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Autore: meliiiiissa    02/03/2022    1 recensioni
Osamu Miya ama vivere all'ombra. Ama non essere al centro dell'attenzione, ama la solitudine, la calma pacata e il silenzio. Ha passato la vita, a cercare di non ballare in mezzo al cerchio, a evitare tutto quello che per lui non fosse la sua semplice e quotidiana ombra di vita.
Però c'è qualcuno che lo fa sentire al Sole, una sola, singola persona che lo illumina e lo fa risplendere. Lo spaventa, questa persona, ma è perché davvero non gli piace la luce, o perché teme di dire a se stesso che non ha fatto altro che mentirsi una vita intera?
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OsaSuna, menzioni di SakuAtsu
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Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Osamu Miya, Rintarō Suna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '✿ one-shot haikyuu!! - my hero academia ✿ '
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Vivere all'ombra di qualcuno, a dirla tutta, non è così male.

Che cosa c'è di sbagliato, mi chiedo, cosa di ingiusto o moralmente controverso da meritare tutta quella coltre di parole di psicologia spicciola e sensazioni inventate?

Cosa c'è di poi così condannabile?

Mi piace, vivere all'ombra.

Mi piace davvero.

La mia è una vita all'ombra, non una giornata, non un mese o un anno, no.

Una vita.

Ci hanno provato, i miei, certo che ci hanno provato, non scherziamo, ma io ero sempre così... adombrato, immagino.

Nato e fatto e programmato per vivere all'ombra.

Non odio mio fratello perché stringeva le redini dell'attenzione.

Non lo biasimo.

Non provo nemmeno un minuscolo grammo di rancore.

Sarà tutto quel che volete, vivere all'ombra, sarà sminuente e avvilente, ma è anche sicuro. Niente primi posti, niente punti vulnerabili sbattuti in faccia alla gente, solo una comparsa vicino ad un sorriso più smagliante e una voce più rumorosa.

Difeso dal mio anonimato.

Ironico, ma vero.

Ero al centro dell'attenzione solo nel mio far parte di un duo.

Ero al centro solo nei "gemelli Miya" dell'Inarizaki, non come Osamu, non come... me.

Mai dispiaciuto.

Mai voluto.

Mai rimpianto.

Almeno, forse è questo di cui mi convinco, ma non so quanto senso abbia poterci pensare su con tanta rabbia, alla fine.

Ha senso rimuginare sul perché delle cose che provo?

Provarle non ti basta, 'Samu?

Ho lasciato la pallavolo dopo il liceo. Ero bravo, perché che fossi bravo pochi dubbi c'erano, ma ero anche troppo poco innamorato per un mondo così totalizzante.

Alla fine tutti i nodi vengono al pettine, no?

E se Atsumu era un groviglio attorcigliato di voglia di giocare e competizione, io ero un morbido intreccio di imitazioni giovanili, e mi sono sciolto.

Mi sono lasciato falciare.

E ho scelto altro.

Fare qualcosa che 'Tsumu non avrebbe fatto con me, non mi allettava nemmeno un briciolo. Tutti penserebbero che mi sarebbe dovuta piacere, l'idea di avere per una volta nella vita qualcosa che fosse solo e unicamente mio, ma non è stato così.

Volevo la mia corazza.

Volevo la mia sicurezza e non l'avevo più.

Costruirmela da solo non è stato per nulla facile.

Qualche rifiuto, qualche commento, il carattere gentile ma schivo, la riservatezza.

Ho faticato parecchio.

Ed eppure ci sono tornato, all'ombra. All'ombra di nessuno, ora come ora, ma pur sempre all'ombra.

Mi è sempre piaciuto, vivere all'ombra.

Su questo non c'è alcun dubbio.

Sono sul bus, mentre ci penso.

Sto attraversando la città, il colore sfavillante delle luci di Tokyo che si riflette contro i vetri, i rumori delle persone, la vita che scorre.

'Tsumu è tornato dal ritiro con la squadra.

Dice che voleva vedermi.

Come ho già detto, non provo alcun tipo di rancore nei suoi confronti. 'Tsumu non ha mai fatto nulla per ferirmi, nulla per relegarmi all'angolino che mi sono ritagliato completamente da solo.

Io ho usato lui per proteggermi, a dirla tutta.

Se qualcuno fra noi due dovesse essere additato come il fratello infame, non sarebbe 'Tsumu a meritarsi l'appellativo.

Mi è mancato.

Non credo nell'occulto, ma è vero che i legami gemellari non sono qualcosa di descrivibile con l'asetticità della scienza.

