulla testa una parrucca scura e carica di ricci «ora puoi finalmente vedere come stai». 

 

Mi volto verso lo specchio e davanti a me c’è una donna. Bella. Bellissima. Mi avvicino per osservarla meglio, la curva delle sue labbra, il taglio dei suoi occhi, il neo sotto l’occhio.

Sono io. Questa sono io.

«Certo che sei tu» mi risponde Lake sorridendo, solo ora lo noto nel riflesso a fianco a me, dall’altro lato c’è Priscilla. Ho parlato ad alta voce? Non l'avevo notato, che imbarazzo.

«Sei stupenda» dice lei al mio riflesso nello specchio mentre poggia la sua mano calda nell'incavo della mia clavicola.

Mi volto verso di lei «Ridillo» le chiedo con un tono quasi implorante. Le mi guarda interdetta per un attimo, poi ripete ancora con un sorriso raggiante «Sei stupenda».

Torno a guardarmi allo specchio e finalmente capisco. Sono stupenda. 

Non posso contenermi, mi lancio al collo di Priscilla rendendomi conto solo in quel momento dei centimetri di differenza tra noi due. La stringo forte tenendomi in bilico sulle punte dei piedi. «Grazie» le dico con voce quasi spezzata da un'ondata di emozioni incontrollabili. Poi mi rivolgo a Lake ed abbraccio anche lui che, ancora più alto di Priscilla, riesco ad afferrare unicamente al livello del petto. Anche a lui ripeto «Grazie, davvero».

«Sono felice che ti sia piaciuto, ma come mai tutto questo affetto?» chiede Lake ridendo per la mia reazione eccessiva. Guardo Priscilla ed anche lei sembra stupita, ma felice.

«Finalmente ho capito» rivolgo ancora una volta il mio sguardo allo specchio, in cui vedo me stessa sorridermi «Io sono questa, una donna stupenda». Le lacrime ritornano a rendere i miei occhi brillanti sotto le luci soffuse del backstage di quel piccolo locale. Ma questa volta so che non sto piangendo per il disgusto che provo nei miei confronti, per la disperazione che provo verso la vita, ma perché sono felice di aver capito chi sono.

 

Finalmente ho trovato un posto che non è sbagliato. E so che posso sopportarlo questo cambiamento.

 
  
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