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Autore: Gaia Bessie    08/03/2022    1 recensioni
La giornata di Yuu comincia alle tre di notte – non è che soffra d’insonnia, ma probabilmente insieme al tè alla pesca che si fa alle tre e un quarto ha inghiottito anche succo di batterie e, allora, la sua iperattività è pienamente giustificata.
Passa sette ore a ciondolare per casa, mangiando cereali direttamente dalla confezione (e che schifo, cazzo, son quelli senza zucchero) e osservando la bustina di tè che scava una voragine del bidone dell’umido: dovrebbe decidersi a buttare la spazzatura, ma poi non lo fa finché non è costretto da sé stesso o da Daichi, ormai eletto a suo vicino di casa. Passa sette ore a vestirsi con cura, passarsi il gel sul ciuffo decolorato in un biondo sporco e innaturale, sette ore a riordinare quel caos che ormai ha preso il possesso della sua esistenza. Poi si sveglia.
[AsaNoya | Soulmate!AU | What if]
Questa storia partecipa al contest “Il filo rosso del destino – Soulmate!AU Contest” indetto da Pampa309 sul forum Ferisce la penna
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Asahi Azumane, Yuu Nishinoya
Note: Soulmate!AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Lunga e doverosissima premessa: questa storia si basa su un what if (cosa sarebbe successo se Asahi prima, e Daichi e Noya dopo, si fossero trasferiti in America dopo il diploma?) che quindi è ambientato dopo la fine del manga. Tuttavia, la storia è quasi totalmente spoiler free, se non fosse per una piccola reference - e qui, se non volete sapere non leggete - riguardo al viaggio che Asahi e Noya intraprendono dopo il diploma di quest'ultimo.
Soulmate!AU basata sulla seguente traccia del contest di Pampa, che ringrazio infinitamente per avermi fatta svegliare alle due di notte con quest'idea in testa: "Se non hai incontrato la tua soulmate ma ci sei passato vicino (es: vi siete incrociati per strada), quel giorno si ripeterà all’infinito finché non vi incontrate", fatto che ovviamente ho interpretato come non un primo incontro ma come un reincontrarsi, perché se non rompo tutte le regole non son felice.
Piccolo TW per il linguaggio sboccato dell'autrice, spero poco OOC.
Buona lettura e grazie per essere passati di qui!
Gaia

 

Succo di batterie scariche
 
[La vita è un giorno infinito, finché non lo incontri]
 
{Martedì}
 
La giornata di Yuu comincia alle tre di notte – non è che soffra d’insonnia, ma probabilmente insieme al tè alla pesca che si fa alle tre e un quarto ha inghiottito anche succo di batterie e, allora, la sua iperattività è pienamente giustificata.
Passa sette ore a ciondolare per casa, mangiando cereali direttamente dalla confezione (e che schifo, cazzo, son quelli senza zucchero che sanno un po' di cartone bagnato) e osservando la bustina di tè che scava una voragine del bidone dell’umido: dovrebbe decidersi a buttare la spazzatura, ma poi non lo fa finché non è costretto da sé stesso o da Daichi, ormai eletto a suo vicino di casa, che gli ordina di non vivere in un dannatissimo letamaio. Passa sette ore a vestirsi con cura, passarsi il gel sul ciuffo decolorato in un biondo sporco e innaturale, sette ore a riordinare quel caos che ormai ha preso il possesso della sua esistenza. Poi si sveglia.
Dopo sette ore di trance mistica, in cui Yuu ha dovuto inventarsi trecentodue passatempi diversi per non doversi rimettere a letto e dormire, finalmente arrivano le dieci: si va in scena. Si va in scena e, allora, lui che ha finito di vestirsi alle quattro e quarantadue, finalmente dà un senso ai pantaloncini da jogging e alla canotta che lo ha fatto rabbrividire mentre la tazza da tè, un’insulsa ceramica dipinta a polli sorridenti (o sono anatre?), gli ustionava le dita in una voluta di fumo.
Corre per un’ora – in realtà spesso bara e cammina veloce – in un percorso sempre diverso, perché è la routine che uccide ancora più del traffico di New York: così non si limita a correre per Central Park, ma prende vicoli, viuzze o persino la Fifth Avenue alla ricerca di quel vuoto che gli mastica il petto da anni e non lo fa dormire. Non sa dove trovarlo.
Il World Trade Center fa paura – è tutto troppo alto: Yuu è sempre stato okay con la propria altezza ma, quando si trova a fronteggiare i grattacieli della città in cui i ha deciso di trasferirsi sulle ombre di Daichi e Asahi dopo l’università, un po’ piccolo ci si sente. Ma solo un po’.
Quella mattina, mentre scalpita sul posto e osserva gli impiegati che si trascinano a lavoro dopo la pausa pranzo, se lo domanda: cosa succederebbe, se fosse costretto a entrare dentro a quel mondo che New York si tiene dentro, solamente per girarlo tutto e farsi una cultura mondiale?1
Asahi si ferma a osservarlo, incuriosito: alto come una pertica e con il viso dipinto in tratti sonnolenti – un Americano in mano, macchiato freddo, che oscilla contro il bordo del bicchiere di carta. Yuu alza la mano, come per salutarlo, ma quello arrossisce e s’affretta a tornare dentro il proprio ufficio.
La giornata di Yuu finisce solitamente alle due del pomeriggio, quando si rende conto d’esser rimasto ad aspettarlo per la pausa pranzo, senza aver mai il coraggio di parlargli: il resto ha tutto un sapore di pretzel stantio, con il sale che scava crateri lungo l’impasto, e di un déjà-vu altrettanto rimasticato.
 