Come un filo, diverso dall'amore e diverso dal bisogno, che si inerpica nel tuo stomaco e si lega con un fiocco delicato attorno allo sterno.

Ci collega.

Certe volte abbiamo bisogno di ricongiungerlo.

Non spesso, non in modo malato.

Ormai siamo due adulti diversi, differenti, spesso distanti.

Ma qualcosa scatta a posto nel momento in cui siamo insieme e capisco che 'Tsumu abbia nostalgia di quella sensazione.

Le fermate scorrono fuori dal finestrino.

Non ho mai preso la patente.

A che serve, in una grande città trafficata? Solo a perdere tempo.

I mezzi in Giappone funzionano bene, e avanzano per tutte le mie necessità del momento.

Le macchine sono dispendiose, mi affatica l'idea.

Cambio canzone sul cellulare.

Vi capita di vivere delle sinestesie?

Non le figure retoriche che compaiono nelle righe stanche dei libri, no.

Quelle del cervello.

Certe cose ti esplodono in testa in tante sensazioni diverse.

Collego questa canzone al verde.

Sorrido un pochino, giusto gli angoli della bocca che si alzano, mentre gli Arctic Monkeys rotolano nel mio cervello.

Li collego al verde.

All'odore di cannella.

Alle voci pacate, forse, alle mani giovani e bianche, ai sospiri, ai gemiti.

Li collego ai serpenti.

Direbbero gatti, gli altri.

Ma non sono i gatti, che mi saltano alla mente. Non la bellezza felina, ma l'eleganza delle squame verde smeraldo, il sibilo del corpo sinuoso, l'intreccio esotico di una raffinatezza letale, immagino.

Sono divertenti, le sinestesie. Mi piacciono.

Sono di quelle cose che nulla c'entrano, con l'ombra che tanto ricerco. Ma la luce brillante delle emozioni non è di fronte agli occhi di tutti, mi acceca dall'interno, nascostamente.

Euforia privata.

Intimità.

Cercherei un respiro profondo, se non fossi in un bus pieno di persone.

Non amo l'odore della socialità.

Guardo di sbieco lo schermo del telefono.

Undici novembre, che data ironica.

L'undici dovrebbe essere un numero fortunato, mi sembra di aver letto da qualche parte. Una di quelle cose astrologiche e strambe che trovi sui trafiletti al fondo delle riviste del dentista, mi sa.

Le coincidenze di stelle, che stronzata.

Quanto ci vuole ad arrivare?

Non so se riuscirò a resistere a tutta la canzone.

Se c'è qualcosa che detesto davvero, ombra o meno, è il dubbio. E se una stupida canzone riesce a farti venire così tanti dubbi su tante scelte, allora vuol dire che è un pericolo.

Non un rischio.

Un pericolo.

Certe volte la lascio andare, questa canzone.

Ma solo di notte.

Solo quando mi sento nostalgico.

Solo quando ho bisogno di vederli, quel verde e quei serpenti, che senza non so come addormentarmi.

Essere un uomo di ghiaccio prevede che certe volte ceda, credo. E come tutti gli stronzi, cedo solo nella solitudine.

Mi capita di pensare che mi serva piangere.

Gli Arctic Monkeys mi fanno piangere.

Più il ricordo che lego, che loro in sé.

Mi piace vivere all'ombra.

Mi deve piacere.

Mi doveva piacere anche allora.

Mentre osservo le strade che si susseguono, sospiro piano, butto un occhio al tabellone luminoso sul tettuccio.

Quattro fermate.

Il dubbio non mi piace, ma l'ho già detto, vero?

Il dubbio lo odio proprio.

Sono nato all'ombra e ad un certo punto mi sento sotto il sole, brillante e luminoso, specchio delle intenzioni di qualcuno.

Mi farebbe schifo, questo scenario?

Non mi faceva schifo.

Mi faceva paura.

Mi terrorizzava.

Quando il verde chiarissimo mi mangiava e rifletteva, non vivevo all'ombra. Ero il centro di qualcosa, e questo significava che la sicurezza e la protezione non c'erano più, svanite come neve. Ero vulnerabile.

Mi chiedo a distanza di tre anni se quella non sia stata la scelta sbagliata.

Forse sì, visto che piango con le cuffiette di notte.

Ma sono convinto che la persona che ho lasciato abbia trovato di meglio, dopo. Meglio di me.

Qualcuno che non avesse paura.

Qualcuno che vivesse al sole.

