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Autore: futacookies    12/03/2022    1 recensioni
{pre-kunikidazai ● pre-canon ● possibile ooc}
La verità era che la sua insonnia aveva molto poco a che fare con la sua precedente routine. [...]
Il suo problema era che non credeva di essere all’altezza del ruolo che aveva scelto. Aveva paura che prima o poi avrebbe sbagliato qualcosa, che avrebbe deluso tutti, che non sarebbe stato in grado di aiutare proprio nessuno.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Doppo Kunikida, Osamu Dazai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NdA: scritta per la quarta settimana del cowt - 12 indetto da Lande di Fandom con il prompt: “Fear can keep us up all night long, but faith makes one fine pillow”. Hinted past Odazai, pre-Kunikidazai, or something. Ambientata poco dopo l’arrivo di Dazai all’Agenzia - per quanto riguarda la caratterizzazione di Dazai, penso di essere scivolata un po’ nell’ooc ma si può giustificare tutto pensando che anche lui, in fondo, è umano.

Buona lettura!


 


Chiudere la finestra



 

Non riusciva a dormire. Dazai si rigirò tra le coperte sudaticce e alla fine le buttò tutte di lato, rilassandosi appena mentre sentiva l’aria fresca della notte raffreddargli i piedi. Aveva commesso l’errore di lasciare la finestra aperta, e lui sapeva fin troppo bene che Yokohama era una città che dormiva mai. I rumori della strada si insinuavano nelle sue orecchie e non facevano altro che ricordargli che quello non poteva essere il suo posto. Con un sospiro, a disagio, si tirò in piedi. Vagò un po’ in giro per il piccolo appartamento che gli avevano assegnato all’Agenzia, e lanciò un’occhiata risentita all’orologio appeso sulla parete del soggiorno. 

Le due meno un quarto. 

Fece una risatina nervosa e si accasciò per terra - se fosse rimasto al suo posto, alla Port Mafia, quello sarebbe stato l’equivalente dell’ora di punta. Dopo la mezzanotte era tutto un affollarsi di scambi illeciti, consegne illecite, minacce illecite, indagini illecite. Invece se n’era andato. Se n’era andato per concedersi una seconda possibilità. Se n’era andato perché era quello che Odasaku aveva voluto - per lui? Per Yokohama? Per permettergli di pareggiare i conti con il karma cosmicamente negativo che si era dato tanta pena per accumulare? Se n’era andato perché con il corpo sempre più freddo di Odasaku sotto gli occhi non era riuscito a vedere nessuna altra possibilità.

Se n’era andato e tutto quel vagare disperato e senza senso l’aveva infine condotto all’Agenzia, dove lo aspettavano ogni mattina in ufficio, dove aveva un orario di lavoro prestabilito e dove davano tutti per scontato che lui, la notte, dormisse. Invece eccolo lì, perfettamente lucido, ad ascoltare il ticchettio snervante dell’orologio e l’attività molesta e frenetica della città. 

La verità era che la sua insonnia aveva molto poco a che fare con la sua precedente routine. Aveva dormito abbastanza, negli anni in cui il governo lo aveva nascosto per permettergli poi di risalire in superficie come una persona nuova - una persona che avrebbe fatto, per una volta, la cosa giusta, che avrebbe mantenuto le sue promesse, una persona di cui Odasaku sarebbe potuto essere fieramente amico, una persona che Odasaku avrebbe potuto perfino arrivare ad ama-

Si stropicciò energicamente la faccia. Non era quello il problema - non poteva essere quello che lo teneva sveglio la notte, perché altrimenti si sarebbe sentito condannato ad un’insonnia perenne. Qualunque cosa avrebbe potuto provare Odasaku, apparteneva a un passato immutabile su cui lui non poteva più mettere mano. Faceva male, certo, faceva malissimo ogni volta che malauguratamente finiva per pensarci, come in quel momento, in cui sentiva una pressione terribile al petto e il suo respiro si faceva affannoso, ma non poteva fare altro che ripetersi che era tutto inutile. Tutta la sua sofferenza non avrebbe riportato indietro Odasaku, non sarebbe servita tutta la sofferenza del mondo, non sarebbe servito nulla, assolutamente nulla. 

