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Autore: FiloRosso    07/03/2022    0 recensioni
Se non siete amanti dei racconti post apocalittici, dei mangia-carne e non amate le imprese stoiche di alcuni sopravvissuti...be' allora questa storia non fa per voi.
-Tutti abbiamo una storia.
La fine del mondo è iniziata, per ciascuno di noi, all'improvviso. Ma non ha spazzato i ricordi del passato.
Ci siamo lasciati alle spalle morti, cari, persone a cui volevamo bene. Qualcuno si è anche sacrificato per darci la possibilità di sopravvivere. Non è giusto dimenticarli così.-
Genere: Erotico, Horror, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
Capitoli:
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  Come un uragano.    (1)             

 

                                            8.

 ◀◀

Sul palco , le gambe metalliche dello sgabello occupato da Kael grattarono il pavimento con un rumore stridulo.

«Cosa siamo venuti a fare qui? Dovremmo tornare alla Jeep.», affondai in una delle tante poltroncine della platea, le braccia lente sulle gambe e lo sguardo distratto rivolto in direzione Kael. Attorno a me, oltre la platea e la mia testa, giravano attorno i loggioni con i loro archi e le colonne e i tendaggi di velluto. Ebbi la sensazione di vedermeli vorticare contro e perciò riportai lo sguardo in basso.

«Non finché quel brutto broncio non sparirà dalla tua faccia.»

Non era di certo portandomi a rovistare l’interno di un vecchio teatro che il mio umore sarebbe migliorato.

Tutt’altro.

Mi passai una mano sul volto sommettendo una risatina irritata. 

«Perché ho l’impressione che questa sia l’ennesima delle tue idee bislacche?»

Kael mimò un sorrisetto e senza rispondere fece scivolare via da un grosso pianoforte nero il telo che lo copriva.

Una nube di polvere si sollevò come l’esplosione di una bomba per tutto il palco.

«Carino», proferii sarcastica, «Sai suonarlo?».

Kael si accigliò e storse un labbro. «No, onestamente.»

Allungai le braccia sulle poltroncine accanto a me e le poggiai su entrambi gli schienali.

Un’espressione pensosa occupò il suo viso. Si tamburellò l’indice sul mento e poi scacciò qualunque cosa avesse pensato. Che diavolo aveva in mente?

Si mosse lungo il palco e il legno scricchiolò appena. Con un gesto svelto, spostò il tendaggio alle sue spalle e sparì dietro il fondale.

Sospirai gettando la testa all’indietro sullo schienale.

«Kael…Ci hai provato. Apprezzo che ti sia preoccupato per me, ma è ora di andare. Sul serio.».

All’improvviso dagli interfoni agganciati agli angoli del palco esplose un brano. Sollevai la testa di scatto.

La musica cambiò da pop a rock e cambiò ancora finché le casse non si zittirono per un istante, poi suonarono le prime note e…

Oh- Santa Madre di Dio.

Per un istante non riuscii a muovermi. Spalancai le palpebre e molto probabilmente anche le labbra si allargarono a dismisura.

Kael aveva addosso una specie di soprabito leopardato e un grosso - enorme - boa di piume fucsia avvolto al collo. In testa, un cappello da cowboy bianco con tante piccole fibbie argento che gli giravano attorno - di un trash unico.

Risi.

Sulle note di Good Night Moon, scese la breve gradinata che divideva palco e platea, serpeggiando fra le poltrone.

«Giuro che se ti avvicini con quell’affare ti do un pugno.»

Mimò un’espressione sorniona e ridacchiò. Quando sollevò le sopracciglia un paio di volte, in una maniera terrificantemente accattivante, per poco non lanciai un gridolino di terrore. Che poi, non era affatto terrore. Mi stavo divertendo, sul serio.

Se non fossi stata così orgogliosa, avrei sghignazzato come una iena.

Arrivò quasi nella mia prossimità ed io sollevai le gambe sulla seduta puntandoci i piedi. Si piantò davanti a me di colpo.

Abbozzai un sorrisetto divertito e provai ad allontanarlo con il palmo della mano «No… Non farlo.», ridacchiai.

«Oh invece si…», si sfilò il boa e lo fece passare dietro la mia nuca, poi mi afferrò le mani costringendomi a sollevarmi.