Quasi finite, le parole di questa canzone, nemmeno una lacrima. Siamo forti, oggi, eh? Una statua di sale, 'Samu, complimenti.

Anni di pratica servono, allora.

Mi alzo, la prossima è la mia. Stringo una mano sulla barra di ferro al centro dell'abitacolo, mi godo la voce che culla la melodia, respiro lentamente mentre il mondo mi scorre di fronte.

Mi sembra che il tempo si fermi.

Mi sembra di tornare indietro, con le mani fredde di qualcuno che mi faceva sentire al sole.

La porta tintinna, si apre.

Scendo un passo alla volta.

Per essere Novembre, non fa tanto freddo. Una temperatura moderata, accettabile, da cappotto e sciarpa ma non da piumino. Porto i guanti per abitudine anche se non mi servono.

Ho sempre avuto la pelle calda.

So dove vuole che vada 'Tsumu, e non è il mio elemento.

Locali per giovani, non sono solo vetrine per persone in mostra, forse? Non posti adatti alla remissione, miseria.

Ed eppure so dove vado e cammino per andarci.

Mi manca mio fratello, mi manca sul serio.

Un ragazzo mi passa a fianco e aggrotta le sopracciglia fissandomi, mi supera, dà una gomitata all'amico che era con lui.

Ci scambiano ancora, credo.

Siamo uguali, dopotutto.

I capelli li porto sempre di questo colore grigio, anche se sono cresciuto.

So che non si confà al personaggio, ma ci sono legato.

Non sono riuscito a cambiarli.

Non ne ho avuto il coraggio.

Sento il rumore che si agglomera dietro la porta chiusa verso cui cammino, il rumore delle persone che ridono. Ho qualche amico, ma questo non è mai stato il mio genere di divertimento.

Mi piace stare a casa, rotolarmi nelle coperte, mangiare qualcosa di troppo calorico e bere cioccolata, d'inverno, non uscire a fare baldoria.

Ingoio le congetture.

Mi faccio strada.

Mi costringo a sorridere, a quelli che mi urlano "Miya" scambiandomi per il mio gemello, non rispondo male né ignoro, non voglio rovinare la reputazione che 'Tsumu si sarà costruito con tanta attenzione.

Ed eppure non mi mescolo.

Non mi fondo.

Non mi sciolgo nella folla.

Sento il rumore delle persone e tolgo le cuffiette, ma anche toglierle non spegne la canzone nella mia testa, anzi.

Mi rimane attaccata, appicciata al cervello dall'interno in un grumo di ricordi.

Risuona, rotola, rimbomba.

Mi muovo alla ricerca di mio fratello e non smette.

La canticchio persino, forse.

La canticchio che tanto chi vuoi che ti senta, con questo casino. È pieno di persone da esposizione, qui, di manichini perfetti per un'affascinante mostra di moda, nessuno darà retta a due note storte che ballano fuori dalla mia gola.

Non mi aspetto che qualcuno lo noti.

Mi spingo fra la folla, supero il primo nugolo di persone, vedo il bar al fondo e punto dall'altra parte.

'Tsumu non si siede al bar quasi mai.

Manda qualcuno a prendergli da bere, nonostante Sakusa lo rimproveri dicendo che è irresponsabile, non ha voglia.

Persone e persone e persone, ridono, scherzano, urlano.

Mi affogano, un pochino.

Mi annegano.

Mi piace vivere all'ombra.

Ma l'ombra non è compressione, è ombra. L'ombra è ariosa e libera, delimitata ma ampia.

Non mi piacciono i limiti.

Mi mettono molto a disagio.

Da una parte diventa difficile, lasciar perdere tutta la ressa che mi si accumula addosso, dall'altra questa canzone fastidiosa aumenta e cresce e suona sempre di più, sempre più forte.

Attaccato da due fronti.

Accumulato.

Goccia a goccia, vaso pieno.

Sto per strabordare.

Sto per cadere.

Sto per cedere.

A vanificare la mia reazione plateale, è un rumore che percepisco appena.

Note cantate.

Una, due.

Timide.

Mi rilassano.

Respiro la calma, mi aggrappo alla sensazione.

Seguile, 'Samu.

Segui le note che...

Sono le mie.

Sono le mie?

Le cantavo io, no?

Non sono queste, quelle che mi risuonano in testa? Seguono una dopo l'altra l'ordine che avevo nella memoria.

Che coincidenza.

Già, che coinciden...

Verde.

Non è nella mia testa, questo verde.

Non è nei ricordi, non nell'immaginazione.

È un verde salvia.

