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Autore: MercuryGirl93    04/03/2022    5 recensioni
"Ma lei non lo avrebbe mai ammesso, non gliel’avrebbe mai data vinta. Perché era arrabbiata e aveva bisogno di qualcuno con cui prendersela, con cui sfogare la sua rabbia.
E, lì con lei, c’era solo lui.
-Senti, perché non torni ad ascoltare la tua musica e a fare l’idiota con la tua stupida chitarra e lasci me in pace?!
-Ah, adesso te la prendi con me semplicemente perché hai scoperto di non saper disegnare? - ribatté lui, innervosito dalla situazione.
-Me la prendo con te perché tu mi infastidisci con le tue chiacchiere e io non riesco più a concentrarmi a dovere! - lo incalzò lei, perfettamente consapevole delle cose irrazionali che stava dicendo."
Nel 2014 ho scritto questa one-shot pensando a quanto sia facile perdere la fiducia in se stessi e nelle proprie capacità. La mancanza di ispirazione sa scoraggiare, ma essere smarriti non deve portare ad una resa, ma a una rinascita.
Buona lettura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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No more alone
 
 
Era uno di quei posti lontani dal mondo, tranquillo e silenzioso.
Nella stagione estiva, il grande albero centenario si riempiva di fiori giallognoli, che al minimo soffio di vento svolazzavano leggeri nell’aria, dando l’impressione di essere sul set di un film.
Ed era un piacere stare seduti sulle grandi radici dell’albero, che affondavano nel terreno ricoperto di erba e fiori.
Quel pomeriggio Clelia era lì, perché voleva stare sola, perché le mancava l’ispirazione. E, quando voleva stare da sola e aveva bisogno di ispirazione, quello era il posto giusto per lei. Quello era il suo posto.
Ma quel pomeriggio, mentre osservava il cielo azzurro attraversato dalle soffici nuvole bianche, non riusciva a pensare a nulla. Non riusciva a immaginare niente di niente. Ed era strano perché di solito, stare seduta lì, aveva l’effetto opposto.
Abbassò lo sguardo sul foglio d’album ancora bianco, che si beffava di lei e della sua incapacità di disegnarci sopra. Poi guardò le sue dita, lunghe e sottili, con le unghie mangiucchiate per lo stress e i polpastrelli sporchi di nero per essersi rigirata tra le mani troppo a lungo il carboncino. Ma ormai era un’abitudine avere le mani in quello stato, faceva parte di lei. Si sarebbe sorpresa nel vederle diversamente.
-E tu cosa stai facendo qui?
Sollevò il viso al suono di quella voce bassa, roca e vagamente sorpresa.
Lui era lì, a due passi da lei, con lo sguardo annoiato. E Clelia lo studiò con attenzione, come era solita fare con tutti, perché il suo animo da pittrice glielo imponeva.
Aveva i capelli lisci e lunghi, fin sotto le orecchie, di un bellissimo color cioccolato, grandi occhi grigi contornati da sopracciglia folte e selvagge, labbra deliziosamente carnose, ciglia fin troppo lunghe per essere quelle di un ragazzo, un principio di barbetta.
Indossava jeans scuri, una maglia nera consumata e delle scarpe consumate.
La guardava con indifferenza, quasi annoiato dalla situazione, anche se era ovvio che la sua presenza lo aveva in qualche modo colto alla sprovvista e infastidito.
-Sto cucinando una torta, non vedi? - rispose Clelia ironicamente, guardandolo con lo stesso sguardo annoiato che le stava riservando lui.
-Oh, che ragazza spiritosa- borbottò lui, appoggiando per terra la custodia della sua chitarra. Clelia non si era stranamente accorta che la teneva in spalla.
-Sei tu che fai domande idiote- ribatté lei, attenzionando nuovamente il suo foglio. –Secondo te che cosa sto facendo con un album e un carboncino in mano? Dovresti dedurlo con facilità.
-Non mi interessa, francamente.
-E allora non fare domande idiote e lasciami in pace.
E Clelia si illuse che se ne sarebbe andato, ma quando sollevò il viso qualche istante più tardi lo trovò ancora lì, a studiarla con attenzione critica.
Le guardò i capelli lunghi e mossi tinti di un rosso, troppo acceso per essere naturale, che sfumava in un giallo canarino sulle punte, e la ricrescita di capelli nera come la pece sopra la testa. Le guardò il viso pallido, il nasino alla francese, le labbra sottili, gli occhi scuri. E osservò il suo abbigliamento: le sue converse nere rovinate, i pantaloni verde militare pieni di tasche, la canotta nera.
-Credo che tu non abbia capito.
-Ah no? - lo incalzò lei, con sguardo divertito e l’immancabile ironia nella voce.
-No- riprese lui. –Ti stavo chiedendo cosa stai facendo qui, nel mio posto.
La ragazza sollevò le sopracciglia. –Il tuo posto? - ripeté, divertita.
Lui annuì, facendo ondeggiare i capelli castani. –Sì. Vengo sempre qui, è il mio posto.
E Clelia rise, perché era davvero divertita. Si rintanava tra le radici di quell’albero da anni ormai, e non aveva mai avuto a che fare con nessuno, tanto meno con un soggetto del genere.
-Forse avresti dovuto pisciare qui attorno per marcare il territorio prima che io lo monopolizzassi.
-Sei volgare – sbuffò. - Ti sembro forse un cane?
Mugugnò, facendo finta di pensarci su. –Gli somigli vagamente. Sai, dev’essere per via del tuo naso.
Lui la fulminò con lo sguardo. –Spiritosa.
-Lo hai già detto, sei noioso- ribatté lei, ghignando. –Ci sono tante altre cose da lodare in me.
-Ad esempio? - le chiese, scettico.
-Ad esempio, il mio viso angelico, il mio talento artistico, la mia gentilezza innata…
Il ragazzo sembrò meditarci su prima di incurvare le labbra piene in un sorriso. –Gentilezza innata, dici? Credo proprio che il tuo senso dell’umorismo sia l’unica cosa da lodare.
Clelia voleva ridere, ma non gli avrebbe mai dato quella soddisfazione, così strinse il suo carboncino e cominciò a scarabocchiare qualcosa sul suo foglio, fingendo un’espressione concentrata.
-Comunque non scherzavo, poco fa- riprese lui. Clelia sollevò il viso e notò che si stava sistemando a pochi passi da lei, in un’altra dell’enormi radici dell’albero. –Questo è davvero il mio posto, devi andartene.
La ragazza lo osservò mentre appoggiava la custodia della chitarra per terra e tirava fuori lo strumento. Fu in quel momento che si accorse che all’orecchio destro aveva una fila di quattro cerchietti di legno.
-Neanche io scherzavo quando dicevo che dovevi marcare il territorio facendo la pipì qui attorno.
-Chi ti dice che io non l’abbia fatto? - rispose lui, portandosi la chitarra in grembo. La ragazza si sorprese ad osservare con quanta cura e quanta delicatezza la trattava, come se fosse il suo tesoro più prezioso e lui dovesse proteggerlo da chiunque ci metteva gli occhi sopra.
-Non sento odore di pipì.
Lui strimpellò qualche nota, accordando lo strumento. -Ah, quindi hai anche un olfatto sviluppato?
L’ombra di un sorriso fece incurvare le labbra della ragazza. –Sì, e nel tempo libero mi piace annusare le urine altrui, non te l’ho detto?