«Sei veramente…un idiota.» Non riuscivo a trattenermi dal ridere. Tutto quello che stavamo facendo era ridicolo.

Avevamo problemi più grandi a cui pensare, dovevamo…

Mi fece piroettare sul posto e mi ritrovai a fissare la porta d’ingresso. Le sue braccia avvolgevano le mie e fra tutte le cose che potevano attirare la mia attenzione, in quel momento, l’unica che lo fece fu il suo petto premuto contro la mia schiena.

Una parte di me voleva schizzare via lontano un miglio e mezzo da lui, l’altra - quella stupida che amava pensare cose stupide - invece, sentiva le guance bollire e caldo. Tanto, troppo, caldo.

«Un’idiota che ti fa ridere, però.», bisbigliò al mio orecchio.

Alzai gli occhi al cielo e inevitabilmente sorrisi «Touché.»

Le sue dita scivolarono nella mia mano. Mi fece voltare di nuovo. Stavamo ondeggiando. Kael mi poggiò gli avambracci sulle spalle e fissò i miei occhi verdi.

«Ti dona quell’affare», indicai il soprabito scandaloso che indossava pur di deconcentrare il mio sguardo dal suo viso.

Kael abbasso lo sguardo su se stesso e sorrise.

«Anche a te quel boa di piume.», risi.

Fino a quel momento, nessuno aveva avuto così tanta premura per me e per il mio umore.

Non avevo idea del perché Kael se ne preoccupasse tanto, ma…gliene ero grata. Vedere quella bambina morta, e tutti quei cadaveri…No, non ce l’avrei fatta da sola a scacciare quella visione dalla mia testa.

«La prossima volta, il balletto me lo aspetto da te.», ammiccò un ghigno.

Sollevai un sopracciglio e le labbra si incurvarono all’insù «Non succederà, Kael. Lo sai perfettamente.»

Ridacchiò.

«Mai dire mai.»

Ci fu una piccola pausa, ma avevo sempre odiato i silenzi, per cui ripresi a parlare quasi subito. «Credo di non aver mai conosciuto uno così, nel tuo genere. Cioè-», diedi uno schicchero al colletto del soprabito, «-ti sei infilato questo affare e hai fatto quel balletto per…».

«Per toglierti il muso chilometrico che portavi. Dovresti ringraziarmi.»

Dovevo, effettivamente.

Presi un profondo respiro e quando se ne accorse ridacchiò.

«Difficile, eh? Dire grazie, intendo.»

Mi accigliai per un istante «Un po’ come per te dire: Mi dispiace.»

Sorrise e questa volta guardarlo mi inebetì. Dio, aveva un sorriso proprio bello. NO. Schiacciai le labbra perché non potevo concentrarmi su null’altro che non fossero quei pensieri stupidi e avevo bisogno di pensare ad altro.

 «Già…».

Stavo per dire qualcosa, non ricordo esattamente cosa, ma un attimo prima di aprire bocca, il fragore di un tuono ci fece trasecolare.

Un lampo illuminò a giorno l’interno del teatro e il fascio di luce ci avvolse di colpo.

La porta si era spalancata e le ante sbattevano ripetutamente contro le pareti.

Fummo travolti dal vento.

«Ma che cazzo…» Quello non era un semplice acquazzone ma «Una tromba d’aria!». 

Kael si mosse in fretta. Corse verso la porta del teatro ed io scattai dietro di lui.

Facevamo un passo avanti e due indietro: vento e pioggia continuavano ad abbattersi su di noi invadendo l’ingresso.

Mi portai un braccio oltre la fronte. L’acqua che ci schizzava violentemente addosso ci punzecchiava gli occhi costringendoci a chiuderli.

«Dobbiamo raggiungere le porte.», disse.

Una robetta da niente, in pratica.

E ovviamente, quando le cose devono capitolare di male in peggio, il problema si moltiplica per quattro.

 Acqua e vento passarono al secondo posto sul podio dei grattacapi da risolvere.

Il fragore del tuono aveva richiamato uno sciame di belve che, agitate, si erano riversate in strada. La luce le aveva confuse velocemente e notai che si “guardavano” intorno come se avessero perso l’orientamento.