Mi raggiunge minuscolo, un riflesso, dall'altra parte di un muro di persone ammassate a festeggiare, un verde minaccioso e sinuoso, un verde in silenzio, un verde tranquillo.

Il verde di Suna Rintarō è un verde che esiste solo e unicamente nei suoi occhi.

L'ho lasciato alla fine del liceo.

Ho avuto paura come un codardo, paura di quello che mi faceva.

Suna mi metteva in mezzo, mi faceva ballare al centro del cerchio, mi rifletteva addosso l'attenzione, ma non è questo che mi spaventava, no.

Era che io lo volessi, a terrorizzarmi.

Non potevo dire che tutta la mia vita fosse una menzogna a me stesso scoprendo quanto era bello brillare, no?

Non potevo cadere così.

Ed eppure desideravo ardentemente i suoi occhi su di me, più di ogni altra cosa.

Gli ho spezzato il cuore per non spezzare il mio, tre anni fa.

E non è passato un solo, singolo giorno in cui io non abbia pensato a quella scelta con un peso nel cuore che non credevo avrei mai potuto sopportare.

Il verde di Suna Rintarō mi insegue nelle canzoni degli Arctic Monkeys, nelle ciambelle alla cannella, nelle pelli chiare e nelle foto dei serpenti esotici nei documentari.

Il verde di Suna Rintarō è l'unica cosa per cui sciolgo l'ombra in cui vivo, la notte.

Il verde di Suna Rintarō è, ad oggi, la cosa più bella che io abbia mai avuto il piacere di vedere.

Scompare.

In un attimo.

Persone che mi si agglomerano davanti, voci e urla e l'istante successivo, quando sporgo il collo oltre la confusione per cercarlo ancora, non c'è.

Svanito.

Ho le allucinazioni?

No, sul serio, ho le allucinazioni?

Prima mi sembra di sentirlo canticchiare a almeno tre metri di distanza, poi lo vedo ed ecco che svanisce nel nulla?

Sono così solo che vedo fra la gente il viso del mio ragazzo del liceo?

Miseria, Osamu, come siamo caduti in basso.

Mi scuoto di dosso la sensazione cercando pace, torno indietro con i pensieri, riavvolgo il nastro fino a tornare alla mia intenzione iniziale.

Sono qui per vedere 'Tsumu, non per mettermi a frignare per una cosa che mi sono fatto da solo, tra l'altro.

Scorro con lo sguardo al fondo della sala, divanetti di pelle scura e persone ammassate, capelli chiari, capelli scuri, capelli... capelli biondi, cazzo.

Eccolo, questo infame stronzetto.

Nonostante la sensazione di aver visto Suna mi soffochi come uno sbocciare di ansia nella mia trachea, nonostante mi formicoli la pelle al pensiero, decido di fare le cose in modo razionale, come ho combinato tutto, nella mia vita.

Razionalmente so che l'ho lasciato.

Razionalmente so che ho fatto bene a lasciarlo, che l'avrei solo affossato col mio essere pesante e solo e pigro, che avrei rovinato una vita di talento con le mie pretese.

Razionalmente so che non è per questo che sono qui ora.

Non c'è decisione in me quanto una strana sensazione di inerzia, cammino come andassi avanti per sfinimento, trascino il mio reticolo di incertezze e fastidi con me, mi costringo a smettere di rimuginare.

Avete presente quando si parla a scuola di muscoli volontari o involontari?

Il cervello non è un muscolo, ma lo fosse sarebbe al cento per cento involontario.

Si dà per scontato che uno decida col cervello cosa fare e come, ma sono tutte cazzate. Avete mai provato a non pensare più a qualcosa?

Funziona?

A me no.

Effetto "Orso Bianco", lo chiamano, mi pare.

Cerchi di non pensarci, a quello stracazzo di orso bianco, ma alla fine non puoi fare a meno di ricordare non volendolo qualcosa che dovresti aver dimenticato.

Mentre mi trascino verso mio fratello, Suna diventa un orso bianco. Cazzo, mi dico di non pensarci così forte che ci penso proprio, alla fine.

Salutalo.

Saluta tuo fratello.

Ti ha visto, sorride come il grande e grosso bastardo che è, blatera qualcosa che sicuro sarà un insulto.

Chiedigli come va, mandarlo a fare in culo, chiedi di Sakusa o della pallavolo, che ne so io, inventati qualcosa, miserabile idiota, fatti venire un'idea e...

Atsumu si avvicina.

