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Autore: JSGilmore    02/03/2022    1 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
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Oltre il parapetto dello Yacht, l’acqua scura ondeggiava nella calma e i gemiti sommessi del mare si acquietarono nelle mie orecchie.

Con il valzer che proveniva dall’interno della sala, con l’aria frizzante sulla pelle delle braccia, con le luci soffuse che sfumavano in una notte piena di stelle, era tutto così tragico e sconvolgente.

Sentivo i muscoli delle mie spalle rilassarsi, come se stare da sola con Edoardo fosse un sedativo. Il suo volto era così cereo da sembrare trasparente. Aveva gli occhi bassi cerchiati dalla notte e un sorriso misurato. Anche lui ammirava il lieve incresparsi dell’acqua. «La toscana è così piena di vita. Vorrei poterne assorbire un po’ e portarla sempre con me.»

Dentro avevamo ballato e mi aveva raccontato della sua vita ad Amsterdam. A settembre avrebbe cominciato l’università, Storia dell’Arte ma non avrebbe mai abbandonato lo studio della letteratura classica. Mi parlò della passione travolgente tra Enea e Didone, di come avrebbe voluto vivere un amore che scuoteva dal torpore dell’inattività, un amore che poteva farlo tornare bambino, a quando ignorava tutto del tempo.

Avevo smesso di respirare. Una visione angosciosa; lui in gondola per i canali, assieme a una ragazza della sua stessa estrazione sociale, bionda come lui, altrettanto luminosa. M’immaginai in quei posti freddi insieme a Edoardo, ma non c’era speranza che ciò potesse accadere, ero incatenata alla mia isola in maniera irreversibile.

Appartenevo a quei luoghi, a quei paesi di pescatori, con le case pastello che si ergevano su scogli a strapiombo sul mare. A quei borghi medievali con stradine lastricate di pietra bianca, casette strette e vicoli sempre in fiore. Ero legata ai boschi, all’odore della terra umida anche d’estate, ai mirtilli, ai rovi di more che costeggiavano le strade.

«Il sole», spiegai, «Ha delle proprietà miracolose. Sai già quando tornerai nella tua città?»

Aveva una specie di malumore addosso, insensato, tipico di chi possedeva già tutto e non si permetteva di desiderare mai davvero niente. La sua faccia tonda si rabbuiò. «Tra due giorni riparto. Mi mancherà davvero questo posto.»

Due giorni sembravano ancora un’eternità. «L’Elba fa quest’effetto. Fa innamorare.»

Parlavamo da tutta la sera. Gli avevo raccontato della mia famiglia e di mio padre, dei suoi occhi neri e scintillanti, delle sue compite maniere. Gli raccontai che arrivavamo a fine mese a stento, che mia madre era la più povera delle madri, che era esausta, stanca e alle volte dominata dal vuoto totale. Ero l’estensione del vuoto di mia madre, di quel suo sonno, di quel suo niente. Di quell’abbattimento brusco che arrivava a una certa ora del giorno e poi non se ne andava più fino alla sera. Gli raccontai del cappello di paglia di Elia, di come alle volte, mentre era stato via, lo indossavo per non sentire più la mancanza di mio fratello. Gli dissi di non aspettarsi mai niente da me.

Chissà se l’aveva capito che vivevamo nella miseria. Questo pensiero, forse, non l’aveva neppure sfiorato: vedeva solo ciò che voleva vedere; era in vacanza, e quindi ufficialmente in tregua dalle cose sgradevoli. Vivere all’Elba era come vivere in una sospensione temporale, in una quiete perenne, che metteva in pausa ogni cosa, un posto dove persino la decomposizione e la morte potevano aspettare. E in effetti lui sembrava in uno stadio di decomposizione dell’animo parecchio avanzato.

Fra due giorni sarebbe ripartito. Su quella nave splendente, che non sembrava presentare alcun angolo opaco o bordo scheggiato, o una cima allentata. Non mi sarei dovuta attaccare a uno straniero, a uno sconosciuto dalla pelle così profumata di miele.

Se ne sarebbe partito anche lui, perché nessuno rimaneva mai, nemmeno Elia era rimasto. Con quel mare che gli scorreva addosso, anzi dentro. Un oceano bellissimo abitava dentro di lui, fluiva e rifluiva con correnti forti che trasportano tutto in superficie, che ti sbattono ovunque, ma si portano anche dietro un mucchio di veleni e rottame che poi rimangono come scorie, anche quando il mare si prosciuga.