Quei grandi occhi grigi tornarono a fissarla, ma questa volta erano divertiti e allegri, nonostante lui non stesse sorridendo. –Quindi non te ne vai?
Clelia scosse la testa compiaciuta, tornando a guardare il suo lavoro. –Non ne ho la minima intenzione, mio caro.
-Guarda che devo suonare, eh- la avvertì lui.
-Non mi dai fastidio- disse, facendo spallucce. –Purché tu sia capace di farlo.
-Magari sei tu a dare fastidio a me, non è possibile?
-Assolutamente no, sono adorabile, è impossibile che io ti dia fastidio- rispose lei, scarabocchiando altre linee sul suo foglio.
Lui rise. Aveva una bella risata, sincera e cristallina. Clelia aveva voglia di unirsi a lui, ma era troppo infastidita. Si rintanava lassù per avere silenzio e ispirazione, e quel giorno non aveva nessuna delle due cose.
-Mi dici come ti chiami? - le chiese lui dopo aver strimpellato qualche altra nota e aver canticchiato un motivetto a bocca chiusa.
Quando Clelia si voltò, lui le stava rivolgendo un sorrisetto seducente e irresistibile.
Ma con lei non attaccava.
-Sentimi un po’, Don Giovanni, possiamo convivere pacificamente, ma non è detto che dobbiamo fare necessariamente conversazione- lo riprese lei, facendogli un sorrisetto furbo.
Il sorriso di lui si smontò in un istante. –Ma ti ha morsa un serpente?
-Sì, guarda- rispose lei, tirando fuori la lingua e indicandogliela.
Lui scosse la testa, reprimendo una risata.
-Non penso di essere in grado di convivere con un’artista lunatica, scontrosa e dai capelli multicolore- borbottò lui.
-Sai una cosa?
-Cosa?
Clelia si sporse verso di lui e lui fece altrettanto, curioso. –Io credo che i musicisti falliti, alternativi e con i capelli lunghi non mi stiano nemmeno simpatici.
Gli occhi del ragazzo si illuminarono di divertimento. -E allora come mai non vuoi andare via, se non ti piaccio nemmeno?
-Spirito di adattamento.
A sorpresa per Clelia, il ragazzo scoppiò a ridere di gusto.
-Comunque, raggio di sole, io sono Riccardo- disse lui, poi tornò alla sua chitarra.
Non tentò più di fare conversazione, non la disturbò.
E lei tornò a fare quello che stava facendo prima: osservare il cielo senza pensare a nulla, perché quel giorno non riusciva a fare nient’altro.
Aveva la testa così distante che non sia accorse nemmeno di lui che cantava e suonava con passione. Non si accorse neanche di come quei grandi occhi grigi fossero puntati su di lei con curiosità.
 
Quattro giorni dopo, Riccardo era appoggiato al grande albero, con le cuffie alle orecchie. Il volume era così alto che non riusciva ad ascoltare nient’altro che il suono della chitarra elettrica, della batteria, del pianoforte e della sua voce graffiata e aggressiva.
Si legò i capelli alla base della testa, perché quel giorno c’era vento e detestava quando quei puzzolenti fiorellini gialli si infilavano tra i suoi capelli lunghi.
Forse erano troppo lunghi. Forse doveva tagliarli.
O forse no.
Il suo mp3 passò alla canzone successiva, che di base aveva gli stessi strumenti ma teoricamente doveva essere diversa… eppure era uguale alla precedente. Era ugualmente noiosa, vuota, priva di emozioni. Era solo rumore, non comunicava niente nemmeno a lui che l’aveva scritta, suonata e cantata.
Non era musica. Non importava i difficili accordi, le note alte che riusciva a raggiungere con la sua voce, il sound innovativo… Se la canzone non comunicava emozioni, non ti emozionava, non era musica. Non valeva la pena di essere ascoltata.
Deluso da sé stesso, si appese le cuffie al collo e spense l’mp3.
Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal vento.
-Buongiorno!
E fu costretto a riaprirli di nuovo, gli occhi.
Sorrise sghembo quando vide la ragazzetta dai capelli multicolore davanti a lui, con la matita sopra l’orecchio e l’album in mano.
Si scoprì felice di vederla. E fu strano, perché lui era abituato a stare solo, per i fatti suoi, senza nessuno che lo infastidisse. Perché quando stai solo per così tanto tempo, poi la solitudine la ricerchi istintivamente, ti viene naturale desiderarla. Perché quando a nessuno importa ciò che fai e che provi, inizi anche tu a fregartene di tutti gli altri, ti isoli. Perché quando gli altri non hanno bisogno di te, anche tu smetti di avere bisogno degli altri.
Ma con lei era diverso. Anche lei era palesemente sola, anche a lei piaceva starsene per i fatti suoi. Anche lei se ne fregava degli altri, si isolava. Anche lei non aveva bisogno degli altri.
Erano entrambi soli.
Forse potevano stare soli insieme.
-Hai marcato il territorio con la tua urina, oppure è sicuro e posso sedermi? - chiese lei prima che lui potesse salutarla a sua volta.
O forse no.
-Condividerò questo posto con la tua fastidiosa chioma colorata; quindi, ho deciso di smettere di urinare qui attorno- ribatté lui, con un ghigno.
-Deve essere un’impresa dura per un’adorabile cagnolino come te.
-Penso di essere in grado di tenermela, non soffro mica di incontinenza- ribatté lui, guardandola storto.
La ragazza gli passò accanto e si sedette tra le radici. Legò i capelli in una crocchia alla bell’e meglio, fissandola con la matita che fino a poco prima aveva sopra l’orecchio.
-Beh, se inizi a fartela addosso, puoi sempre ricorrere ai pannolini.
Se si fosse trattato di un’altra persona, Riccardo avrebbe dato per certo che stesse scherzando. Invece lei, con quei grandi occhi scuri, sembrava essere convinta di ciò che stava dicendo. Anche se scherzava, non lo dava a vedere, non lo dimostrava. E lui non sapeva se fosse il caso di ridere o no.
-Penso che non sia il caso di infilarci in questi discorsi- rispose lui, rimettendosi le cuffie. –Cerca di essere silenziosa come l’altra volta e basta.
-Getti le armi ancora prima di iniziare la guerra- mugugnò lei, mordicchiandosi il labbro. Aveva le labbra sottili, ma stranamente belle e invitanti. –Saggia decisione, anche se pensavo che non volessi condividere il tuo posto con nessuno.
-Ho scoperto di riuscire a tollerarti.
-Sapevo che il mio visetto angelico e le mie lentiggini ti avrebbero conquistato- disse lei, con un sorrisetto fiero stampato in viso.
Riccardo accese l’mp3 e si immerse nuovamente nel suo mondo.
Ma il suo mondo in quel momento era fatto da una musica che non gli piaceva più, che non gli dava soddisfazioni, che lo faceva penare costantemente. Il suo mondo, quello fatto di accordi, testi e note, di gioia di comporre, di libertà di esprimersi, non c’era più. Era scomparso.
Non era più ispirato.
E così osservò la ragazza che apriva il suo album e che tirava fuori dalla tasca dei suoi pantaloni il suo carboncino. Guardò il foglio bianco con aria indecifrabile, avvicinò la bacchetta nera… e poi si fermò. Non tracciò nemmeno una linea.