Respirò lentamente. Non era quello il suo problema. Continuò a respirare regolarmente, finché non pensò di essersi calmato. Non era quello il suo problema, quello era il suo rimpianto, enorme e orribile e onnipresente, sempre pronto ad alitargli sul collo. Il suo problema era che non credeva di essere all’altezza del ruolo che aveva scelto. Aveva paura che prima o poi avrebbe sbagliato qualcosa, che avrebbe deluso tutti, che non sarebbe stato in grado di aiutare proprio nessuno. 

Non aveva mai fatto niente del genere. Certo, non tutti i compiti che gli affidavano all’Agenzia avevano a che fare con la sicurezza della città o la sopravvivenza dei loro clienti. Certo, non doveva affrontare niente di tutto questo da solo, non con quel Kunikida che non gli lasciava un minuto di pace, neanche un secondo per respirare - e poteva lamentarsi quanto voleva della cosa, poteva sospirare rumorosamente e poteva protestare a gran voce, ma era esattamente ciò di cui aveva bisogno: neanche un istante per riflettere su quanto si sentisse inadeguato e fuori luogo, rispetto ai suoi colleghi, perché altrimenti aveva l’ancor più grande terrore che sarebbe crollato in mille pezzi. E sapeva che non sarebbe stato un bello spettacolo.

Lo scoccare delle due lo riscosse dai suoi pensieri. 

Si trascinò fino alla credenza e ne tirò fuori una bottiglia di saké - del whsieky condiviso con qualcuno che si arrischiava a chiamare amico sarebbe stato molto meglio. Avrebbe avuto un sapore migliore. Non era sicuro di essersi abituato al sapore del saké, soprattutto non era esattamente convinto della sua qualità, ma con lo stipendio dato dall’Agenzia non c’era molto altro che potesse fare. Adattarsi. Chi sa, forse anche il saké scadente che stava buttando giù in quel momento lo avrebbe aiutato a diventare una persona migliore. O forse-

Forse-

Non era una possibilità su cui amava soffermarsi, ma ormai era troppo tardi per fermare quel flusso di pensieri. Forse non sarebbe mai stato una persona migliore. Sarebbe rimasto per sempre lo stesso Dazai che lavorava per Mori, che guardava all’omicidio con indifferenza, che sentiva la tortura come una vocazione, soltanto con altri vestiti. Forse non aveva importanza quanto lui desiderasse cambiare o quanto si fosse convinto di essere già cambiato, perché una volta rimosso il superfluo, la sua essenza rimaneva invariata. Ed era possibile cambiare il suo essere al punto da non essere più in grado di riconoscere, allo specchio, una versione di sé che gli dava la nausea? O avrebbe dovuto convivere per sempre con la consapevolezza di aver fallito, di star continuamente fallendo?

Si tirò immediatamente in piedi quando sentì bussare alla sua porta.

Era stato un suono appena accennato, quasi impercettibile, e per qualche istante Dazai pensò di esserlo immaginato. Eppure, avrebbe potuto giurare che-

Lo sentì di nuovo, questa volta più deciso, e si avviò verso la porta. Adocchiò un paio di coltelli sul piano della cucina e si chiese se non fosse il caso di afferrarne uno prima di andare ad aprire. Non si poteva mai essere troppo sicuri. Poi scacciò l’idea - lui non era paranoico, non più almeno, non ne aveva più motivo. 

«Oi, Kunikida, come mai sveglio a quest’ora? C’è qualcosa che posso fare per te?»

Cercò di sembrare rilassato mentre parlava, forse anche un po’ fastidioso. Kunikida si sistemò gli occhiali sul naso e poi gli rivolse una lunga, silenziosa occhiata che aveva tutta l’aria del rimprovero. 

«Io-», cominciò Kunikida, cominciando a gonfiarsi come faceva di solito quando stava per inalberarsi, «vorrei sapere perché non riesci a dormire.»