 
{Martedì}
 
La giornata di Yuu comincia alle tre di notte – non è che soffra d’insonnia, ma probabilmente insieme al tè alla pesca che si fa alle tre e un quarto ha inghiottito anche succo di batterie e, allora, la sua iperattività è pienamente giustificata.
Alle cinque di mattina decide che vuol imparare a far la maglia e, allora, prende il kit che gli ha regalato Daichi per il compleanno, tra le risate di Suga in videochiamata da Tokyo (una bella famiglia e Shimizu che sorride a forza nell’inquadratura, due bambini con i capelli color corvo) e sbuffa e bestemmia su un cappellino informe per mezz’ora – Yuu non ha pazienza, non ne ha avuta mai, e la maglia non fa per lui: poi decide per gli scacchi e s’arrabbia quando Yuu numero uno fa scacco allo Yuu numero due, che non si rende conto che potrebbe cavarsi via dall’impiccio mangiando l’alfiere. Scacco matto, insonnia di merda.
Passa sette ore così, a inventarsi i passatempi più impensabili, a pulire il tappetino della doccia che ha fatto la muffa, a ordinare i surgelati nel freezer e a vagare per casa accendendo e spegnendo tutte le luci. Passa sette ore a giocare con sé stesso a nascondino, con le ombre che gli smangiucchiano il ciuffo già perfettamente pettinato e a domandarsi se i giochi delle creepypasta siano reali e davvero finirà all’inferno se premerà la combinazione giusta di tasti dell’ascensore (nel dubbio non ci prova mai, non fino in fondo), sette ore a chiedersi quand’è che Daichi finalmente si sveglierà e borbotterà e si lamenterà del fatto che quel dannato ragazzino sembra aver carica infinita. E poi si sveglia per davvero – non Daichi, Yuu.
Dopo sette ore di trance mistica, in cui Yuu ha dovuto inventarsi trecentodue passatempi diversi per non doversi rimettere a letto e dormire, finalmente arrivano le dieci: si va in scena. Si va in scena e, allora, lui che ha finito di vestirsi alle quattro e quarantadue, finalmente dà un senso ai pantaloncini da jogging e alla canotta che lo ha fatto rabbrividire mentre la tazza da tè, un’insulsa ceramica dipinta a polli sorridenti (o sono anatre?), gli ustionava le dita.
Corre per un’ora – e non ha mai il fiatone: suo padre puzzava così tanto di Marlboro, che chissà come faceva a farsele importare in Giappone poi, da avergli fatto venire lo schifo del fumo ancor prima della voglia di provare – e finisce sempre nello stesso posto, con gli impiegati che sciamano per rientrare in ufficio e le bancarelle ambulanti che paiono fuori posto, lì, nel punto più alto di New York.
Il World Trade Center gli restituisce ciò che l’abitudine e l’insonnia logorano ogni notte: il brivido con cui si sveglia alle dieci di mattina, ma per davvero, e scopre che mezzo mondo può guardarlo dall’alto in basso. Eh, no, magari non mezzo: buona parte – che è anche dov’è parzialmente sepolto Napoleone, ha detto a Daichi in un sms delle sette e venti, sottoterra o sopra il cielo: non tutto, eh, Bonaparte. Daichi non gli ha risposto e Yuu non ha capito perché.
Un ragazzo si ferma a osservarlo, incuriosito: alto come una pertica e con il viso dipinto in tratti sonnolenti – un Americano in mano, macchiato freddo, che oscilla contro il bordo del bicchiere di carta.
«Ehi!» Yuu agita la mano, facendolo sobbalzare. «Ciao».
Lo fa sobbalzare, probabilmente vorrebbe solamente ignorarlo e tornare al lavoro – chissà a che piano lavora, se quelli alti come lui li mandano a toccare il cielo con un dito o rimangono umili al pianterreno: Yuu lo sa, che metà di quei pensieri sono una pletora di stronzate, ma non se ne cura mai.