Quando sollevò il viso lo sorprese a fissarla, ma non sembrava esserne infastidita.
-Dov’è la tua chitarra, musicista fallito? - gli chiese, inclinando la testa di lato, mentre i capelli rossi sfuggivano dalla crocchia.
-L’ho spaccata in testa a uno scocciatore- rispose lui, facendo un sorrisetto furbo.
Lei lo guardò male. Aveva capito che stava scherzando, e non le piaceva. Solo lei poteva scherzare.
-Credevo di essere l’unica persona ad infastidirti.
Riccardo ridacchiò. –Probabilmente sono una calamita per gente fastidiosa, principessa.
-Non chiamarmi così- lo riprese subito lei. –E comunque è un peccato per la tua chitarra.
-Volevi che la spaccassi sulla tua, di testa?
Lei sbuffò, scocciata. –No, è un peccato perché adesso non puoi più suonare- borbottò. –Come farai, mio bel musicista?
Riccardo si chiese se lei lo avesse ascoltato, l’ultima volta. E, si chiese ancora, se magari avesse apprezzato quello che aveva sentito.
Non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo, però.
Fece spallucce. –Pensavo di elemosinare davanti alla chiesa cantando canzoni religiose, così potrò permettermi una chitarra nuova.
Le labbra sottili della ragazza si incurvarono in un sorriso. –Un business interessante- disse, annuendo convinta. –Ma non mi sembri molto religioso.
-In realtà sono ateo- rispose lui con disinvoltura, facendole uno di quei sorrisi da Don Giovanni che gli riuscivano tanto bene e che le ragazze adoravano.
Ma con lei, non attaccava. Non aveva attaccato l’ultima volta e non attaccò nemmeno in quel momento.
-Quindi vuoi approfittarti delle vecchiette con i portafogli pieni di monetine che vanno a messa, furfante.
Riccardo sollevò le mani, come se si stesse arrendendo. –A mio discolpa posso dire che ho bisogno di una chitarra nuova e che non posso fare a meno di suonare.
-Ti assolvo dai tuoi peccati, allora, fratello- ribatté lei, riportando la sua attenzione sul suo album.
Mosse il carboncino in modo confuso, probabilmente tracciando delle linee. Lo aveva fatto anche la volta precedente, ma Riccardo era più che sicuro che allora come in quel momento non stesse disegnando nulla. Lo faceva semplicemente perché non sapeva dove altro mettere le mani.
-Dì un po’: da quanto vieni qui? - le chiese, sorprendendo sia lei che se stesso.
Lei sollevò il viso e lo studiò attenta, riducendo gli occhi scuri a due fessure.
-Perché me lo chiedi? - chiese lei, sospettosa.
-Non te l’hanno mai detto che non si risponde con una domanda?
Lei lo guardò male, ponendogli silenziosamente di nuovo la stessa domanda.
E lui si rispose mentalmente: perché nessuno si dava tanta pena da percorrere il sentiero per raggiungere quel posto, era troppo lontano e con quel caldo era impossibile non stancarsi. Eppure, lei lo faceva, con il solo album in mano, il che voleva dire che percorreva il sentiero non semplicemente per passeggiare ma appositamente per fermarsi lì, a disegnare. E doveva essere un’abitudine per lei arrivare fin lì data la disinvoltura con cui stava appoggiata all’albero, quasi come se si trovasse a casa.
Ma non lo disse.
-Per stabilire chi di noi due conosce da più tempo questo posto e quindi stabilire ufficialmente un proprietario, che domande! - rispose ironicamente, cercando di nascondere al meglio la sua bugia.
E forse ci riuscì.
-Sei un maledetto bugiardo- sibilò lei, fulminandolo con quei pozzi scuri.
O forse no.
Ad ogni modo, sebbene lei sapesse che aveva mentito, gliela diede vinta e rispose: -Da tre anni, Richi caro.
Riccardo storse il naso. –Non chiamarmi così, è orribile- poi si riscosse e rifletté sulla sua risposta. –Io da due e mezzo- borbottò, leggermente deluso.
Lei sorrise vittoriosa, come una bambina che era riuscita ad avere dalla mamma tre caramelle invece di due. –Ho vinto, carissimo- annunciò soddisfatta. –E comunque Richi è un adorabile soprannome.
-Fa molto amichetto gay.
La ragazza ghignò in modo furbo. –Beh, non so nulla di te, potresti anche esserlo.
Riccardo rise per poi concentrare la sua attenzione nel lettore musicale che aveva tra le mani. Se lo rigirò un paio di volte tra le dita prima di rendersi conto che, se avesse avuto un briciolo di coraggio in più, lo avrebbe già buttato nel cestino della spazzatura.
-E’ strano che non ci siamo mai visti prima di pochi giorni fa, non trovi? - chiese, poi. Se non poteva gioire della sua musica allora era meglio parlare con quel tornado birichino.
Ma la ragazza aveva iniziato a guardare il cielo, la testa abbandonata contro il tronco dell’albero, esattamente come l’ultima volta.
A differenza di lui, lei riusciva ad entrare nel suo mondo. E, in quel momento, c’era dentro fino al collo, troppo lontana per essere raggiunta.
Riccardo accese nuovamente il suo mp3 e lo mise a tutto volume.
 
La settimana seguente, Clelia muoveva il carboncino sul foglio e tracciava il profilo di una donna, sentendo in sé una briciola di ispirazione in più rispetto ai giorni precedenti.
Fu solo un attimo. Un attimo di sciocca illusione.
Quello che doveva essere il profilo di una donna, assomigliava di più a uno scarabocchio fatto da un bambino di sei anni.
Strappò bruscamente il foglio e lo accartocciò, tirandolo via. E la palla di carta centrò in pieno la testa di Riccardo, che fino a quel momento era rimasto tranquillo ad ascoltare la sua musica.
-Ehi, principessa, ti sembra il modo? - la riprese, senza troppa serietà.
Il foglio rotolò via, fermandosi accanto ad un cespuglio.
-Non disturbarmi, Richi, non è il momento- rispose lei, perfettamente consapevole di quanto gli desse fastidio essere chiamato in quel modo.
Riprovò a disegnare quello che immaginava alla perfezione nella sua testa. Ma non ci riuscì, ancora una volta.
Nel giro di venti minuti c’erano ben sette fogli sparpagliati per terra, accanto a quel cespuglio.
-Ama la natura che la natura amerà te- rise Riccardo, alla sua destra.
Clelia lo osservò con la coda dell’occhio mentre spegneva l’mp3 e si toglieva le cuffie, mettendosele attorno al collo.
Ormai annoiata dal suo lavoro si voltò verso di lui: -Non dirmi che fai parte di uno di quei gruppi ecologisti, della serie ‘Rispetta il tuo pianeta’ e bla bla bla.
-Assolutamente no, principessa, però non mi piace che giochi con quel cespuglio come se fosse il tiro al bersaglio.
Clelia lo guardò storto. –Magari il cespuglio è entusiasta di farmi da bersaglio, cosa ne sai?
-Oh sì, certo, soprattutto perché non lo centri mai- ammiccò lui, con lo sguardo di chi la sa lunga.
-È pur sempre carta, non dovrebbe arrecare chissà quale danno- borbottò.