Mi chiesi da dove cavolo erano spuntate fuori: ma lo feci un attimo più tardi perché prima…

Mi lanciai in avanti, le scarpe che scivolavano sul pavimento bagnato mentre Kael si fiondava sull’anta della porta.

In quel brevissimo lasso di tempo, un nanosecondo appena, i miei occhi si incrociarono con quelli di una delle sagome, affamate di carne umana, ferma al centro della strada.

Tutto, attorno a me, rallentò per poi tornare dinamico con una ferocia inaudita. Loro ci avevano sentiti. La belva spostò la testa di lato, nella nostra direzione, e come un onda un ululato terrificante si levò dalla strada, sovrastando lo zampillio della pioggia. Scattò e un attimo dopo decine di piedi correvano nella nostra direzione.

Mi ripresi per miracolo un attimo prima di finire a terra, scaraventandomi di peso contro l’anta e afferrai il battente.

Kael spinse, con le gambe contratte e le braccia tese, l’anta verso la bocca della porta ed io, con molta più difficoltà, feci lo stesso.

La serratura fece un suono secco e poi…tutti quei corpi si abbatterono addosso alle ante facendoci fare un balzo all’ indietro.

La porta tremò e un paio di volte si piegò verso l’interno.

Ero sgomenta e non riuscivo a distogliere lo sguardo dai battenti e dagli spigoli che di tanto in tanto facevano filtrare la luce dall’esterno.

«Reggerà», mormorò Kael passandosi le mani sul viso. Il petto che gli si alzava ed abbassava velocemente.

Avevo il cuore in gola.

Volevo gridare, imprecare, rompere qualcosa, ma non feci nulla di tutto ciò.

Me la sarei presa con Kael, ma onestamente ero troppo stordita dalla paura per dire o fare qualsiasi cosa.

Impietrita aspettai che il mio cuore si calmasse prima di allentare i muscoli.

Kael spostò, di sottecchi, lo sguardo verso me «Non volevo…».

Portarmi qui? Farci rischiare la vita?

Non importava, era successo.

Scossi la testa lentamente, esausta «No, non dire niente.»

Mi allontanai dalla porta e da lui.

Non avevo idea di quale reazione potesse ricacciare il mio inconscio. Per quello che ne sapevo, avrei potuto dare di matto o peggio.

Considerai che starmene lontana da Kael per un po’, avrebbe disinnescato il detonatore dei miei nervi. Così, sorpassai la platea, salii sul palco e mi infilai dietro il tendaggio rosso.

 

Dietro il fondale, apparì un’ampia stanza dalle mattonelle bianche e grandi. Affilati uno accanto all’altro scorgevo almeno quattro tavoli da toeletta con tanto di specchio. Il dietro le quinte del teatro era moderno, nulla a che vedere con i drappi e i tendaggi della sala principale. Attrezzatura, costumi, un paio di camerini e una vera e propria stazione suono in fondo alla stanza erano stati abbandonati lì intonsi.

C’erano un paio di Fomex accantonate ad una parete. 

Afferrai il piedistallo di una delle due lampade e piegandomi cercai l’interruttore.

Con mia grande - grandissima - fortuna scoprii che qualcuno le aveva collegate ad un piccolo alimentatore portatile e nessuno le aveva mai accese perché quest’ultimo era tronfio di carica fino all’orlo.

Le sistemai in modo da far luce per tutta la stanza e le accesi.

Il bagliore giallo naturale inondò le pareti bianche in un secondo.

Sospirai.

Che stavo facendo lì? Perché avevo seguito Kael? Che idea assurda.

Continuai a ripetere bugie a me stessa per un po’, fino a che non mandai al diavolo il mio orgoglio e decisi che, si cazzo! Mi aveva tirata su il morale e seppur fosse uno stronzo e agisse sempre d’impulso, sin dalla prima volta, mi aveva salvata in mille modi diversi.

Forse, alla fine della storia, la vera stronza ero io.

Rabbrividii stringendomi nelle spalle. Ero zuppa e questo, per un momento, infilò un’imprecazione fra i miei pensieri.

Oltre ad attrezzatura e roba per il make up avevo notato dei costumi. Uno in particolare aveva un’enorme gonna a balze rosa e bianche. Forse poteva andare bene lo stesso…

Ma poi, mi immaginai correre per strada vestita da Elisabetta II e be’, il pensiero capitolò lì.