Sembrava essersi sgonfiato mentre pronunciava le ultime parole. Approfittando della sua momentanea confusione, l’aveva spinto di lato e si era autoinvitato in casa sua. Dazai lo osservò esterrefatto mentre si sedeva per terra a gambe incrociate e lo guardava con attenzione, come se si aspettasse una risposta seria e dettagliata che esaudisse la sua curiosità - il che, ovviamente, era completamente fuori discussione. Dazai trovava già abbastanza difficile ammettere le sue debolezze con se stesso, figuriamoci con lui.

«Io-», iniziò, tentennando. «io-», proseguì, guardandosi intorno, deciso a trovare una validissima e perfettamente credibile scusa, «-ho dimenticato la finestra aperta!», esclamò di colpo, «Ecco, sì, per questo mi sono svegliato, sai, tutto questo rumore, come si potrebbe dormire altrimenti-»

Kunikida lo guardava adesso con un’espressione rassegnata. Dazai si chiese come avesse fatto a sapere che era sveglio. Aveva il sonno così leggero che il vagare di Dazai per l’appartamente l’aveva svegliato? Lo stava stalkerando? Che tipo di informazioni sperava di ottenere da lui in quel modo? Ricambiò il suo sguardo, deciso a fargli capire che qualunque risposta volesse, di certo non l’avrebbe avuta da lui. Non stasera, almeno. Kunikida cacciò fuori la sua agenda e scribacchiò qualcosa, borbottando a bassa voce contrariato. Poi si alzò, senza dire una sola parola, e andò a chiudere la finestra.

«Adesso, quindi, posso aspettarmi che tu riesca a dormire?», chiese, con un tono che implicava che in realtà lui la sapeva molto più lunga di Dazai e che aveva immediatamente capito che quella non era altro che una scusa accampata all’ultimo secondo. 

«Be’, sì, certo, insomma- come ho fatto a non pensarci io-», commentò con un lamento mentre accompagnava Kunikida alla porta. 

Poco prima di dargli le spalle ed andarsene, Kunikida si concesse un lungo respiro. 

«Senti, Dazai, non so cos’è che facevi prima di venire all’Agenzia, e francamenta non mi interessa-», affermò, prima che potesse protestare che non erano affari suoi, «ma adesso sei un detective, no? Devi imparare a prenderti cura di stesso, perché noi contiamo su di te.»

Dazai annuì distrattamente, al che Kunikida gli diede un buffetto sulla fronte. 

«Ci fidiamo di te, capisci?», insistette, vedendo che non gli rispondeva immediatamente.

Dazai continuò ad annuire. 

«Sì, sì, capisco.»

«Bene, allora adesso va’ a dormire.», consigliò, tirandosi la porta che si chiuse con uno schiocco secco.

Dazai tornò lentamente nel piccolo soggiorno. Fissò per un po’ la finestra chiusa, con la tapparella abbassata e la tenda tirata. Contemplò l’idea di accasciarsi per terra e passare un’altra terribile notte insonne - era quello il suo piano, almeno fino a che non era arrivato Kunikida. Come un bambino petulante trascinò i piedi fino alla minuscola camera da letto, recuperò le coperte che erano cadute a terra e se le tirò fin sotto al naso. Chiuse gli occhi e contò fino a dieci, poi venti, poi smise di contare perché l’unica cosa a cui riusciva a pensare davvero erano le parole di Kunikida.

Si fidavano di lui. Si aspettavano, probabilmente, che quella fiducia venisse ripagata. Che lui fosse in grado di lavorare al loro fianco senza difficoltà. Senza crearsi tanti problemi. Di certo, senza perdere il sonno la notte perché aveva il terrore di essere inadeguato. Si fidavano di lui, pensò, con una stretta allo stomaco, perché non sapevano quello che era stato - eppure, forse- forse era come gli aveva Kunikida senza tante cerimonie. Non importava, cosa era stato, cosa aveva fatto, ma quello che contava era quello che stava scegliendo di essere. Qualcosa di cui non solo potessero davvero fidarsi, ma che si meritava quella fiducia. 

Chiuse gli occhi. Non sarebbe riuscito a dormire, probabilmente, ma di sicuro ci avrebbe provato.



 
  
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