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Autore: jinkoria    14/03/2022    1 recensioni
[ Manjirou/Takemichi ; side Ken/Emma ] [ dai prompt del writober 2021: ascian ; sciaphilia ]
Come fosse all’improvviso diventato sgradevole, allontanò di scatto l’asciugamano, l’espressione crucciata rivolta alla fantasia azzurra del panno, pronto a restituirlo all’altro quando l’odore conosciuto dei dolcetti si fece paradossalmente più intenso.
Porto verso di lui, avvolto in un tovagliolo, il pesciolino ripieno comparve davanti ai suoi occhi, tenuto su dalle mani del suo interlocutore.
Il sorriso che gli rivolse fu talmente morbido e gentile che Manjirou sentì qualcosa nel suo petto fare male, davvero tanto, al punto da causargli un fastidioso senso di bruciore agli occhi. Per questo distolse in fretta lo sguardo, sia dal ragazzo che dal dolce.
«È dell’ultima sfornata».
«…».
«Ne ho altri due».
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Emma Sano, Ken Ryuguji (Draken), Manjirou Sano, Takemichi Hanagaki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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hello, dopo... un bel po' di mesi. e di ritorno eccezionalmente oggi per due motivi: il più sciocchino, non mi andava di lasciare questa povera storia così a se stessa; il principale è che oggi dovrebbe essere il cosiddetto white day e questo è il mio modo di fare un regalino alla mia dolce metà ♡♡♡ sempre sul tardi perché sia mai mi fili tutto liscio e in tempi decenti ma vbb, auguri moglie 🥳🌹 e un grazie grandissimissimo alla mia figliolina amy, che mi ha fatto la straordinaria cortesia di darmi un parere in anteprima sul capitolo e segnalarmi quelle cosacceine che mi sono sfuggite in corso d'opera- grazie millissime di cuore ;; ♡♡♡
POI, ho un paio di cose da specificare: 1. il titolo è cambiato, non mi soddisfava da parecchio la citazione (da “vent'anni” dei måneskin, bellissima frase e simbolicamente calzante ma preferivo non appoggiarmi a quello per l'identità totale della storia) 2. la primula è stata scelta perché, se google non mi inganna, è il primo fiore che sboccia alla fine dell'inverno e dà il benvenuto alla primavera (questo parallelismo è presente soprattutto per il cognome di takemichi, hanagaki, che contiene proprio la parola “fiore” (hana )), inoltre in più siti ho trovato il suo significato associato a vita, giovinezza, speranza e rinascita; tutte cose che, simbolicamente, takemichi rappresenta per manjirou 3. non ho inserito in questo capitolo il significato del prompt perché lo farò nel prossimo; scrivendo mi sono resa conto di voler aggiungere ancora qualcosina a questa storia, che è la parte a cui associai il prompt stesso a ottobre e che qui, per varie ragioni [specialmente di lunghezza] ho preferito non inserire. ho anche aggiunto ufficialmente draken ed emma ai personaggi. ora... non ho sinceramente idea di quando arriverà la terza e ultima parte di questa storia, la cosa positiva è però che entrambi i capitoli attualmente disponibili si possono leggere in tutta tranquillità come autoconclusivi. ci tenevo a mostrare un po' di più come un ascian (che ricordo essere una sorta di condizione depressiva in questo au) vive la sua condizione, anche quando trova la sua persona, la luce, per riscoprire la propria ombra (come un'anima predestinata; uscire dalla condizione assoluta di ascian, quindi aver perso completamente l'ombra e non solo averla indebolita, è impossibile altrimenti, tuttavia rimane un percorso graduale). detto ciò, alcune cose fanno riferimenti al canon ma sono particolari che si colgono se avete letto il manga, viceversa anche ignorandoli non sono spoiler in alcun modo.
spero di aver detto tutto, forse ho detto pure troppo- la sezione non la vedo molto abitata ma vi auguro comunque buona lettura 



 

 


sciaphilia;
[1]


 

I primi tempi era convinto di aver visto male, confuso una sovrapposizione di qualcuno passatogli troppo vicino per qualcosa di proprio, tanto da essersi sentito per un attimo ladro di un diritto perso. Dunque aveva iniziato a seguire strade poco trafficate quando doveva spostarsi o ad accendere molte più luci la sera, giusto per passarvi accanto e raggelare per l’orrore, sinceramente terrorizzato e persino tremante, le prime volte, nel constatare fosse davvero là: flebile e impercettibile come una macchia sbiadita dagli anni ma che mai nessun solvente era riuscito a eliminare del tutto, la sua ombra era tornata a far capolino, raggrinzita e fragile nei contorni vibranti – o forse era il corpo di Mikey stesso a tremare, sconquassato dal battito folle e il respiro spezzato, irregolare, come in corsa per fuggire dalla spaventosa quanto destabilizzante consapevolezza vi fosse sul serio la possibilità che quel dolore guarisse.

Il giorno in cui lo realizzò fu quello designato alla cena di riunione tra lui, Ken ed Emma; per mantenere vivo il clima di famiglia, darsi un appuntamento, creare una tradizione tra loro perché la sorella credeva ancora fermamente per l’ombra di Mikey vi fosse speranza. O, come la sua mente gli suggeriva, per non lasciarlo affondare in se stesso, sparire come quella medesima ombra aveva fatto, codarda senza luce e stanca di brancolare in un’oscurità ingestibile e densa come catrame.