Edoardo si morse le labbra carnose. «A cosa pensi?», disse e si voltò verso di me, a sistemare una ciocca di capelli bruni dietro il mio orecchio. Le sue dita di madreperla, fresche, mi accarezzarono la guancia e mi fecero sussultare.

«Niente, niente di importante.»

«Per favore, vorrei saperlo.»

«Niente, t’ho detto.»

«Fai sempre così?»

«Così come?»

«Smetti di parlare di punto in bianco. Ho bisogno di sapere cosa pensi...»

«Stavo pensando a mio fratello. Prima ho buttato un occhio nella sala da poker, e stanno bevendo come spugne. È ridotto male. Elia ha un problema con l’alcol.»

«Magari basterebbe solo, che so, smettere?»

«Sì, scommetto che non ci abbia mai pensato...»

Tirò un sospiro arrendevole e girò la testa in direzione di un orizzonte nero. Rise. «Non ne ho mai conosciute come te.»

Un calore intenso, a partire dalla bocca dello stomaco, si diffuse in tutto il mio corpo insieme a un panico irrazionale. La fortuna era che non mi stava guardando. «Sono rimasto subito affascinato da te, questa mattina. Il modo in cui sei salita qui, con naturalezza, solo per complimentarti con me... Mi ha scosso», agitò la testa, «E prima, a cena, con tuo fratello, come gli hai tenuto testa, meglio di un adulto. Una che sa quel che vuole non si trova in giro facilmente.»

Le sue parole mi sorpresero, ma furono in un certo senso inappaganti. «Non so affatto cosa voglio... Sarei di una noia mortale, altrimenti.»

Fece finta di non avermi sentita. «Dove posso trovarti, domani?», chiese e il suo sguardo prese a guizzare insistente sulle mie labbra. Ero disorientata da tutto quel suo modo inquisitorio di focalizzarsi sulle mie espressioni. All’improvviso, la mandibola, il mento e in generale la parte inferiore del cranio divennero troppo pesanti, insostenibili. Avvertii il suo fiato fresco su di me, oppure era solo il vento. «Domani? Non lo so», sussurrai.

«Rachele...», i ciuffi dorati alla base della nuca si incurvavano delicati sul collo teso come piume di cenere, «Se non ricordo male...», socchiuse le palpebre bianche e delicate, così vicine che avrei potuto contarne le pieghe. «Ho vinto qualcosa di magnifico questa sera...»

I suoi occhi intensi mi scrutarono seri e poi mi baciò; mi scontrai con la durezza dei suoi denti, con il sapore cupo del vino. Le sue labbra morbide erano pasta di zucchero. Un calore intenso mi salì fino alle guance, e le sue dita mi sfiorarono l’incavo del collo. Ero un falò che sprizzava in alto scintille che morivano nell’oscurità. Mi squagliavo in quel bacio tremulo, nel crepitio di quegli schiocchi dolci e sempre più decisi. Le labbra pizzicavano, andavano a fuoco. Quel ragazzo così diverso da me, così diverso da chiunque avessi mai conosciuto, era entrato in contatto con il mio corpo come nessuno prima d’allora...

Una voce roca ci sovrastò. «Non la toccare! Razza di...»

Un cameriere scivolò e volarono bicchieri di champagne e tartine al salmone; un vassoio di metallo si schiantò a terra e rotolò ai miei piedi. Elia emerse dalla notte, gli occhi ciechi e infossati, afferrò Edoardo per il bavero della giacca e lo scaraventò a terra, facendolo cascare direttamente sul cameriere, che giusto un attimo prima stava tentando di rialzarsi. Sulla bocca incurvata di mio fratello spuntò una macabra soddisfazione.

Ebbi un mancamento e una dolorosa fitta alle tempie. Comparvero l’ammiraglio Janssen e i signori Ercolani, tutti sotto shock. Sua madre aiutò Edoardo a sollevarsi in fretta, con una mano premuta sul cuore. «Tesoro, o santo cielo, va tutto bene?»

Edoardo si tastò la faccia e dopodiché i denti, come per accertarsi che fossero ancora lì; fissò Elia con stupore, benché nemmeno in quell’occasione sembrasse maldisposto nei suoi confronti. Dal naso prese a colargli del sangue vischioso e brillante. «Sì, solo un malinteso... Stavamo giusto chiarendo, ehm...», il cameriere si defilò sotto lo sguardo furente della signora Ercolani. Provai un terribile imbarazzo, senza peraltro saper dire per chi. L’ammiraglio Janssen si accese un sigaro.