Atsumu si avvicina con trentadue denti di sorriso e la sensazione che mi dà, a ventun anni di distanza da quando insieme abbiamo deciso di presentarci al mondo, è sempre la stessa.

Sicuro.

Con Atsumu sono al sicuro.

E se mollo, qualcosa dal mio controllo ferreo, straborda.

− 'Samu! Schifoso, sei qui! Ci hai messo una vita ad arriva... − inizia, ma non gli lascio il tempo di parlare.

In un nanosecondo la mia voce interiore viene completamente distrutta e schiacciata da un enorme, involontario e totalizzante orso bianco.

− C'è Suna? – è tutto quello che riesco a dire.

Dovrei dire "ciao".

Dovrei dire "sempre la solita faccia da culo, 'Tsumu, anche se ce l'ho uguale" o "Sakusa non ti ha ancora fatto fuori?" o persino "strano che tu sia sopravvissuto tutto questo tempo senza ucciderti", ma l'orso bianco divora tutto e ne fa piazza pulita, e rimane solo nell'intero campeggio latente dei miei pensieri.

Atsumu aggrotta le sopracciglia, indietreggia col viso.

− Potrebbe, qualche volta viene ma... −

− L'ho visto, 'Tsumu. Voglio sapere se c'è o me lo sono sognato. –

Non mento.

Non a lui.

Non avrebbe senso, sa quando lo faccio e nascondergli le cose mi è sinceramente impossibile. E poi considerando che abbiamo passato diciotto anni della nostra vita a condividere ogni spazio delle nostre esistenze, di ben poco mi vergogno.

− Mi fai parlare? – dice poi di tutta risposta, piantandosi le mani sui fianchi.

Chiudo la bocca in una linea.

− Prima di tutto ciao, Osamu. Non ci vediamo da tre mesi ma vai avanti a blaterare sul tuo ragazzo del liceo che hai lasciato tu, cretino, avanti. –

Non insinua con tono fastidioso, però.

Potrebbe sembrare dalle cose che dice, ma li riconosco, io, i vari toni della sua voce. E questo specifico è preoccupato, ironico, un po' nostalgico ma sotto sotto anche protettivo.

− Secondo, non so se ci sia. Ti stavo dicendo, prima che mi saltassi addosso, pazzo maniaco, che qualche volta viene con il suo... come dire, con un suo caro amico. –

Alzo un sopracciglio.

Che dovrebbe voler dire che viene con un suo "caro amico". Non sarà che...?

Ma 'Tsumu me l'avrebbe detto, miseria.

Me l'avrebbe detto.

No?

− Terzo, Sakusa sta bene, abbiamo vinto tutte le partite, mi sono slogato la caviglia e ti ho portato dei dolcetti da quel posto, cafone. – finisce, fissandomi dritto in faccia.

Rimango zitto.

Rimane zitto pure lui.

− Puoi parlare, stronzo. – borbotta.

Prendo fiato.

"Grazie per i dolcetti."

"Come sta la tua caviglia?"

"Avete incontrato delle squadre forti, al ritiro?"

− Dove lo trovo? –

Ma miseria, Osamu, sei disastroso.

Atsumu alza gli occhi al cielo tanto che inizio a credere non torneranno mai normali.

− Non penso voglia essere trovato da te. – risponde.

Di nuovo, sembra cattivo. Non lo è.

Vivere protetto vuol dire che chi ti protegge prende in considerazione l'idea di proteggerti al punto che non farlo è quasi impossibile.

Atsumu non smetterà di proteggermi perché lo decido io di punto in bianco.

Non mollerà il colpo sulla mia ombra confortevole come potrei fare io.

− Ma l'ho visto, 'Tsumu, era là e poi... −

− Osamu, l'hai lasciato. Non pensi sia un po' ipocrita tornare come un viscido dopo tre anni? –

Rimango di sasso.

− Ma io voglio solo parlargli. – è tutto quello che riesco a dire.

Non lo so, ok? Non lo so.

Non lo so nemmeno io, gli sto dicendo.

Un secondo prima ero una sorta di emo depresso a elogiare la propria vita dimessa, quello dopo uno psicopatico che insegue qualcuno che ha lasciato.

Lo so.

È l'effetto che mi fa Suna, cazzo.

Perché mai l'avrei lasciato, se no?

Perché mi fa fare cose strane.

Mi fa agire d'impulso.

Lo sa, Atsumu, perché lo sa, che quando si tratta di lui esco di testa. E so anche che sta cercando di evitare che io faccia cose che non voglio fare davvero.

E infine, infine so che c'è un orso bianco seduto nel mio cervello.

