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Autore: Joy    04/03/2022    0 recensioni
E quel vuoto è un abisso che ingoia tutto.
[Scritta per l'Easter Calendar, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Leonhardt, Armin Arlart
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Joy Inblue

Fandom: Attack on Titan

Personaggi: Armin/Annie

Tag: Ambientata nella quarta stagione

 

Scritta per l'Easter Calendar, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia

 

Prompt: X e Y sono in viaggio insieme, assenza, camomilla.

 

 

 

Abisso

 

 

 

È la nave a cullarla con il suo appena percettibile dondolio, Annie non ricorda occasione in cui qualcuno con braccia, fiato e cuore in petto l'abbia fatto; se scava a fondo, il passato sfuma gradualmente fino agli albori dei suoi ricordi, rivestito solo di tristezza, colpa e assenza.

E quel vuoto è un abisso che ingoia tutto.

Al leggero bussare, contro il pannello metallico della porta, si accompagna una voce gentile che le chiede il permesso di aprirla.

Rimane in silenzio, per quella che normalmente è una formalità atta soltanto a sottolineare la cortesia non dovuta di chi l'ha pronunciata: nessun eldiano ha mai meritato il rispetto dei propri spazi: nel ghetto di Marley era la prima cosa che veniva loro insegnata, e lei è sempre stata brava a imparare le lezioni.

“Annie, posso entrare?”

Insiste.

In genere non chiedono il suo permesso, qualunque cosa decidano che debba sopportare, se l'è sicuramente meritata, del resto lei ha una maledizione a contaminarle le carni, quale altra scelta avevano i suoi istruttori, se non indirizzarla verso l'espiazione?

Verso l'abisso?

No, lì ci si è rifugiata da sola: se è abbastanza profondo riesce a smettere di sentire, e non fa più molto male vivere così, o non vivere così.

Alla voce pacata segue uno scricchiolio di cardini arrugginiti, l'uniforme del Corpo di Ricerca riempie la cornice della porta.

Non è a Marley. Già.

“Non voglio disturbarti” mormora Armin, incerto se muovere o meno qualche passo nella sua direzione. “Volevo solo vedere come stavi.”

“Sto bene.”

Se la risposta fosse stata diversa, sarebbe stata un intralcio per tutti -il biasimo è peso da sopportare, alla lunga-, e poi nessuno vuole la verità, ciò che desiderano è solo la conferma di non doversi preoccupare per lei. Un pensiero in meno.

“Onestamente non riesco a crederlo, Annie” replica lui, avanzando lentamente. Ha un'espressione seria che gli tira sulle labbra, ma non sembra arrabbiato con lei. Curioso come il rapporto tra causa ed effetto segua una logica diversa sul volto di Armin. “Hai incassato un colpo terribile.”

“Non è la prima volta” fiata. “E comunque non farebbe differenza.”

Non risponde, il suo sguardo si offusca mentre esita per qualche secondo, si rigira tra le mani una tazza dall'aria vissuta.

“Ti ho portato una camomilla” mormora infine, posandola nell'apposito supporto sul comodino. “Ti sentirai meglio dopo che l'avrai bevuta.”

Implicherebbe che lei sia capace di sentire.

A volte vorrebbe farlo, è per questo che lui le piace, perché Armin sembra sentire tutto, ma stranamente non ne viene ucciso e lei vorrebbe chiedergli come fa, e se sia facile, se sia bello provare ogni emozione come fanno coloro che non hanno colpe a insudiciargli il sangue.

Ma in realtà non sa nemmeno cosa significa stare meglio o bene, non sono mai state cose per lei.

Con l'abitudine al dolore, alla paura e alla solitudine, la felicità è rimasta una sconosciuta.

Non sa come sia essere felice, non ha mai provato la gioia, non la riconosce nemmeno quando la vede negli altri, le sembra euforia fuori luogo, e non le importa di toglierla -lei del resto ne ha sempre fatto a meno-, semplicemente non esiste.

Come un abisso fatto di niente.

Volge la testa sul lato opposto, perché se lo guarda, ha quasi l'impressione che lui possa capirla e non vuole. Anche se si è ficcata nell'abisso, alcune cose rimangono spaventose.

“Coraggio, prova soltanto con un sorso” le proporre lui, prima di sedersi sulla sedia di fianco al letto e posarle una mano sulla spalla.