«Ciao».
«Ne è passato, di tempo» lo abbaglia con un sorriso alla chewing-gum all’anguria e fragola, mostra i denti sbiancati di dentista (appuntamento una volta ogni tre mesi, ha detto mamma). «Tu lavori qui?».
Annuisce, con aria terrorizzata.
«Sì» borbotta, imbarazzato, con il caffè che traballa lungo il bordo del bicchiere. «Non pensavo di rivederti».
Si trattiene dal fargli qualunque complimento idiota gli passi per la testa – Daichi gli ha detto chiaramente che le sue pick-up lines fanno rivoltare i santi in paradiso e che deve finirla di molestare la gente per strada: Yuu ha recepito il messaggio. Almeno per metà.
«Ma lavori ai piani alti?» domanda, spalancando quei suoi occhi grandi come scodelle. «O sei rimasto umile?».
Lo fa ridere e non glielo dice – che c’è sensazione di familiarità, in quella risata, qualcosa che sa dei cookies al burro d’arachidi dopo la palestra delle diciotto e venti, l’abbraccio di mamma quando si ricordava di andare a trovarla al pranzo della domenica, casa. Asahi Azumane ricorda un po’ quei sapori dolciastri, indimenticabili, in cui la mente di Yuu fa il bagno per poi giocare alla carta moschicida con i propri stessi ricordi.
«Scusa, ma…» balbetta Asahi, sorbendo nervosamente un sorso di caffè. «Ma abbiamo ricominciato a parlare?».
E, nella testa di Yuu, Daichi sbuffa esasperato: eccola, borbotta passandosi una mano in volto, eccola che arriva. Quella battuta che chiunque avrebbe evitato, ma lui no.
«No, ma penso che dovremmo».
Inaspettatamente – perché solitamente si conclude tutto con un sorriso imbarazzato e con il suo Daichi mentale che bestemmia in austroungarico – Asahi ride, nascondendo il viso dietro il bicchiere mezzo vuoto. È anche arrossito, forse perché è settembre e fa già un freddo cane, forse perché la battuta di Yuu fa davvero pena, ma questo non è dato saperlo: perché Yuu sorride a trentadue denti e, se ne avesse qualcuno di più, sorriderebbe a trentadue più qualche altro dente.
«T’impicci ancora degli affari degli altri?» balbetta Asahi, bevendo un altro sorso di caffè e voltandosi per gettare il bicchiere in un cestino dei rifiuti.
«A te non sembra mai di ripetere sempre la stessa giornata in attesa di qualcosa?» replica Yuu, scrollando le spalle. «O di qualcuno».
La mattina beve succo di batterie acido – ma, quando finalmente si riesce a farlo ragionare, diviene insolitamente calmo2.
«E sei arrivato alla conclusione che ero io?» domanda Asahi, alzando un sopracciglio, con aria perplessa. «Un po’… affrettato».
Lo fa ridere, ma Yuu lo sa per davvero: che questo tempo ci è tiranno, ci colpisce alle spalle come una folata di vento gelido e non sa lasciare scampo – che è un mondo stupido e insensato dove, se trovi la tua metà perfetta, si ferma tutto finché non riesci ad afferrarla. E Yuu, che ha masticato e smangiucchiato un martedì insapore dopo l’altro, lo sa.
Il motivo è lui.
Il motivo è quel ragazzo troppo alto, con le ossa che paiono tirate come fil di ferro e i capelli legati in una coda malfatta: è un caffè che prende ogni giorno al bar dell’angolo, un Americano macchiato con due cucchiaini di zucchero, i passi che lo separano dall’ufficio dove lavora – è la consapevolezza d’esser bloccato in quel martedì da una quantità di tempo esasperante e inquantificabile, solamente per colpa sua. Yuu non discute le leggi del mondo, però gli stanno un po’ sul cazzo: gli stanno sul cazzo le leggende, specie perché alla fine sono tutte vere.