Un serpente nelle fattezze di un orso bianco.

− Lui e il suo ragazzo stanno sempre seduti al bancone, se vengono. –

"Il suo ragazzo" nemmeno le ascolto.

Troppe cose, per essere geloso di qualcosa che ho deliberatamente scelto di perdere.

So solo che alzo una mano, la appoggio su una spalla identica alla mia, la stringo.

− Andiamo a pranzo, domani, figlio di puttana. –

− Abbiamo la stessa madre. –

Indietreggio e ridacchio.

− Sul serio? – ribatto.

Scompaio dalla sua vista.

Che merda, vivere al sole. Che merda vivere in un posto dove non hai il tempo di rimuginare ed esaminare perché il mondo vuole che tu agisca di fretta.

Sono sempre stato uno stratega, io, uno in ritiro spirituale per decisioni grandi, non un cretino impulsivo che vede qualcosa che gli piace e impazzisce.

Già detto che Suna mi fa diventare diverso?

No, non diverso.

Non irriconoscibile.

Forse solo migliore, o se non migliore quantomeno meno paranoico, meno riservatamente mogio.

Al bar.

L'avevo visto al bar, credo.

Ma poi era scomparso.

E se fosse tornato?

E se davvero me lo fossi sognato?

Miseria, devo togliere gli Arctic Monkeys dalla mia playlist, mi fanno avere momenti davvero strani.

Bancone, alcol, persone, sgabelli.

Odore forte, di liquore immagino, risate sganasciate, visi che non riconosco.

Dov'è?

Ed eppure giurerei di averlo visto.

Di aver sentito la sua voce.

Una voce sottile, quella di Suna Rintarō, una voce che sembra un sussurro, melodiosa, non particolarmente bassa per essere quella di un uomo.

Suna ha sempre le mani fredde.

Le metteva fra le mie e sorrideva piano, dicendo che gli piaceva farsi scaldare da me.

Mi rubava i guanti.

A me non servono, li metto per abitudine.

Suna è freddoloso, non ride ad alta voce, non si mescola.

Che ci fa in un posto del genere, in effetti? Non vorrei pensare mi abbia mentito, ma sono piuttosto certo che fosse riservato, un tipo che non ama le occasioni piene di casino.

Mi faceva brillare in una riservatezza che condividevamo.

Perché, 'Samu?

Me lo dimentico.

C'erano buone ragioni, forse.

E più lo cerco, più la smania di vederli ancora una sola volta, quegli occhi verdi, mi coglie, e meno motivi trovo.

Forse l'avrei rovinato, con la mia noia.

Ma quanto mi piaceva, Suna Rintarō. Cucinava bene, profumava sempre di cannella. Non asciugava i capelli dopo essersi fatto la doccia nonostante patisse il freddo, certe volte gli piaceva mettere su gli Arctic Monkeys e passare ore intere seduto al centro del letto con una mia maglietta addosso, gli occhi chiusi e la mente che vagava.

Suna era bello e timido.

Camice di flanella, pantaloni scuri tagliati sulle ginocchia, anelli sulle dita e matita sotto gli occhi, e nonostante questo timido.

Suna mi guardava come se ci fossi solo io.

Suna mi metteva su un piedistallo che non pensavo di volere.

Ma lo volevo.

Da lui, lo volevo.

Dove sei?

Dove sei finito?

Ti ho cacciato, lo so, ti ho buttato fuori perché credevo avrei rovinato entrambi senza desiderarlo, sono stato un codardo egoista.

Ma una volta, ti prego.

Una volta.

Fatti... fatti vedere.

Il verde di Suna Rintarō è un verde che esiste solo e unicamente nei suoi occhi.

Non luccica, è opaco.

Opale verde, non smeraldo. Menta e salvia, iridi strette, bordi più scuri.

Ti mangiano.

Il verde di Suna Rintarō ti mangia.

Ti ci immergi dentro, non ne esci più.

Si espande.

Ti invade.

Era... dietro di me.

Era dietro di me e non riuscivo a vederlo.

Ora è così... vicino.

Non mi piace più vivere all'ombra, quando mi guardi così, però.

Cazzo.

− Rin. –

− 'Samu. –

Mi manca il respiro.

Vorrei tornare...

Il me di qualche anno fa.

Il me che entrava in classe e sorrideva dicendo "Rin", il me che si sporgeva su labbra sottili e che stringeva pelle morbida fra le mani, il me che apparteneva a qualcosa che non fosse il suo stesso anonimato.