Riccardo si alzò e andò a raccogliere le palline di carta accanto al cespuglio. Le portò a Clelia e gliele porse, tenendone solo una per sé. Aprì il foglio d’album accartocciato, mentre Clelia ficcava nella sua borsa il resto dei fogli.
-Cosa rappresenta? - chiese dubbioso, indicando il foglio ricoperto di linee alla ragazza.
La ragazza lesse la confusione, come se le stesse implicitamente dicendo che non sapeva disegnare e che quello era solo uno scarabocchio di qualcuno che si illudeva di saperlo fare.
Clelia si alzò e gli strappò il foglio di mano. –Nulla! - disse, con inaspettata aggressività.
Riccardo sollevò le mani in segno di resa. –Scusami, non volevo essere invadente- le disse, veramente dispiaciuto. I suoi grandi occhi grigi erano un libro aperto per Clelia.
-Beh, lo sei costantemente!
-Ma se non mi hai nemmeno detto il tuo nome, come faccio ad essere invadente? - si difese lui, risentito.
-Lo sei ugualmente! - insisté Clelia. –Ficchi il naso in cose che non ti riguardano.
Riccardo la guardò, sorpreso e offeso allo stesso tempo. –Io avrei ficcato il naso?
-Sì! Non hai il diritto di guardare cose che non ti riguardano.
-Capirai, solo sono quattro scarabocchi, non ho mica violato la tua privacy- ribatté lui, tranquillo. –Stai esagerando principessa.
E Clelia sapeva che lui aveva ragione. Lui non aveva fatto niente di male se non sbirciare in quei fogli che, in fin dei conti, non contenevano niente di particolarmente imbarazzante o personale. Erano solo scarabocchi, tentativi falliti di avviare un disegno.
Ma il punto era che lei era arrabbiata. Arrabbiata perché non riusciva più a trovare la sua ispirazione, perché l’albero l’aveva sempre aiutata e da un po’ di tempo non lo faceva più, perché cercava la solitudine e c’era sempre quel ragazzo lì con lei.
E Riccardo aveva ragione. Aveva dannatamente ragione quando diceva che stava esagerando, gonfiando eccessivamente la situazione.
Ma lei non lo avrebbe mai ammesso, non gliel’avrebbe mai data vinta. Perché era arrabbiata e aveva bisogno di qualcuno con cui prendersela, con cui sfogare la sua rabbia.
E, lì con lei, c’era solo lui.
-Senti, perché non torni ad ascoltare la tua musica e a fare l’idiota con la tua stupida chitarra e lasci me in pace?!
-Ah, adesso te la prendi con me semplicemente perché hai scoperto di non saper disegnare? - ribatté lui, innervosito dalla situazione.
-Me la prendo con te perché tu mi infastidisci con le tue chiacchiere e io non riesco più a concentrarmi a dovere! - lo incalzò lei, perfettamente consapevole delle cose irrazionali che stava dicendo.
Riccardo la guardò. –Sentimi un po’, principessa, prova a crescere un po’ e smettila di prendertela con chi sta solo cercando di aiutarti. Non ti ho insultata, non ho detto che i tuoi disegni sono orrendi, non li ho nemmeno visti, figuriamoci se oso soltanto pensarlo! Stai esagerando perché sei arrabbiata, e non so nemmeno per quale ragione lo sei! - disse, nervoso. –Vattene a casa, fatti una doccia fredda, smettila di ringhiare a chiunque prova ad avvicinarsi a te e, per l’amor del cielo! sistemati quei capelli.
Clelia aveva gli occhi sgranati e la bocca aperta per lo stupore. Non per le cose che aveva dettò, né per il tono che aveva usato… Semplicemente perché aveva ragione. Ogni singola cosa che aveva detto era vera.
E questo la fece arrabbiare di più.
-Ma cosa vuoi saperne tu di me? Non mi conosci nemmeno e provi a darmi consigli? - chiese ironicamente, facendo un sorrisetto subdolo. –Vogliamo parlare di te che ti atteggi da grande musicista, quando in verità sei soltanto un fallito? Probabilmente non sai nemmeno suonarla, la chitarra. Sei conciato come un pezzente e, sai, anche i tuoi capelli fanno piangere, tagliateli!
Lui parve triste di sentire quelle cose pendere dalle sue labbra. -Non stiamo parlando di me.
-Sì, ma dato che ti sei preso la briga di dispensare consigli, perché non posso fare la stessa cosa con te?
-Mi hai detto musicista fallito senza aver mai ascoltato nulla di mio, tu mi stati insultando!
Clelia incrociò le braccia al petto. -Perspicace il ragazzo.
Riccardo la fulminò con lo sguardò. –Sei solo una bambinetta.
Si guardarono, per istanti interminabili. Se i loro occhi avessero avuto i laser, entrambi sarebbero già diventati un mucchietto di polvere.
Clelia lanciò un grido indefinito e marciò via, lungo il sentiero del ritorno, arrabbiata come non mai.
Lo sapeva, era colpa sua, non del ragazzo. Lui era stato solo il mezzo per esternare la sua rabbia.
Dopo aver passato tanto tempo sola, era difficile condividere qualcosa con qualcuno che non fosse sé stessa.
 
Riccardo constatò che ormai era inutile portarsi la chitarra su per il sentiero, perché quando arrivava all’albero non aveva voglia di suonare. Tutto quello che c’era nel suo repertorio non gli piaceva e non trovava l’ispirazione per comporre altro.
Quel giorno, saggiamente, aveva portato con sé anche il suo buon vecchio mp3, che però era pieno della solita robaccia.
Era tutto uno schifo, ultimamente.
Quando si mise le cuffie alle orecchie, notò che lei era appena arrivata e che, senza nemmeno salutarlo, si era seduta accanto a lui.
-Mi dispiace- borbottò, senza guardarlo. –Non volevo insultarti, l’altro giorno. Ho esagerato.
Quando sollevò il viso, Riccardo capì che era sincera, nonostante i suoi occhi scuri fossero ancora misteriosi e inaccessibili per lui.
Fece spallucce, dimostrandosi comprensivo. –Non importa.
Lei scosse la testa, e i capelli rosso fuoco ondeggiarono a destra e a sinistra. –No, davvero, non pensavo ciò che ho detto. I tuoi capelli mi piacciono e non penso che tu sia un musicista fallito.
Riccardo rise, ma non perché lo trovasse minimamente divertente, bensì per la situazione imbarazzante in cui lei si stava lentamente immergendo. –Non sai nemmeno come suono- rise.
I suoi occhi scuri si spalancarono impercettibilmente, come colti alla sprovvista dalla sua risposta. –Beh, non è giusto giudicarti senza averti nemmeno sentito, no?
-Effettivamente…
-E avevi ragione- aggiunse poi. Riccardo aggrottò le sopracciglia. –Devo smetterla di abbaiare contro tutti quelli che provano ad avvicinarsi.
-Pensandoci, anche io avrei potuto trovare un modo più carino per dirti le cose- le disse lui, rivolgendole un sorriso sincero. –Scusami anche tu.
La ragazza annuì, sorridendo tra sé e sé. E rimase in silenzio, in attesa, come se si aspettasse dell’altro. –E..? - chiese infatti.
Riccardo fece una smorfia confusa. –E cosa? Ho detto tutto ciò pensavo.
-Io ti ho detto che i tuoi capelli in verità mi piacciono.