E lui, che sono giorni (martedì) che beve succo di batterie alle tre di notte, ne ha (metaforicamente e non) le palle piene: di alzarsi per andare a correre e sentire d’aver già masticato quel percorso, con i grattacieli che incombono in un senso di ansia generale che gli mastica lo stomaco, di fermarsi ad osservare le persone e notarlo tra la folla – goffo nei suoi arti allungati e spezzato come fil di cera – mentre si ferma a verificare d’aver ancora il cellulare in tasca.
Ha sempre odiato gli impiegati: suo padre ha fatto l’impiegato per tutta la propria vita e, a ragione, diceva che era un lavoro un po’ del cazzo. Ti sfracella la sopportazione e poco rimane e, quando finalmente ti lascia andare, ti rimangono solamente le rotture che ti ha causato – niente impiegati, ha giurato Yuu quand’ha cominciato a cercare il proprio segnatempo tra i vicoli di New York, mai un impiegato.
E invece, quando chissà quanti giorni prima (sempre martedì) il tempo s’è fermato, Yuu ha dovuto farci i conti – con il fatto che fosse uno che lavora in un grattacielo e compila scartoffie dietro una scrivania tutto il santissimo giorno e magari odia l’aria aperta, correre e tutte quelle attività che Yuu si deve inventare tra le tre di notte e le dieci di mattina.
«Le cose affrettate non sono le migliori?» domanda Yuu, laconicamente. «Lo sai anche tu, che è giusto così».
Che il mondo è un metronomo impazzito che si può fermare un martedì inutilmente vuoto e propinartelo insieme alla stessa minestra riscaldata anche per anni: tutto, per farvi incontrare. Uno scollamento della memoria, quell’intervallo tra due battiti, ma si percepisce – il sapore di déjà-vu masticato e sputato che ferisce le gengive e le fa sanguinare.
«Dai, Noya» borbotta Asahi, grattandosi la nuca. «Lo sai anche tu che non può essere: che era finita».
Lo era davvero.
Yuu ricorda quella mattinata come quella in cui ha smesso di dormire e, allora, l’iperattività ha fatto il resto: quando Asahi gli ha preso le mani, e aveva le dita gelide come ghiaccioli, e gli ha detto che finiva lì. Che era stato bello, ma non aveva funzionato.
Il Karasuno è un coccio di ricordo – Yuu ricorda con precisione quanto cazzo si erano amati, ancora adolescenti, nascosti nel buio della camera da letto di Asahi, ricorda quanto era stato dannatamente e odiosamente bello il viaggio dopo il diploma, ricorda. Che, tornati in Giappone, Asahi gliel’aveva detto: che abbandonava tutti i propri sogni per l’America che, per tutta la gente banale com’era lui (o così Yuu gli aveva detto, cercando di non piangere), era il sogno più grande di tutti.
Aveva fatto armi e bagagli e se n’era andato, lasciando tutti i suoi amici a crescere nella propria assenza – due anni dopo, quando Daichi s’era trovato divorziato e con il cuore infranto, Yuu gliel’aveva domandato: andiamo anche noi?
Daichi aveva detto di sì e, tutt’ora, Yuu nemmeno saprebbe spiegarsi il perché lo abbia fatto: forse, al pari di Asahi quand’è andato via (e questo è il pensiero che fa più male di tutti), credeva d’aver tutto da guadagnare e quasi niente da perdere. Il patto, tra loro, era chiaro.
Non cercare mai Asahi.