Vorrei tornare indietro.

− Cosa ci fai qui, 'Samu? – invece, arriva.

− Atsumu. –

− Stavi cercando qualcosa? –

La voce della maga Circe, la sua. Mi trascina in avanti come una bestia, si conclude con una voluta di tonalità elegante, rotola e balla, mi attrae.

− Cercavo te. –

Suna Rintarō spalanca gli occhi.

Mi piace la sorpresa sul suo sguardo.

Mi piace come le ciglia folte si spalanchino per un istante, come gli occhi affilati catturino più luce, come le sopracciglia sottili si alzino appena.

− Me? –

− Cercavo te. – ripeto.

Ci sono tante cose da dire.

Tante e troppe, e stupide e giuste, e forse utili e forse no.

Tante parole non dette, qui in mezzo.

− E ora? –

Una persona diversa avrebbe detto altro, credo.

"Perché me?", "figlio di puttana mi hai lasciato tu", "infame", "ho il ragazzo".

Non lui.

− Ora ti guardo. –

Vorrei bere ogni dettaglio, assorbire ogni ansa, stampare a fuoco ogni singolo ricordo.

Eccole, le guance morbide, che sono più affilate, ora. I capelli sottili, gli occhi...

− Sei bello come ti ricordavo. –

− Anche tu. –

Mi sembra di trovare il silenzio.

Di guardarlo ed estraniarmi.

Di entrare in una bolla che mi salva.

− Perché adesso? – chiede, ancora.

Sorrido.

− Ascoltavo gli Arctic Monkeys sul bus. –

Ride.

Tintinna, la sua risata.

− Prima non mi cercavi? –

Ingoio una risposta razionale.

Mi fai stare al sole, Suna, e quando sono con te non ricordo perché volessi essere all'ombra.

− Prima non sapevo di volerti cercare. –

Si alza, il viso di Suna.

Si apre.

− Io ho un ragaz... −

− Ti amavo, al liceo. –

Silenzio.

Ancora una volta, rimaniamo a goderci il silenzio in un posto rumoroso, trovando pace nei nostri occhi che si incontrano e nelle sensazioni che troviamo solo in questo modo.

Suna ammutolisce.

− Sei uno stronzo. – borbotta poi.

− Ti amavo, al liceo, Rin. – ripeto.

− Smettila di dirlo. –

Mi avvicino, ma solo di qualche millimetro, cerco i suoi occhi.

− Perché non dovrei dirlo, è la verità. –

Non so cosa mi aspettassi.

Niente, mi sarei dovuto aspettare, ho la sensazione. Ci avessi pensato su razionalmente, forse l'avrei capito prima.

Ma lo sapete, ormai.

Che cosa perdo quando vedo questo verde, intendo.

− Mi hai lasciato, al liceo. Non mi amavi, 'Samu. – risponde, dopo qualche istante.

Non ho i filtri della mente, ora.

− Ti ho lasciato perché ero un fallito, Rin. –

− Mi hai lasciato perché non ero abbastanza. –

No.

No...?

Avrò avuto qualche idea strana ma questo...

− Mi hai lasciato perché stavi meglio senza, 'Samu. E non so cosa ti aspetti che ti dica ora. –

Cosa mi aspetto?

− Non mi aspetto niente. –

Di cosa stiamo parlando?

Ho la sensazione che il nostro discorso nemmeno ce l'abbia, un senso.

Ma cosa ce l'ha?

− Sei felice? – mi scappa.

Se è felice va bene.

Se è felice passerò i prossimi anni della mia vita a distruggermi per aver perso la cosa nella mia vita che ora mi rendo conto mi rendesse davvero vivo, ma lo farò con soddisfazione.

Se è felice andrà tutto a posto.

Ma Rin non dice "sì".

Rin mormora.

− Ero felice al liceo. –

Non mi fermo, a quel punto.

− Ami il tuo ragazzo? –

− Non quanto amavo te al liceo. –

Non siamo tipi da cuore in gola, non tipi da confessioni urlate al mondo. Siamo tipi che brillano da soli, immagino.

− Ho paura. – dico, per la prima volta, ad alta voce.

Suna sorride.

− Ho sempre avuto paura anche io. –

Mi piace vivere all'ombra.

Ma forse, mi piace anche vivere al sole.

Forse il sole non è tutto uguale, in fin dei conti.

Forse un sole brilla di luce accecante e uno è quasi opaco per quanto sia moderato il suo scintillare.

Forse il me ragazzino non l'aveva pensata, questa cosa.