Le sue labbra carnose si incurvarono in un sorriso. –Ah, quindi dovrei dirlo anche io a te?
-Certo! - rispose con tono ovvio.
-Sai una cosa? - le disse, afferrando una ciocca giallo canarino e studiandola con attenzione. –Quello lo pensavo davvero. Li preferirei se fossero tutti neri.
Lei gli colpì la mano, costringendolo ad allontanarla dai suoi capelli.
-Li tingerò tutti di nero quando tu taglierai i tuoi- borbottò lei, incrociando le braccia al petto con un’aria offesa.
-Ma hai detto che ti piacciono i miei capelli- disse lui, inclinando la testa di lato.
Quella ragazza era tutta da scoprire e ogni suo gesto, sguardo, parola era da decifrare. Una sfida, in pratica.
E lui adorava le sfide.
-Ed è così- riprese lei. –Ma penso anche che i capelli corti ti starebbero benissimo.
Riccardo annuì e si strinsero la mano, suggellando il loro accordo.
-Quindi è tutto a posto?
–Tranquilla, anche a me capitano le giornate storte- disse lui, rassicurante. –È tutto ok.
Lei annuì, pensierosa. -È che… Boh, per adesso, non riesco a disegnare nulla…
Riccardo si sorprese nel vedere quanta insicurezza e quanta fragilità celasse quel tornado dai capelli colorati. Con quella frase aveva scoperto di lei molto di più che nei giorni precedenti.
-Mancanza di ispirazione? - ipotizzò lui, con nonchalance.
Ma con quella domanda aveva detto molto di più di quanto si aspettava.
Quel paio di occhi neri di spalancò e Riccardo, con sua grossa sorpresa, riuscì a leggerci dentro con una facilità disarmante. Sapeva perfettamente che cosa stava pensando.
Era sorpresa che lui la capisse, che avesse indovinato al primo tentativo ciò che la tormentava.
E lui, a sua volta, si sorprese perché, alla fine, condividevano lo stesso problema.
Forse non erano poi così diversi.
Sotto il suo sguardo scocciato, Riccardo si sentì improvvisamente in difficoltà.
-Capita anche a me- proseguì allora, come se fosse una spiegazione. -Sono sicuro che sei bravissima
E in fin dei conti lo pensava davvero: con quelle dita sottili non poteva far altro che creare un capolavoro dopo l’altro. Il suo sesto senso era infallibile.
Lei, riscuotendosi dal torpore dello shock, sorrise. E fu il primo vero sorriso che lei gli rivolse da quando si conoscevano.
Riccardo pensò che le fossette che le si formarono ai lati delle guance fossero adorabili e che lei fosse bellissima.
-Adesso non ti allargare, non hai visto nulla disegnato da me- borbottò lei, facendogli una smorfia buffa.
-E allora disegnami qualcosa- disse lui, semplicemente.
Lei lo guardò per qualche istante, come ipnotizzata. –Assolutamente no.
-E perché no?
-Perché tu non capiresti.
Inarcò un sopracciglio. –Cosa, precisamente?
-Quello che faccio, come lo faccio e perché lo faccio. Non capiresti il mio modo di vedere le cose.
-Mettimi alla prova- la sfidò lui, sempre più motivato.
-Non capiresti- ripeté lei, con lo stesso tono usato inizialmente.
-Aiutami a capire.
Ed era più di una semplice richiesta di vedere i suoi disegni, molto di più. Le stava implicitamente chiedendo di farsi conoscere da lui, di liberarsi delle barriere.
Riccardo aveva sembra pensato che tutti avessero qualcosa da dire al mondo, ma i modi per comunicare questo qualcosa erano tanti. C’era chi lo faceva con uno sguardo, con un gesto nella quotidianità, persone che lo facevano con la danza, con la musica, o scrivendo. E persone che lo facevano con l’arte, come lei. Ad ogni modo tutti, alla fine, trovavano il modo di aprire la propria anima al mondo, di comunicare i propri sentimenti.
E poi era questione di punti di vista, perché non tutti arrivavano a comprendere pienamente ciò che si stava provando a comunicare.
Riccardo non poteva chiederle niente di più profondo ed intimo, e lui ne era perfettamente consapevole.
Lei rimase in silenzio per attimi che parvero interminabili, poi si voltò a guardarlo con le labbra sottili incurvate in un sorriso. Un dolce sorriso. Così bello che a Riccardo venne voglia di berlo.
Gli tese una mano. –Sono Clelia.
Lui le strinse le dita sottili, e sorrise.
 
Clelia studiò l’espressione speranzosa di Riccardo, mentre lei ascoltava il frutto del suo lavoro.
-Allora?
Lei mugugnò qualcosa di incomprensibile, cercando il modo più gentile possibile per dirgli che non gli piaceva. La voce di Riccardo era fantastica, calda e dolce come una carezza, il testo era scritto bene e gli strumenti, nonostante lei non ne capisse nulla, sembravano essere in armonia.
Eppure…
-Non ti piace, vero? - le chiese lui, sorridendo tristemente.
Per la prima volta dopo tanto tempo, Clelia si sentiva in difficoltà. Non voleva dire ciò che realmente pensava per paura di ferirlo, di offenderlo, di far crollare le sue speranze.
Riccardo non se lo meritava.
-Non è che non mi piace- balbettò incerta, senza sapere che pesci pigliare. –È che c’è qualcosa che…
Ma lui non la stava ascoltando.
Le sfilò le cuffie dalla testa e spense l’mp3, riponendolo nella sua borsa leggermente abbattuto.
-Magari, - tentò Clelia, motivata a tirarlo su di morale. –Se me la suoni qui mi fa un altro effetto…- disse, accennando alla sua chitarra.
Riccardo osservò lo strumento, come soppesando la sua richiesta, ed annuì.
Si mise lo strumento in grembo e strimpellò qualche nota prima di cominciare a suonare la stessa melodia che aveva sentito poco prima con le cuffie del suo mp3.
Sentirlo suonare la canzone dal vivo, tuttavia, fu addirittura peggio che sentirla registrata. Ma non perché lui non suonasse bene e fosse stonato, bensì per il suo atteggiamento. Si vedeva da lontano un miglio che non aveva entusiasmo, che non gli piaceva o, addirittura, che lo detestava.
Come poteva, la sua canzone, piacere a lei se nemmeno l’autore la apprezzava minimamente?
-Clelia- la richiamò lui, smettendo di strimpellare il suo strumento.
-Sì?
-Dimmi la verità.
Lei sospirò. –In verità non mi piace. Nemmeno un po’.
Riccardo fece spallucce, riponendo con cura la sua chitarra all’interno della custodia. –Hai ragione, fa schifo.
Clelia lo guardò male. –Un barbone che non si lava da decenni e che si mette le dita nel naso camminando per strada fa schifo, quello che suoni tu non fa schifo.
-Ognuno ha la sua concezione di schifo, è una questione di punti di vista.
-Riccardo, smettila- lo riprese lei, sbuffando annoiata.
-No, sul serio, fa davvero schifo- sbuffò lui, questa volta con serietà. –Tutto quello che ho scritto, fa schifo.
Clelia gli mise una mano sulla spalla, tentando di assumere un fare rassicurante. Era strano per lei, non era mai stata in una situazione del genere.
-Penso che il problema principale sia la tua mancanza totale di passione.