Elia era coperto da un velo di sudore come brina sulle auto nelle mattine d’autunno. Sulla pelle avvertivo il gelo e le mie spalle sussultarono in preda a spasmi involontari. Mio fratello non mi guardava e la sua corporatura massiccia in mezzo a quella gente era d’un tratto così inadeguata... Nonostante l’abito da sera, aveva la sua solita aria un po’ selvaggia e un po’ da sbruffone. La signora Ercolani serrò le labbra, che si fecero così sottili fino a quasi scomparire. Ci lanciò uno sguardo fermo, con gli occhi stretti. «Voi due! Fuori da qui!»

«Mamma...», poi continuò a dire qualcosa in olandese. 

«Ma guarda come ti sei ridotto figlio mio, come un... miserabile», la signora Ercolani quasi piangeva dalla disperazione.

Il signor Ercolani, quando parlava, sebbene fosse olandese e non capisci un accidente, mi metteva soggezione. Avanzò di un passo e scrutò Elia e quel suo ghigno arrogante; strinse i pugni e le tempie iniziarono a pulsargli; gli occhi erano due palle da biliardo e sembrava molto accaldato. «Ora ti scuserai con mio figlio e con mia moglie per la figura barbina che ci stai facendo fare davanti ai nostri clienti. Altrimenti, quanto è vero iddio, ti strozzo con le mie mani...»

La vista mi si appannò e un calore soffuso mi corse lungo le guance. Le gambe mi stavano per cedere. Era difficile ascoltare le parole del signor Ercolani; in effetti, era difficile ascoltare qualcos’altro che non fosse il silenzio indignato dentro la mia testa. Elia non si sarebbe mai scusato, piuttosto si sarebbe fatto uccidere a manganellate.

«Pa stop met deze boer!», Edoardo aveva il labbro inferiore tumefatto, un sopracciglio spaccato da un taglio profondo da cui colava il sangue, scuro come inchiostro secco. Mi sentivo in colpa come se l’avessi picchiato io. «Papà...»

Il signor Ercolani si infiammò con indecenza, ci guardava come se avesse voluto succhiarci la testa come si faceva con le triglie. «Hongerdood, morti di fame.»

Elia lo osservava con un’irritante combinazione di pietà e divertimento.

«Elia», mormorai, «Perché non chiedi scusa e la facciamo finita?» Le ombre scure sotto i suoi occhi erano così scavate che pareva avesse gli occhi pesti dalle botte. Lo sguardo era vacuo e i capelli gli ricadevano indomabili sulla fronte. Mi guardò con una stanchezza micidiale. «Non ora, sorellina. Ne riparliamo a casa.»

Il signor Ercolani puntava gli occhi in quelli di mio fratello con una determinazione ferrea e testarda. «Non scenderai da qui finché non...»

«Papà, adesso basta!», tuonò Edoardo e il risvolto autoritario nella sua voce mi pietrificò, «Non tratterai i miei ospiti in questa maniera... Siamo stati entrambi avventati. Avrei dovuto chiedere a sua sorella il permesso, prima di...ecco... prima di baciarla.»

Edoardo mi guardò. Fu in quel momento che presi realmente coscienza del fatto che le nostre labbra si erano toccate; il suo bacio mi aveva colta di sorpresa, perché non avevo mai preso in considerazione l’idea che qualcuno avesse mai potuto voler baciare me. Nelle foto ero insignificante con un so che di brutto. Un mento sfuggente e guance un po’ troppo pesanti. Ma con Edoardo potevo perfino fingere di essere bella. Mi bastava crederlo intensamente, e apparivo come volevo, di una bellezza che aveva più a che fare con lo spirito che con il corpo. Si inumidì le labbra e si avvicinò a me. «Ti ho dato fastidio, Rachele?»

Con il braccio, Elia mi portò dietro di sé. Avvertii la sua corporatura potente come uno scudo. «Stalle lontano, o questa volta per te finisce male sul serio.»

Filippo arrivò giusto in tempo, in mano un piatto di gamberetti e olive. Disse qualcosa ai signori Ercolani, parole il cui senso generale mi disorientò; riusciva a convertire alle buone maniere chiunque e per questo, ci lasciarono tornare a casa.