Lasciai andare la plastica che copriva l’abito e cercai altro.

I camerini avevano lunghe tende bianche a fungergli da porta. Le fissai. Magari ne avrei potuta utilizzare una come coperta. Storsi un labbro e spostai lo sguardo dal tendaggio agli abiti di scena. E dagli abiti di scena al tendaggio.

Perché entrambe le opzioni mi sembravano così assurde?

Un brivido mi incurvò la schiena.

Non andava bene. Stavo congelando.

Sollevai un braccio verso la tenda e la spostai con forza sperando che il braccio metallico agganciato alle due estremità si separasse dai ganci e cadesse a terra. Non lo fece, ovviamente.

Borbottai qualcosa ma poi, i miei occhi caddero sul riflesso nello specchio agganciato di fronte a me.

Alcune ciocche di capelli si erano incollate alla fronte per via della pioggia. Le macchie di sangue sulla mia camicetta fradicia, allargandosi, avevano creato ampi cerchi irregolari che sprigionavano aloni giallastri oltre il loro bordo.

Anche la gonna era messa male e zuppa si era incollata alle mie gambe. La pelle incominciava a prudermi.

Si, dovevo decisamente calarmi nei panni di Elisabetta II o sarei morta di freddo e dermatite.

Stavo per muovermi verso la serie di grucce quando…«Sembra che se ne siano andati», Kael apparve dall’altro capo della stanza.

Lo sguardo compunto, quasi colpevole.

«Non muoverò un passo finché non smetterà di piovere.», dissi con una certa stizza nel tono di voce.

Kael sospirò dal naso e per un po’ - un bel po’ - restò a debita distanza.

Scese un silenzio imbarazzante fra noi, rotto solo dallo scrosciare della pioggia sui vetri delle finestre.

Onestamente, non sapevo cosa dire. 

Non potevo dargli colpa di un bel cavolo di niente. C’era un motivo se mi aveva portata lì: lo aveva fatto per tirarmi su il morale. Nessuno lo avrebbe fatto.

«Ho sbagliato.», disse cogliendomi alla sprovvista, «Non dovevo trascinarti qui.».

Presi un respiro e chiusi gli occhi per un momento, «No. No, tu hai fatto bene invece.»

Lasciai perdere i vestiti e mi voltai nella sua direzione.

«Non sarei riuscita a riprendermi dopo…quello che abbiamo visto.», mi passai una mano sulla nuca. Stavo dicendo la verità, ma il disagio che mi procurava ammetterla era palpabile e se non avessi mantenuto il controllo avrei finito per balbettare frasi sconnesse.

Altro silenzio.

Odiavo i silenzi.

«Lasciamoci tutta questa storia alle spalle, ok?», capitolai dando un altro tono alla mia voce.

Non avevo idea di cosa stesse pensando Kael in quel momento ma sembrava veramente dispiaciuto.

«Kael?», richiamai la sua attenzione. Sollevò lo sguardo verso me. «Allora?».

«Si,si. Va bene.» Farfugliò.

Non indagai oltre. Non me la sentii o semplicemente temetti che facendolo lo avrei messo in difficoltà.

Non sempre cosa si pensa va detto.

«Bene.», sospirai.

Tornai a guardare gli abiti di scena poiché l’ennesimo brivido mi aveva scosso persino le budella.

Sentii Kael arrivarmi alle spalle lentamente.

«Monalisa o Elisabetta II?», sfilai dalla pila di grucce i due abiti trattenendoli per un lembo delle gonne e voltai lo sguardo verso di lui.

«Sei fradicia», mormorò con la voce stranamente troppo avvilita. Continuava a sentirsi in colpa e non lo stava nascondendo affatto.

 «Lo sei anche tu.», gli feci notare. «Quindi? Quale?», sventolai le gonne per distrarlo.

Sommesse un sorriso.

Poi allungò le braccia verso le grucce ed incominciò a spostarle.

«Tieni», mi porse un abito da Zar. Un lungo cappotto di daino imbottito, una stola di pelo e un abito stretto lungo fino alle ginocchia. «Questo è meglio.»

Lasciai andare le due gonne e afferrai la gruccia dalle mani di Kael.

«E tu?» gettai un’occhiata rapida fra i vestiti incelofanati «Non c’è un altro Zar? Magari uomo…».