Sussulta, non riesce a trattenersi, e lui la stringe appena, incoraggiante.

Non esiste la felicità, però sente una sensazione calda nel petto, quando la mano di Armin le scivola dalla spalla scorrendo sulla sua pelle fino a raggiungere la mano.

“Piega il braccio solo per pochi istanti, allora” le dice stringendo le dite tra le sue e scostando l'arto teso dal fianco ferito. “Lasciami vedere questa lacerazione...”

“Non importa.”

È automatico, non deve neanche sforzarsi di parlare, è l'innesco dietro il quale si è trincerato il suo dolore: non è importate ciò che succede a lei, conta la missione, il traguardo.

L'espiazione, anche se non ha commesso il peccato, ma alla fine che differenza fa?

Lei con quel sangue malato c'è nata, e ciò che ha fatto per epurarlo la condanna ugualmente.

“Guarirò presto.”

La mano di Armin si posa sul suo ginocchio: sente caldo anche lì.

Sente?

“Quando è stata l'ultima volta che ti hanno curato una ferita?” le chiede.

Sente.

Qualcosa gli punge gli angoli degli occhi, il soffitto bianco della cabina sfuma: la sua vista è acquosa.

Il materasso si piega sul lato destro, la mano scompare dal ginocchio e riappare sulla sua guancia.

“Annie?”

È il suo pollice a tracciarle un percorso sul viso, altrimenti nemmeno le sue lacrime saprebbero dove andare.

E invece seguono quella dita che indicano la strada, finché non si ritrova il volto completamente bagnato e un sapore salato che non conosceva, penetrargli dagli angoli delle labbra tese.

È talmente strano che non sa più come buttare fuori l'aria che i suoi polmoni continuano a incamerare, e sì che dovrebbe essere automatico, ma ha qualcosa che le blocca gola e lo sterno.

“Sei stata forte abbastanza” commenta piano.

E il suo volto è ora solo umido e le dita di Armin bagnate.

Sciolgono qualcosa dentro il suo petto, quei nodi stretti con cui ha legato ogni sua emozione, perché scivolando nell'abisso quella corolla di petali aperti sarebbero stati tranciati di netto, ed era meno doloroso impedirgli di sbocciare.

E adesso da quel bocciolo avvolto di filo spinato esce solo un singulto, nessun fiore.

Un singhiozzo le squassa il torace e le fa dolere il fianco, e non sa cosa significhi finché il braccio di Armin non s'insinua sotto le spalle, sollevandole la schiena e guidandola contro di sé.

“Puoi farlo, sai? Ne abbiamo bisogno tutti.”

Anche lei?

Il suo viso è di nuovo bagnato, le lacrime seguono ancora la stessa strada e se ride quando la investono d'odio, allora può piangere se quello che lui le scaglia contro è amore.

“Voglio smettere di combattere” confessa alla sua spalla coperta dalla divisa. “È l'unico desiderio che non ho mai smesso di sentire.”

La mano di Armin scorre su e giù per la sua schiena: adesso sente anche quella. Fa male.

“Lo desidero così tanto che i precedenti possessori si sono dovuti arrendere” tira su col naso e sente le dita che le accarezzano i capelli. “Il Femmina mi ha ascoltato, rinchiudendomi nel guscio.”

L'ha rinchiusa nel suo grembo, lei che una madre non l'ha mai avuta.

Uscire è stato come nascere una seconda volta.

Della prima ricorda solo l'aspettativa, la pretesa, gli obblighi senza mai una fine, se non in una condanna mascherata da traguardo.

“Va bene” le dice Armin, “va bene. Non devi più combattere se non vuoi.”

Ha mani calde che le asciugano le guance; non hanno paura di immergersi nell'abisso.

“Non c'è niente di male a rinunciare” continua, tenendola stretta senza lasciarla andare.

“E non ci sono colpe da espiare. È sempre stata solo convenienza politica.”

Ha le sue labbra contro l'orecchio.

Le sente.

“Adesso puoi scegliere.”

Quella che le sue mani recuperano dall'abisso è un'anima vuota, Annie lo sa -è sempre stata brava a non farsi illusioni-, eppure nel tornare alla luce, fa male lo stesso.

“Non avere paura” mormora Armin.

È per quel calore nel petto, che non conosce e la irradia senza bruciare, che forse vale la pena sentire.

Almeno per il tempo che le resta.

 

 

Fine.

  
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