Quand’era piccolo, Elia si appendeva alla sbarra di ferro dove passava il filo per stendere i panni e si lasciava penzolare per ore; infilava la mano e tutto il braccio nella bocca nera di un tombino, io col batticuore gli gridavo di stare attento, come se qualcosa di oscuro e rapido come miliardi di scarafaggi potesse corrergli sulla pelle e assalirlo, morderlo.

Mi sembrava sempre di andare in contro a qualcosa di terribile che, pur esistendo da prima di noi, era sempre e solo noi che aspettava.

Presto mi accorsi che Elia era forte, così forte che pareva fatto di un minerale impossibile anche da graffiare. Gli piaceva andare verso il terrapieno della ferrovia, raccogliere i sassi tra i binari, lanciarli e studiarne la traiettoria; era come se puntasse a colpire i volatili. Dentro aveva qualcosa che doveva sfogare a tutti i costi. L’origine del disastro era nostra madre che, all’apparenza calma e accomodante, andava in fondo alla sua pazzia senza fermarsi più e ci distruggeva tutti.

Filippo ci riportò a casa, sotto un cielo plumbeo; ad accoglierci, ci fu la luce calda e miracolosa del terrazzo. Elia era accodato dietro di noi, un’ombra dondolante inghiottita ancora dal buio, di cui percepivo il fragore dei pensieri. La chiave nella serratura produsse un suono metallico e nel corridoio tutto sfumò nell’oscurità. C’era un caldo da spalancare le finestre.

Nostra madre era in piedi in salotto, sotto la luce tremolante di una lampada; dalla camicia da notte trasparente si intravedeva l’alone scuro dei seni. Era tutta disfatta: la sua pelle era un cencio, il suo corpo era arato, sdrumato dalla fatica senza essere più capace di piangere. Non aveva più niente da fare lì, ma ci restava. Parlò con voce stentorea e impersonale. «Sudici...Tornare a quest’ora della notte, in questo stato... Sudici, ingrati, mascalzoni...»

«Ma’, vai a dormire», disse Elia.

Mamma mi si avvicinò con odio e mi annusò, come se sperasse di odorare del marcio. Il suo sguardo si fece bianco come le uova dei ragni. «Questi non sono più i miei figli, Rachele. Non sono più i ragazzini che ho cresciuto... Glielo spieghi tu, per favore, che non posso più vivere così? Glielo spieghi tu, dato che ormai danno retta solo e soltanto a te?»

«Mamma, mo’ basta!», Elia la spintonò appena, giusto per levarmela da così vicino e mamma cascò di proposito all’indietro, sulla credenza, battendo la schiena. Cominciò a piangere lacrime strazianti. Si raggomitolò su sé stessa, accucciandosi contro il mobile. «Ecco, come mi trattano i miei figli, adesso...Non valgo più niente per loro...»

Filippo mi tremava a fianco. «Ti prego, ma’, calmati, ora. Stenditi sul letto, ti faccio un po’ di acqua calda...»

Controllai che le porte e le finestre fossero chiuse, augurandomi che nessuno venisse a conoscenza di quella scena pietosa. Ero ferma. Ferma per la pena, ferma nel buio, proprio come dentro una bara.

«Ingrati, impostori, voi non siete i miei figli, quelli che ho cresciuto con tanto amore, con tanto riguardo... Siete delle belve affamate...»

Elia andò ad abbracciarla e lei si divincolò come una posseduta: «Stammi lontano!»; Elia la tratteneva in piedi, perché voleva buttarsi sul pavimento, piagnucolava come una disgraziata. Ripeteva che la vita le aveva portato via tutto. Elia la prese in braccio, la portò a dormire e poi si rifugiò nella propria camera. Filippo andò a fumarsi una sigaretta fuori.

Aprii la porta della camera di Elia e lui era sdraiato lì, al buio, sul letto, con le ginocchia al petto in un’inquietante posa di un uomo morente. Quelle spalle e quei dorsali, di solito così resistenti e impregnati di sudore che sotto il sole violento sollevavano casse d’acqua, casse di frutta, barili, ora erano prostrati allo sfinimento. Quanto gli costava prendersi cura di noi e di nostra madre.

Fu in quell’esatto istante che gli perdonai ogni cosa.




Note.
Sebbene il gesto impulsivo e strafottente di buttare per terra l'olandese, come si fa a non perdonare pressoché tutto a Elia?
A presto,
con tanto affetto,
JSGilmore.
   
 
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