Scosse la testa, «Questo andrà bene.»

Trovò un paio di pantaloni nocciola con le bretelle rosse e una camicia a quadri azzurra e bianca.

«Un…boscaiolo?», sbuffai una risatina «Ti dona, sai?»

Rise. «Che stronza. Sai, ripensandoci, Elisabetta II andava bene.», Cercò di rubarmi la gruccia dalle mani. Con uno scatto fulmineo la portai lontano, con il braccio, dietro le mie spalle.

Kael si fermò per un pelo, un attimo prima che il nostro viso si scontrasse.

Mi respirò sulle labbra e per un lasso di tempo incalcolabile mantenne i suoi occhi nei miei.

Trattenni il respiro… 

 

                                                   ➽

Rallento in prossimità della palizzata di tronchi e travi di legno.

Il cancello si apre lentamente e pigio, quel po’ che basta, l'acceleratore per avanzare all’interno dello spiazzo d’erba.

Capen Hocks è gia in movimento.

Sono le prime luci dell’alba ma trovo gli stallieri con le briglie in mano pronti a raggiungere il recinto dei cavalli. Un paio di guardie sono di vedetta sulla torretta accanto all’ingresso. E poi ci sono le massaie e qualche uomo che con vanghe e carriole si dirige verso i campi coltivati in fondo al ranch.

Joel, Callum ed Antony sono davanti alla porta d’ingresso dell’edificio principale, ma non si sono accorti di me. Li vedo parlare con un uomo, forse uno dei nuovi. 

Spengo il motore e scendo. 

«Karina.» Lorey, un uomo tracagnotto con la testa priva di capelli, mi raggiunge. Sotto i folti baffi bianchi nasconde un’espressione preoccupata.

«Dove sei stata? Eravamo tutti in pensiero.»

Lo guardo senza vederlo realmente. Lo supero e raggiungo il portabagagli.

«Ero a cercare provviste.», Apro la portiera, tiro fuori il fucile e mi porto la sua cinta sulla spalla. Poi mi avvicino uno dei borsoni, sporgendomi all’interno del bagagliaio, e lo raccolgo.

Lorey mi affianca e afferra le altre due sacche.

«M.C. dice che vuole parlarti. Il fatto che tu sia uscita senza permesso e con le sue armi lo ha fatto andare su tutte le furie.». Chiudo l’anta posteriore dell’auto e il mio sguardo incontra quello di Lorey.

«Di ad M.C. che vada al diavolo, ok?» faccio una smorfia e tiro dritto. Lorey resta attonito dietro di me ma non aggiunge altro, né mi segue. Per fortuna. Lo sento parlare con una delle massaie: l’avverte che le due borse sono mie. La donna le prende e si dirige verso il mio alloggio.

La borsa piena di medicinali pesa come un cadavere, ma non me ne curo perché ora ho ben altro a cui pensare.

«…Karina…». Joel mi ha sentita avanzare sul pavimento in cotto della veranda e si è girato di colpo.

Quando i suoi occhi azzurri si scontrano con i miei, io mi sento mortalmente in colpa e lui terribilmente sollevato di vedermi viva.

Lascio cadere la borsa a terra.

Mi corre incontro e le sue braccia cingono le mie spalle nell’abbraccio più disperato che potesse darmi. Scorgo, oltre la sua schiena, gli sguardi stizziti di Callum e suo fratello.

Vorrei dirgli di non rompere i coglioni, ma saranno furiosi come M.C. e non mi meraviglia affatto.

«Dio, non sai quanto mi hai fatto preoccupare», il suo pollice mi accarezza una guancia. 

«Perdonami.» Non so se lui riesce a vedere il manto di finzione che ho sulle spalle, e la maschera che mi sono calata sul viso.

Non lo so e forse nemmeno mi interessa.

Joel infila le dita fra i miei capelli e mi regala un bacio umido che mi stringe lo stomaco per un momento.

Gli passo i palmi delle mani dietro la schiena e quando prova ad allontanare le labbra da me, le inseguo disperatamente.

Le agguanto e continuo a baciarlo ancora per un po’.

«Dove sei stata?», mi chiede. Ha la voce arrochita e il respiro affannato.