Riccardo sussultò, sorpreso per quell’affermazione. –Dici sul serio? Ti ho dato questa impressione?
Lei annuì. –Sì, sembrava che avessi voglia di vomitare sulla tua chitarra.
-Non vomiterei mai sulla mia bambina, la amo più della mia stessa vita.
-Ho detto che mi davi questa impressione, non che tu fossi davvero in procinto di vomitare! - borbottò lei.
-Fa lo stesso- ribatté lui, per poi mugugnare pensieroso.
Clelia lo osservò curiosa. –A che pensi?
-Penso che potresti avere ragione. Dopotutto, non mi piace quello che ho scritto, quindi è ovvio che io lo suoni svogliatamente.
-E allora strappa tutto e ricomincia da zero, scrivi qualcos’altro- disse lei vittoriosa, convinta di aver appena trovato la soluzione al problema di Riccardo.
Lui la guardò triste. –Lo sai che le crisi di ispirazione non valgono solo per le belle artiste dai capelli multicolore?
-Oh…- disse lei, diventando triste a sua volta.
E lei comprese. Comprese che loro due erano molto più simili di quanto immaginasse.
Capiva la tristezza di lui, che non riusciva più a scrivere e a suonare nulla perché gli mancava l’ispirazione, perché anche lei stava attraversando quel brutto momento.
Lo comprendeva.
Ma offrirgli la sua comprensione non bastava.  
-Cerca qualcosa che ti ispiri, allora- lo incalzò lei.
Riccardo inarcò un sopracciglio, scettico. –Tipo?
-Qualcosa di bello e rilassante.
-Ci sono tante cose belle e rilassanti: fiori, paesaggi… Oppure pizza, bionde finlandesi…
A Clelia venne voglia di ridere per la sua espressione da bimbo immaturo e innocente. Era assolutamente adorabile.
Ma, al posto di fargli un sorriso, gli scoccò un’occhiataccia, semplicemente perché lei sapeva che se avesse fatto cadere la conversazione sull’ilare, non avrebbero concluso nulla.
–Hai appena detto cose oggettivamente belle, io parlo di cose soggettivamente belle, qualcosa che piaccia a te! Qualcosa che, solo con uno sguardo, ti fa pensare ‘Cavolo, è stupenda’. Qualcosa che apprezzi così tanto da farti venir voglia di condividerlo con tutti. Sono queste le cose che ti possono ispirare.
-Suppongo che tu non abbia ancora trovato niente del genere, vero?- gli chiese lui, dopo un istante di silenzio. Il suo tono era diventato serio.
-Non ancora. Ma se cominci a cercare, magari trovi qualcosa prima di me.
 
Qualche giorno dopo, Riccardo si ritrovò solo all’albero, intento a strimpellare la sua chitarra. E pensava e ripensava a quello che gli aveva detto Clelia e alla sincerità e intensità con cui lo aveva fatto. Era stata meravigliosa. Ed aveva ragione.                                                                                 
Eppure, non riusciva a trovare niente che valesse la pena di essere preso in considerazione, niente che gli piaceva e trovava soggettivamente bello, niente che lo ispirava.
Era un caso perso. Forse non valeva nemmeno la pena darsi tanta pena per qualcosa che non aveva soluzione. Forse aveva ragione suo padre e doveva darci un taglio con quella storia.
Poi vide arrivare Clelia. I capelli colorati al vento, il viso pallido acqua e sapone spruzzato di lentiggini, le labbra sottili incurvate in un sorrisetto furbo, gli occhi scuri indirizzati verso di lui. Come al solito aveva il suo album in mano e, sopra l’orecchio, una matita che poi avrebbe utilizzato per fermarsi i capelli.
Lo salutò con un cenno della mano e un sorriso, poi si sedette a pochi passi da lui, la schiena appoggiata al tronco dell’albero.
Riccardo la osservò mentre fissava pensosa il foglio d’album bianco e si rigirava tra le dita il carboncino, con i polpastrelli sporchi di nero.
Non c’era niente di più bello che guardarla in questi momenti, pensò.
E, nel momento in cui quei pensieri lo sfiorarono, iniziò a suonare.
 
Intanto, poco distante da lui, Clelia osservava il suo foglio d’album senza avere la più pallida idea di come riempirlo.
Con la coda dell’occhio, la ragazza osservò Riccardo che, da quello che sembrava, aveva preso in considerazione i suoi consigli e aveva trovato qualcosa che potesse scatenare la sua ispirazione. Lo vedeva da come il ragazzo sorrideva, compiaciuto di come le sue dita si muovevano svelte e sicure tra le corde della sua chitarra. Stava suonando con piacere, passione, felice di poterlo fare e di farlo bene, nonostante non stesse eseguendo una vera e propria canzone.
E Clelia si sentì felice, perché sapeva che il merito del sorriso di Riccardo, anche se in parte, era suo, perché era stata lei a dargli il consiglio che gli serviva per potersi rimettere in carreggiata.
E gli piacque quella serie di piccoli dettagli che caratterizzavano Riccardo in quel momento: i suoi capelli lunghi scompigliati, le gambe incrociate, lo sguardo sereno, le dita rovinate dal continuo sfregamento con le corde dello strumento perché si ostinava a non voler usare il plettro. 
Con l’immagine di lui nella testa e la felicità di sapere aveva aiutato il ragazzo in qualche modo, tornò a guardare il suo foglio bianco. Si sentì improvvisamente pervasa da ciò che lei chiamava ispirazione, una sensazione frizzante e delicata che le faceva sentire la testa leggera come una nuvola e le mani precise e accurate.
Senza sapere che cosa stesse disegnando iniziò a tracciare una linea sull’altra, ascoltando il continuo strimpellare di Riccardo e la sua voce suadente che improvvisava un motivetto sulle note appena suonate.
In un attimo si ritrovò davanti una figura, priva di dettagli. Una figura che Clelia stava imparando a conoscere e ad apprezzare.
Si rannicchiò su sé stessa e avvicinò l’album al suo viso, sperando che il ragazzo non vedesse nulla.
E continuò a disegnare.
 
Pomeriggi dopo Riccardo non trovò Clelia seduta tra i rami dell’albero, bensì stesa sul prato, a godersi il tiepido sole del tardo pomeriggio. Aveva gli occhiali da sole sul naso, le braccia abbandonate sulla pancia, la testa sostenuta dalla sua borsa, un’espressione rilassata sul viso.
-Spero che tu abbia messo la protezione solare- esordì lui, con un ghigno stampato sul viso. –Con quella pelle color mozzarella che ti ritrovi ti scotteresti anche con una luce al neon.
Clelia sollevò la testa dalla sua borsa e abbassò gli occhiali da sole quel tanto che gli bastava per poterlo guardare, pronta a dargli una degna risposta con la sua lingua tagliente.
Ma sgranò gli occhi non appena lo vide.
-Cosa hai fatto ai capelli?!- ululò, sotto shock.
Riccardo si passò fieramente una mano tra i capelli castani, che ormai erano corti. –Li ho mangiati, ovviamente.
-Sono… corti- sibilò con una mano sulla bocca, disgustata. 
-Ma se hai detto tu che i capelli corti mi sarebbero stati bene!
Clelia sembrò pensarci su. –Ma infatti ti stanno bene, però devo superare lo shock di non vederti più i capelli di Raperonzolo.