E Yuu non l’aveva cercato – l’aveva trovato nel giorno del metronomo impazzito e, di venirci a patti, lo aveva fatto a fatica: non per concedergli il perdono per quel peccato, l’assenza d’amore, ma per dover riaprire la ferita. Ma abbiamo ricominciato a parlare?
S’erano incontrati, varie volte, intravisti a Central Park la domenica mattina o cose simili e mai una volta Yuu aveva provato a rivolgergli la parola – Asahi sì. Con un cenno timido e un sorriso, ma Yuu non lo aveva mai guardato per più di mezzo secondo.
«Non l’ho scelto io» sibila, stringendo i pugni. «Se avessi scelto io, non avrei…».
Scelto te.
È un’ammissione fatta per ferire – per non dirgli che quell’abbandono, all’indomani del loro viaggio attorno al mondo (e quanto gli era piaciuta, ad Asahi, l’America), aveva ferito più di ogni altra cosa. Perfino quando Yuu si era dovuto rimboccare le mani per recuperarlo dall’abisso silente in cui s’era sotterrato, in seguito all’ennesima sconfitta della Karasuno.
«Lo so» mormora Asahi, il viso rischiarato da una dolorosa comprensione. «Senti, sali con me in ufficio? Ti faccio vedere dove lavoro e poi…».
E poi me lo spezzi di nuovo, il cuore?
Ma Yuu non dice di no – la sua giornata inizia alle tre di mattina, ma è alle due che finalmente si inizia a giocare la vera partita: quando Asahi sorride, e sembra gli si stia spaccando la faccia, e gli dice andiamo?
Che, se fosse ancora il Yuu Nishinoya follemente innamorato di lui, riuscirebbe a fraintendere in mille modi diversi o forse uno solo (ti amo): lo sa. Che la vita è la peggior delle puttane e ci avrebbe scommesso, certo che ci avrebbe scommesso qualunque cosa, che la sua vita si sarebbe nuovamente intrecciata a quella di Asahi.
Ma non per sempre.
Per sempre, il ripetersi continuo e odioso di quel martedì che sa di pretzel stantio e sane sgranellato, è un mucchio di tempo, un mucchio enorme.
«A te sta bene?».
«Mi andrebbe bene anche se decidessi di fermarci a questo martedì per tutta la vita».
Lo può fare – rifiutare il destino, che concede prestiti e non sempre richiede il conto: ma, quando Yuu osserva gli occhi scuri di Asahi, deve mordersi la lingua per non dirgli che ha sepolto dentro di sé tutti i sentimenti per lui (non tutti, Bonaparte) e, adesso, vorrebbe solamente schiacciarglieli addosso in una partita di pallavolo che non hanno mai smesso di giocare.
Asahi è odiosamente arrendevole, quando s’ha d’aver torto.
Così Yuu, che inizia a sentire la stanchezza accumulata dalle tre di notte, sospira – lo prende per mano e si domanda cosa si proverà a riprovarci: se è ancora familiare, quell’odore che Asahi si porta addosso, se è familiare quel contatto e quel bacio che non gli darà ora (ma poi sì, spera).
E Yuu lo sa: le persone non s’innamorano così – ma, in un mondo in cui la predestinazione esiste, lui e Asahi sono odiosamente legati.
Asahi gli stringe la mano, mentre si avviano verso gli uffici (e sorride anche lui) – passano un’ora a parlare a desiderare d’essere abbastanza coraggiosi da buttar giù quelle pile di documenti dalla scrivania di Asahi e farlo lì, così, senza pretese: andrebbe bene, la carica di Yuu si sta esaurendo.
Poi scoccano le due e quarantasei e Yuu si spegne.
Si spengono.
 
 
World Trade Center
Martedì, 11 settembre 2001, 2.46 PM
[La vita è un giorno infinito finché non lo incontri. Poi smette]

 

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2Direttamente dal manga
   
 
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