Ma forse, forse le cose sono diverse.

− Tu che ci fai qui, invece? – mi scappa poi.

− Non lo so. Cerco un posto. –

Ridacchio.

− Questo ti piace? –

Scuote la testa, sorride.

− Questo è il ricongiungimento più ridicolo della storia. – borbotta.

Alzo le spalle.

− Io sono il più ridicolo della storia, Rin. –

Mi tocca per primo.

Mi appoggia una mano sulla guancia, le dita che descrivono una linea di pressione appena accennata sul mio viso.

− Lo sei. Mi piaci anche così. –

− Ti piaccio? –

− Mi piaci. –

Sono confuso, non so come sentirmi.

Tante cose e nessuna.

Ci sono tanti pensieri che si accumulano, dal ragazzo di Suna a quello che questo discorso comporterà in futuro, ma c'è un orso bianco nelle fattezze di una serpe che prende la mia attenzione, ora.

− Andiamo a casa tua? – gli rotola fuori dalle labbra.

Non faccio sesso da tre anni, Suna.

Non sono mai riuscito a toccare nessuno che non avesse il tuo viso, il tuo profumo e il tuo amore, la tua bellezza e la tua dolcezza letale.

− Vuoi tradire il tuo ragazzo? –

− Penso sia la prima volta che non tradisco me stesso, 'Samu. –

Che risposta disarmante.

Inspiro ed espiro.

− E domani? –

Disegna la linea dello zigomo, l'angolo del mio occhio con i polpastrelli, la forma del labbro superiore.

− Domani ci pensiamo domani. –

Mi colpisce appena la punta del naso, non riesco a fare a meno di avvicinarmi.

− Non ti ho lasciato perché non eri abbastanza. Io non ero abbastanza. – mi ritrovo a pensare ad alta voce.

Sorride, mentre china la fronte contro la mia.

"Non qui", dovrei dirgli, "se ti vedono sei finito", ma non escono, quelle parole.

− Perché non essere "non abbastanza" insieme, allora? –

Profumo di cannella che mi invade le narici, lo stesso, sempre lo stesso di quando ero un ragazzino. Dolce e familiare.

− Ero un cretino e un codardo, Rin. –

− Forse un po'. –

Alzo una mano, la appoggio contro il collo bianco di Suna, esile e flessuoso, infilo le dita fra i capelli più corti sulla nuca.

− Pensi che potresti innamorarti di nuovo di me, come al liceo? – mi chiede, cercando i miei occhi.

Razionalità che mi abbandona.

− Non credo di avere mai smesso. –

Sorride appena.

− Nemmeno io. –

Non so se sono felice, so solo che mi sembra di fluttuare nel vuoto.

Rischio.

Chissà dove andrò a finire.

Ma mentre cado, giù, giù, sempre più giù, alla fine inizio a chiedermi se anche cadere non sia in sé come essere fermi.

Se cadi e non atterri mai, è come se fossi atterrato sull'aria stessa.

− Posso baciarti? – mormoro.

"Non qui davanti a tutti", mi aspetterei.

− Solo se mi prometti che non sarà l'ultimo. – risponde ridendo appena.

Annuisco.

− E mi prometti che non mi abbandonerai mai più. –

Annuisco un'altra volta.

− E che combatterai per me, la prossima volta che penserai di non meritarmi. –

"La prossima volta" sono tre parole che mi piacciono così tanto.

− Te lo prometto. –

− Allora puoi baciarmi. –

Mi sporgo, punta del naso che sfrega contro punta del naso, labbra che strofinano altre labbra, sapore che amo, che riconosco, che non mi sembra di aver mai lasciato.

Mi stacco che mi sembra di essere davvero da solo con Rin, senza gli altri, senza nulla attorno.

− Penso di amarti ancora, Rin. – mormoro, appena.

Sbatte le palpebre.

− Penso di farlo anch'io. –

Mi piace, vivere all'ombra.

Mi piace non rischiare, mi piace la razionalità e le cose che conosco, mi piace la sicurezza e mi piace la solitudine.

Ma quando mi guardi, Suna Rintarō, creatura letale dagli occhi verdi, inizi a farmi credere che l'ombra che voglio sia solo una menzogna.

Quando mi guardi, mi piace vivere al sole.

Quando mi guardi, non m'interessa se cado o se faccio cose che non hanno senso, quando mi guardi sono in pace nel rischio che corro, quando mi guardi non vedo l'ora di vivere.

Mi piace, vivere al sole.

Ma mi piace solo perché il mio sole sei tu.

   
 
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