«Volevo solo cercare provviste.», dico ammonendo lo sguardo, «Ho sentito che da Villedor stanno arrivando sopravvissuti. Alla radio tuo padre ha detto che qualcuno poteva venire qui, così, sono uscita a cercare qualcosa che potesse servirci.»

Joel mi accarezza il viso con entrambi i palmi. Ha l’aria preoccupatissima e allo stesso tempo felice «Non devi pensare tu a queste cose. Devi solo restare qui al sicuro. Cercheremo noi provviste.»

L’afflizione che gli leggo negli occhi è un cazzotto in pieno stomaco.

Capisco che l’ho fatto preoccupare oltremodo e mi sento una vile. Ma non potevo fare altrimenti.

«Sono viva e sono tornata. Non andrò da nessuna parte.», gli sorrido.

Sta per dirmi qualcosa di dolce quando Callum lo affianca urtando la sua spalla.

Mi fissa aggrottando la fronte. «Il fucile.», dice perentoriamente allungando una mano.

Mi sfilo la cinta del fucile dalla spalla e glielo porgo sostenendo il suo sguardo che, in questo momento, non è solo torvo ma nero di rabbia.

«Cos’hai qui?», suo fratello Antony tira un calcio alla borsa di Mel e mi gira attorno.

«Aprila e lo scoprirai.», lo sfido sprezzante, incrociando le braccia al petto.

Antony si china, guarda la borsa, sfiora la cerniera e poi torna a guardare me «Prega Dio che sia qualcosa di utile. M.C. non te la farà passare liscia.»

Non mi scompongo.

«Avanti. Aprila.»

Quando lo fa le sue palpebre si spalancano come le ali di una farfalla.

«Cristo Santo! Sono medicine queste?»

Ghigno soddisfatta. Anche Joel non crede ai suoi occhi.

Mi guarda allibito e chiede dove io le abbia prese.

«In un vecchio locale di Manassas, lì nessuno ha toccat-», mi blocco.

«Nessuno ha toccato…cosa?». Chiede Callum storcendo un labbro.

«Vuoi dire che c’è altra roba, lì?», Antony è già su di giri.

Scuoto le mani avanti a me e faccio un passo avanti.

«No. I militari hanno bruciato tutto il primo giorno di epidemia. Non c’è più niente lì.».

«Scusa un attimo-», Antony si solleva da terra e mi fissa come se sapesse benissimo che sto nascondendo qualcosa, «Tu sei andata lì. Come facevi a sapere che avresti trovato queste?»

Apro e chiudo la bocca incamerando solo aria. Devo inventarmi qualcosa, alla svelta.

«Perché…», pensa Karina. Pensa,«ce le ho messe io in quel locale, un anno fa.»

I polmoni si dilatano di nuovo come se avessi imparato a respirare solo in questo momento.

Callum ed Antony si guardano come per chiedersi se fidarsi o meno poi guardano Joel.

«Se ha detto che le ha messe lei, lì…perché non crederle?».

dice spalancando braccia e palmi della mani.

«Sei di parte. E’ la tua ragazza.», proferisce Callum raccogliendo la borsa da terra.

«Io mi fido di lei. Dovreste provare a fidarvi anche voi.»

Dice alzando il tono della voce quando Callum e suo fratello sono già a qualche metro da noi. Stanno camminando verso l’ufficio di M.C. con la borsa, il ché mi dice che a breve sarò convocata anche io lì dentro.

Li osservo sparire dietro la porta e poi torno a guardare Joel. I suoi occhi brillano di un bagliore strano. Furente.

«Non puoi obbligarli.», gli poggio una mano sulla spalla, «Sono l’ultima arrivata e se ben ricordi, sono anche l’unica sopravvissuta del mio gruppo. E’ normale che non si fidino di me.»

Joel abbatte lo sguardo. Lo vedo soffrire in silenzio i suoi pensieri.

«Non sei una cattiva persona, Karina. Lo dovrebbero capire.»

E’ il secondo pugno allo stomaco.

«Lo capiranno…», mormoro.

 

Dopo una mezz’ora, nessuno mi è venuto a chiamare. M.C., probabilmente, ha deciso di rimandare la ramanzina a qualche ora più tardi di adesso. Meglio così.

Sono nella dependance del ranch di Joel. Questa specie di casetta di tronchi che fa molto baita di montagna è sua e suo padre gliel’ha lasciata anche dopo che il mondo è finito senza obbligarlo ad ospitarci nessuno.