-Non erano così lunghi, esagerata.
-Per il mio standard di lunghezza dei capelli maschili, sì.
Riccardo aggrottò le sopracciglia. –Hai uno standard per la lunghezza dei capelli maschili.
-Perché, tu non ce l’hai per quella dei capelli femminili?
Scoppiarono a ridere, mentre Riccardo prendeva posto accanto a lei.
-Io ho onorato il nostro patto, principessa, adesso tocca a te.
Clelia si mise su di un fianco per poterlo guardare in viso. –Ah, quindi dicevi sul serio tu? Guarda che io scherzavo.
 –Quando un patto viene suggellato da una stretta di mano deve essere per forza onorato- disse lui, risoluto. –E ti ricordo che tu mi hai stretto la mano.
-Quindi devo tingermi i capelli? - disse lei, tastandosi spaventata i capelli.
Riccardo rise, divertito. –Se proprio non vuoi, non ti costringerò a farlo- le disse. –Ma sappi che secondo me ti starebbero benissimo.
Clelia, dopo averlo studiato con attenzione, rotolò sull’erba e si rimise gli occhiali da sole.
–Non vedo né la tua chitarra né il tuo mp3- riprese lei. –Dove sono le tue cose, musicista?
In verità, Riccardo non aveva motivo di rintanarsi fin lassù, dato che non doveva ne comporre né ascoltare la sua pessima musica inveendo mentalmente. Voleva, più semplicemente, vedere Clelia e parlare con lei.
Ma non lo avrebbe mai ammesso.
-Piuttosto, dov’è il tuo album e il tuo carboncino, principessa? - la incalzò. Le osservò anche le mani. –Non hai nemmeno le dita sporche.
Clelia sorrise. -Diciamo che negli ultimi giorni ho prodotto abbastanza da potermi concedere un giorno di vacanza.
-Quindi hai trovato il tuo qualcosa di soggettivamente bello?
-Bellissimo, direi- sorrise lei ancora una volta.
Riccardo si scoprì curioso di scoprire di cosa si trattasse. –Me li farai vedere questi disegni?
Clelia si tirò su e lo guardò con un sorrisetto furbo. –Solo se tu mi dici cosa è il tuo qualcosa di soggettivamente bello.
-E come fai a sapere che ho trovato qualcosa? - fece spallucce lui.
-Stavi componendo, l’altro giorno. Ed avevi la passione che ti mancava l’ultima volta.
Riccardo si scoprì felice al solo pensiero che lei l’avesse guardato mentre suonava. Clelia era così distante da tutto e da tutti che l’idea che lei fosse uscita dal suo mondo per osservarlo lo mandava in estasi. E dire che non l’aveva mai notata.
E si scoprì ancora felice di sapere che la comparsa della sua nuova Musa avesse riportato la sua passione per la musica.
E poi si sentì travolgere dall’imbarazzo, perché non poteva dire a Clelia che era lei, la sua Musa.
-Perspicace, la fanciulla- ridacchiò.
-Quindi? - lo incalzò lei, motivata.
Riccardo mugugnò, fingendo un’aria pensosa. –Non posso condividere i miei segreti con te, mi dispiace.
Clelia parve essere delusa da quell’affermazione, come se si aspettasse che lui si fidasse abbastanza di lei da dirle di che cosa si trattava.
–Oh…- balbettò, incerta.
Il cuore di Riccardo si riempì di tenerezza.
–Però se vuoi ti faccio sentire la canzone- provò a rincuorarla lui, ottenendo l’effetto desiderato.
-Davvero?
-Sì.
Clelia annuì, contenta. –Va bene, domani.
-Domani? - chiese lui, dubbioso.
-Sì, si è fatto tardi e devo andare. Ci vediamo domani?
Riccardo la osservò, preso alla sprovvista. Era la prima volta che lei cercava di assicurarsi la sua presenza, fino a quel momento si erano sempre incontrati per fortuna, per puro caso.
–Domani- ripetè, con un sorriso.
 
Quando Riccardo smise di suonare, Clelia era pervasa di felicità. Poteva toccare il cielo con un dito, se solo avesse voluto. Ma, per farlo, doveva allontanarsi da Riccardo, e non voleva.
-Ti piace? - chiese lui, speranzoso.
-Tantissimo.
Riccardo si illuminò. –Davvero? Non lo dici solo per non frenare il mio entusiasmo, vero?
Clelia scosse vigorosamente la testa. –Assolutamente no, mi piace davvero- insistè lei. –È bellissima.
Lui la abbagliò ancora, con un altro sorriso. –Sono contento che ti piaccia.
Clelia si rese conto che, da quando conosceva Riccardo, era tutto diverso, nuovo. Aveva smesso di essere scontrosa e sgradevole, di sparare a raffica battute poco divertenti, di guardare male tutte le persone che incontrava.
Senza dubbio, era tutto più bello.
Aveva di nuovo la sua ispirazione e aveva trovato qualcuno con cui poter parlare, aprirsi liberamente ed essere sé stessa. Perché Riccardo la comprendeva nonostante fosse contorta, confusa, disordinata nei gesti e nelle parole. E lei comprendeva lui.
Aveva sempre amato quel posto per il silenzio che c’era e non si sarebbe mai aspettata di apprezzare la presenza di qualcuno con cui condividerlo. E, di certo, non si aspettava che questo qualcuno la aiutasse a ritrovare la sua ispirazione.
A nessuno era mai importato nulla di lei, a lei non era mai importato nulla degli altri, e se l’era sempre cavata a testa alta.
Eppure, era bello che a Riccardo importasse.
-Sì?
Riccardo annuì. –Certo, soprattutto perché te l’ho dedicata- ammise lui, leggermente imbarazzato. –Non sarebbe bello se la persona per cui l’ho scritta non la apprezzasse.
Clelia sorrise, commossa.
 
-Ahi! - sbraitò Clelia, dimenandosi.
Riccardo allontanò le mani dai capelli della ragazza, come scottato.
-Scusami, principessa, ma non è colpa mia se hai tutti questi fiori tra i capelli.
Era una di quelle giornate ventose, sebbene ci fosse il sole, e i pochi fiori tra i rami dell’albero svolazzavano nell’aria. Molto di questi, avevano finito per incastrarsi tra i capelli di Clelia, che adesso di dimenava per la poca delicatezza che Riccardo stava usando per toglierglieli.
-Sì, però è colpa tua se mi faccio male, idiota! - abbaiò la ragazza, indispettita.
-Ti ho già chiesto scusa, smettila! - la riprese lui, estraendo un altro bocciolo giallastro.
Clelia sbuffò sonoramente. –Forse avrei fatto meglio a tenermeli tutti in testa.
-Sì, se vuoi assomigliare a un albero in fiore, fai pure.
-Sono troppo chiacchierona per essere un albero.
Riccardo sorrise. –Sono contento che ci troviamo d’accordo almeno su questo punto.
Clelia iniziò a molleggiare sulle gambe, impaziente. –Fa presto- borbottò.
-Farei presto se tu la smettessi di muoverti come se fossi in preda ad una crisi epilettica!
-Spiritoso!
-Forse dovresti sistemare questi capelli- borbottò lui, stizzito.
Clelia si voltò di scatto, facendo ondeggiare i capelli lunghi e voluminosi. Riccardo allontanò di scatto le mani, rischiando per un pelo di colpirla su un occhio.