Nessuno a parte me.

Lascio gli anfibi sul pavimento e raggiungo il letto.

Mi sdraio sul materasso. E’ morbido più di quanto non lo ricordassi.

«Dio, che bello…», mugugno lasciandomi avvolgere dalle piume della coperta imbottita.

Joel sorride.

«Sai», sale con un ginocchio sul materasso e scavalca il mio ventre con l’altra gamba. «Sei mancata molto anche a lui, e a me.»

I suoi occhi sono di un azzurro fumoso magnetico.

«E tu a me.» Mimo un sorriso ma credo che sia più una smorfia per la bugia che ho appena detto.

Amo Joel. L’ho amato fino a tre giorni fa, ma ora…Se ci penso mi si blocca l’aria in petto.

Allora, mi concentro sulle sue labbra. Ci passo l’indice sopra.

«Mi sei mancata così tanto. Credevo che non ti avrei più rivista…», sussurra abbassando la testa verso di me. 

Mi bacia. Un brivido mi ruzzola lungo la schiena.

Le sue parole mi scuotono nel profondo: sono confusa, atterrita. Nella testa ho il caos più totale.

«Cosa cerchi? Cosa vuoi Karina?» solleva di pochissimo il viso da me.

«Te.», rispondo d’istinto. Ma so che non è vero. Anzi lo è. E’ solo che non riesco a togliermi dalla mente il Blue Moon e Kael e quei maledetti ricordi. E’ vivo?

Scivolo con la schiena più su, lungo il materasso. Joel mi sbottona il jeans e lo fa scivolare lungo le mie cosce. Risale e mi sfila l’intimo.

«Spogliati», gli ordino e quando lo dico la mia voce è più affannata di come la immagino.

Lo vedo togliersi la T-shirt. Il suo addome si flette e poi torna a rilassarsi. Lo scruto come un leone scruterebbe una gazzella ferita. Afferro la catenella che gli pende fra i pettorali e lo tiro a me.

Continua a baciarmi. Prima sulle labbra, poi sul collo e mi tocca il seno con una mano mentre sento che con l’altra libera la borchia della sua cinta.

Forse ho bisogno di questo. Perché quando sono con Joel, Kael sparisce per un istante dalla mia testa.

Mi solleva la maglia fino alle clavicole e si abbassa con le labbra verso la mia pelle nuda.

Istintivamente inarco la schiena e gli sento lasciarsi sfuggire un brontolio sommesso.

Una scarica elettrica mi passa attraverso e contrae ogni mio muscolo. Stringo le gambe per un attimo e poi ribalto la situazione.

Lo costringo a sedersi di lato e gli scavallo le gambe sedendomi sulle sue cosce.

Joel mi guarda dritto negli occhi e una scintilla gli illumina le iridi cerulee. La voglia. 

Lo bacio di nuovo. Senza fretta, più intensamente.

E’ devastante…

Gli infilo le dita fra i capelli biondi e mi sollevo il po’ che basta per sentirlo dentro di me.

Ma quando mi rendo conto che sono io a spingere, che sono io a continuare anche se non voglio, e sono sempre io che mi lascio sfuggire una lacrima nascondendo la fronte nell’incavo della sua clavicola, realizzo che tutta la voglia che ho di lui nasce da un’unico e solo paio di occhi che non mi lascia in pace.

Io lo odio. Io odio Kael.

Ad un tratto Joel mi ferma.

Non so esattamente se ha parlato o se mi ha solo stretto i fianchi, ma non mi muovo più. Ho smesso di ansimare, di spingere.

«Va tutto bene?». Non può vedere il mio viso e questo mi consola.

«Si.», dico.

Mi rendo conto che sono avvinghiata alle sue spalle in un modo che vuol dire chiaramente “non permettere che lui mi porti via da te”.

Lo stringo così forte che penso sia stato proprio questo il motivo per cui si è fermato.

Ho l’affanno.

«Mi dispiace, Joel.» respiro contro il suo petto, «Sul serio.».

Sento i muscoli delle sue braccia sciogliersi. Le sue mani mi scivolano sulla schiena e i suoi occhi sul viso.

Ha lo sguardo deluso. Io l’ho deluso.