-Avevi detto che dovevo semplicemente tingerli di nero, tornare al mio colore naturale.
-Sì, ma dovresti accorciarli un po’, sono troppo lunghi- annuì lui.
Clelia lo fulminò con lo sguardo. –Adesso ti stai allargando un po’ troppo- disse, voltandosi nuovamente per permettergli di terminare il lavoro.
Riccardo ridacchiò. –Tanto lo so che alla fine non li tingerai nemmeno.
Le sottili labbra della ragazza si stesero segretamente in un sorriso divertito.
–Certo che siamo una coppia strana.
Riccardo si stupì nel sentire che lei li considerava una coppia. –Come Sherlock e Watson.
-Tu saresti Sherlock?
-Ovviamente.
-In realtà pensavo più a qualcosa come Stanlio e Ollio- ridacchiò lei.
Riccardo si portò una mano al petto, fingendo di sentire dolore. –Così mi ferisci, tesoro.
-Perché?
-Hai una bassa considerazione di noi se ci pensi come una coppia di idioti.
Fece spallucce, tranquilla. –Beh, tu sei idiota davvero ed io recito molto bene.
-Ah-ah, spiritosa- la scimmiottò lui. –Comunque, ho finito, principessa.
Clelia si voltò verso di lui e lo ringraziò silenziosamente, con uno sguardo.
-Oppure potremmo essere semplicemente Clelia e Riccardo- riprese lui, osservandola.
Clelia arricciò il naso, come infastidita. Riccardo la trovò assolutamente adorabile.
-Che c’è? - le chiese con un sorriso.
-Suonano malissimo insieme, i nostri nomi.
Riccardo rise, constatando che Clelia aveva perfettamente ragione: i loro nomi non suonavano per niente bene.
-Suonano male, perché tu vuoi farli suonare male- disse lui.
-Suonano male, perché siamo due lupi solitari- ribattè lei, imitando il verso del lupo divertita.
Ma lui sapeva che lei non lo pensava veramente. Avevano passato troppo tempo insieme perché lei pensasse ancora una cosa del genere. Era impossibile.
-Suonano male, perché per troppo tempo li hai sentiti suonare da soli.
-Suonano male, perché forse non dovrebbero stare insieme- insistè lei, sempre più seria.
Clelia lo guardava con i suoi grandi occhioni neri, senza lasciare trasparire più alcuna emozione. E lui ricambiava con lo stesso sguardo.
Riccardo sorrise. –Hai ragione, suonano male.
-Che io avessi ragione era ovvio.
-Però…
-Però cosa? - sbuffò Clelia.
-Due cose che suonano male insieme possono ugualmente dare vita a qualcosa di straordinario, non è detto che siano destinate a non funzionare- le spiegò lui, con un tono delicato e paziente.
Una scintilla di curiosità si accese negli occhi della ragazza. –Come è possibile?
-Dipende tutto da noi- le sorrise. –È una sfida: dimostrare agli altri che, nonostante siamo apparentemente sbagliati, in realtà stiamo meglio di chiunque altro.
Clelia sorrise. –L’apparenza inganna.
-L’apparenza inganna- ripetè lui. –Brava, principessa.
 
Riccardo stava tranquillamente ascoltando la sua nuova canzone sul suo mp3. Aveva un sorriso stampato in viso e muoveva la testa a tempo, finalmente soddisfatto del suo lavoro.
Di più, al solo pensiero di Clelia, gli venivano in mente fiumi di parole e melodie da provare con la chitarra.
Guardava il cielo grigio e pieno di nuvole con inaspettata felicità, immaginando un paio di occhi scuri e dei lunghi capelli neri, rossi e gialli.
La protagonista dei suoi pensieri giunse proprio in quel momento dietro le sue spalle, ma lui non se ne accorse. Stringeva tra le mani un paio di album da disegno ma, stranamente, non aveva nessun carboncino con sé.
-Ho qualcosa per te.
Riccardo scattò in piedi nel sentire la sua voce, tirando giù le cuffie.
Si pietrificò quando la vide.
I suoi capelli erano… corti. Corti fino alle spalle e neri come la pece, il suo vero colore. E gli sorrideva, le labbra rosse come fragole.
Era bellissima.
Riccardo barcollò verso di lei, come ipnotizzato dalla sua figura. Le sfiorò una ciocca di capelli, e Clelia rise divertita.
-Sono corti- bisbigliò incredulo.
-Sono corti e neri, come li volevi tu- sorrise lei. Poi gli porse i suoi album. –E questi sono per te, li ho fatti io.
Ma che li avesse fatti lei non c’erano dubbi dato che le copertine erano ricoperte dal suo nome in diversi caratteri.
Riccardo li afferrò e iniziò a sfogliarli impaziente.
E, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, rimase pietrificato.
Ogni disegno, all’interno degli album rappresentava lui. In diverse posizioni, con diverse espressioni, ma era lui. Seduto, sorridente, con la chitarra in mano, perso a contemplare il cielo.
Le mani iniziarono a tremargli.
Quando sollevò il viso su Clelia, lei aveva le guancie rosse come due pomodori.
-So che potrebbero risultare invadenti, ma… Insomma, avevo voglia di farlo e l’ho fatto. Più e più volte come vedi- E sorrise, fin troppo imbarazzata.
Riccardo, però, rimase incredibilmente serio. –Ti sbagliavi.
Clelia sgranò impercettibilmente gli occhi, sorpresa. –Su cosa?
-Ti sbagliavi- ripeté lui. –Hai detto che non li avrei capiti, ma ti sbagliati. Capisco. E ti capisco.
Gli occhi scuri della ragazza divennero lucidi per l’emozioni.
-E sono bellissimi- aggiunse Riccardo, come ciliegina sulla torta.
Clelia gli gettò le braccia al collo, e lo baciò. Inaspettatamente, lentamente, dolcemente.
Perché inconsapevolmente e silenziosamente si erano aiutati a vicenda.
Perché lentamente si erano resi indispensabili l’uno per l’altra.
Perché adesso che avevano qualcuno con cui condividere le loro gioie, i loro dolori, le loro preoccupazioni, non si sarebbero più sentiti soli.
 

 
 Cari lettor*, come avevo già raccontato nell'angolo autrice de "La ragazza dei gelsomini" in questi giorni sto rispolverando tutti i miei scritti passati; erano già stati pubblicati su EFP tramite un vecchio account, da cui poi ho cancellato tutti i miei lavori.
Per anni, ho conservato i miei lavori sul computer senza farli leggere a nessuno. 
In quest'ultimo mese, mi sono messa di impegno per restituire una nuova vita ai miei lavori ed ecco perchè ho postato questa One-Shot, scritta in un momento in cui mi mancava davvero l'ispirazione, soprattutto per la scrittura. Credo sia capitato a tutti almeno una volta nella vita di sentirsi bloccati davanti ad una cosa che di solito viene naturale, che sia la scrittura, la lettura, la pittura, la musica, etc... Ecco, spero per tutti coloro che ci sono passati almeno una volta di trovare uno stimolo per ricominciare, così da superare il blocco. 
Spero che il racconto via sia piaciuto: risale al 2014 e ho voluto lasciarlo intatto, per preservare lo spirito con cui lo avevo scritto. 
A presto! 

 
   
 
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