«A cosa stai pensando?».

Sento il cuore accelerare.

«A niente. Sono stati solo due giorni difficili.».

Mi fa passare una mano lungo un braccio e agguanta il mio polso all’improvviso quando nota i segni della fascetta di plastica.

«Cosa sono questi?», mi solleva di scatto entrambi i polsi.

Ho gli occhi umidi più di prima. Sposto lo sguardo altrove e cerco di inventarmi l’ennesima scusa.

«Niente.», ma non mi viene nulla in mente. Se gli dirò di Mel, sono certa che metterà su una squadra di ricerca e quella ragazza non lo merita.

«Niente?», alza leggermente la voce.

Ho un sussulto.

«Ti assicuro che non devi preoccuparti.», la voce non mi esce più acuta di un sussurro.

Si irrigidisce e poi mi sposta con irruenza. Lo scavallo e mi accovaccio sul materasso. Afferro l’intimo e me lo infilo in fretta.

Si è appena alzato e si sta risalendo i pantaloni.

E’ furioso. Lo conosco. So perfettamente che quando è in quello stato si zittisce e rimugina prima di esplodere.

E’ tutto l’opposto di Kael.

Perché penso ancora a lui? E' morto. Morto!

«Hai rubato delle armi. Sei sparita per due giorni senza nemmeno dirci dov’eri diretta», dice infilando la cinta nella borchia, «Torni e scopro che qualcuno ti ha aggredita, probabilmente. Ma questo non è il lato peggiore.», si abbassa, raccoglie la t-shirt e se la infila sulla testa. Quando si volta, il suo sguardo cinereo mi schiaffeggia in pieno viso, «Sei stata a Manassas.»

Sento marcare il nome di quel quartiere con una punta di disprezzo nella voce.

«Eri lì per lui?».

A quel punto sollevo lo sguardo verso di lui. Vorrei dirgli di no ma non posso.

Schiudo le labbra.

«Lo sapevo…», sorride mesto.

«Non è come pensi!», mi fiondo verso di lui e gli afferro un braccio.

Posso leggere qualsiasi emozione nei suoi occhi.

«E com’è?», si passa una mano sul viso per scacciare la rabbia, «Stai rincorrendo un fantasma da un anno, Karina. Kael è morto. C’eravamo tutti quando è successo.».

Mi feriscono quelle parole.

E non vorrei ammetterlo proprio a lui.

Mi si contrae l’addome.

«Kael si è sacrificato per noi. Era tuo amico!», dico con rabbia.

«Era anche la persona che amavi, eppure, guardaci! Guardati!», mi arriva ad un palmo dal naso. E’ la prima volta che mi grida addosso.

Non trattengo le lacrime ma mi impongo di non singhiozzare, di non chiudere gli occhi. Voglio piangere in silenzio e voglio fissarlo dritto in faccia.

Ci stiamo ferendo entrambi a suon di colpi bassi.

Non dovevo ricordargli che Kael è stato un suo amico. Ma lui non doveva gridarmi quella frase addosso.

«Che vorresti dire?».

Scuote la testa e fa per raggiungere la porta.

Lo strattono costringendolo a restare nella stanza.

«Rispondi!».

Sospira e solleva il mento.

«Quante volte se n’è andato? Quante volte ti ha lasciato sola? Tante. Troppe. E tu, adesso, stai uccidendo qualcosa di bello per un fantasma. Per qualcuno che non ti ha mai amata veramente.»

Non capisco più nulla.

La mia mano reagisce prima del mio cervello.

Gli do uno schiaffo e il fragore suona per la stanza mortificando entrambi. Specialmente me. Perché non trovo il senso a questa reazione. Cosa mi ha fatto impazzire? La parte dove Kael non mi ama? O quella dove mando tutto a puttane per lui, senza avere la certezza che sia vivo?

O perché mi sono messa insieme al suo migliore amico dopo che…

«Joel, io…»

Mi guarda in una maniera indecifrabile che mi fa venire voglia di sotterrarmi.

Apre la porta e se la sbatte dietro.

Scoppio.

Mi porto un pugno alla bocca, vorrei colpirmi ma sarebbe inutile. Così lascio che siano le lacrime a trascinarsi via tutto quello che provo.

 

Perché deve succedere proprio ora?

   
 
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