Aveva capito di star piangendo, Manjirou, solo dopo essersi ritrovato nell’abbraccio di entrambi, rimasti incantati sulla soglia di casa con l’espressione più sconvolta che avesse mai visto loro – e poi lo scatto verso di lui, le braccia stritolate da Kenchin facevano un male indicibile per la torsione scomoda in cui erano costrette dalla morsa, anche il collo doleva per la presa ferrea di Emma intorno e mai avrebbe dimenticato la sensazione gelida eppur scaldante delle lacrime posate sulla pelle e lì asciugate. Ryuuguji lo aveva successivamente afferrato per le spalle così forte da sollevarlo appena, in testa un interrogativo sconvolto, di cosa fosse successo e di come quella preghiera avesse preso forma – gli occhi spalancati e lucidi vaganti ovunque nei dintorni del corpo del migliore amico, dove un’ombra a malapena percettibile si stagliava sul pavimento, debole ma sua.

La cena proseguì intaccata, il sorriso dolce e commosso di Emma onnipresente, distorto a ogni boccone mandato giù a fatica tra una tirata in su col naso e l’altra, mentre il compagno aveva accantonato l’aria destabilizzata per far posto al ghigno più contento e soddisfatto che avesse in repertorio. Manjirou aveva solo proseguito in silenzio, ogni tanto borbottando qualcosa in direzione dell’altro perché continuava a dargli pacche sulla schiena fin troppo poderose e a riempirgli il bicchiere con chissà che sakè “per festeggiare”.

Non aveva detto nulla perché era il primo a corto di parole, rattoppate attorno al nodo in gola al quale aveva iniziato ad abituarsi, sebbene fosse certo stavolta fosse più allentato e di causa ben diversa; aveva avuto paura di staccarle da lì, perché il timore fosse solo un’illusione non se n’era mai andato, acquietato sotto al cuscino insieme a lui ogni notte dalla prima in cui si era accorto del cambiamento e sempre insieme, il giorno dopo, pronto ad alzarsi da ore d’insonnia, aprendo le palpebre non avendo idea di dove guardare per scorgere l’imitazione di una speranza che pareva aver dimenticato – con la compagnia dell’orrore di non ritrovarla più.

Partecipare attivamente in un festeggiamento di qualcosa di così a malapena accennato era pericoloso, troppi anni in cui la privazione era diventata abitudine e riabituarsi alla presenza di qualcosa che sembrava non esserci mai stata non avrebbe avuto nulla di facile come si sarebbe potuto pensare. Il volto rincuorato di sua sorella, però, arrossato dal pianto e dalla gioia, e la felicità contagiosa di Kenchin al suo fianco gli avevano fatto credere potesse almeno un po’ darsi fiducia.

Alla fine di quella serata, rimasto solo, il pugno era salito al petto e aveva avvinghiato la maglia con ansia, lo sguardo largo e tremulo sotto la realizzazione che sfumava in un desiderio.

Voglio vedere Takemichi.

 

Dal bizzarro incontro sotto la pensilina di una fermata qualsiasi, Mikey aveva iniziato a visitare spesso la pasticceria in cui gli aveva detto di lavorare – anche perché sperava gli passasse in segreto qualche avanzo invenduto com’era successo quel pomeriggio d’inizio e altri a seguire, poiché pure quella era diventata un’abitudine a cui però si era adattato piuttosto in fretta; Takemichi gli aveva spiegato gli orari in cui lo avrebbe trovato, il cominciare e finire dei suoi turni. Era stata la prima cosa della quale avevano parlato al telefono, anch’essa la prima volta in cui la voce dell’altro era arrivata distorta dal microfono, eppure morbida e calorosa come fosse stato lì accanto, a parlargli stringendogli forte la mano.

L’appuntamento si era fatto pressoché quotidiano, complice il fatto Mikey si fosse attaccato particolarmente al ragazzo, attorno al quale girava una non poi così sorprendente quantità di persone. Il che, da un punto di vista schiarito da sincero affetto, era meraviglioso: Takemichi meritava ogni goccia di apprezzamento e amore dal mondo, ne era convinto, più lo conosceva più sentiva nascere in sé l’urgenza di far sì ciò accadesse a priori, persino mobilitandosi di persona se necessario.

Dal punto di vista del suo stomaco ringhiante per il disappunto, invece, non andava bene per niente, perché c’era qualcosa di davvero molto fastidioso nel modo in cui questo o quell’estraneo gli si avvicinasse – a giudicare dalla confidenza con cui Hanagaki ricambiava non dovevano essere così sconosciuti, forse perché i nemici principali intercettati da Mikey erano per certo dei colleghi data la divisa identica, ma il filtro dell’irritazione era calato e in modo pure evidente, constatò, dato che Takemichi gli si avvicinò al primo momento libero per chiedergli cosa non andasse con onesta preoccupazione nella voce, sottolineata dalle sopracciglia corrugate.

Adorabile, ogni cellula cantò in accordo con quel pensiero, ma non fece che aumentare la pruriginosa sensazione di scocciatura ogni qual volta l’altro fosse costretto – spontaneo, in realtà – a rivolgersi a quel Matsuno o Inui e pure quel tizio sbucato di tanto in tanto dietro quest’ultimo.

Per sua sfortuna, Takemichi era tremendamente bello in quell’ambiente per lui confortevole, era chiaro, e piuttosto che diventare davvero un fastidio avrebbe zittito i brontolii del suo stomaco con i dolcetti regalati per ammansire il viziato che si era riscoperto essere.

 

 

Nelle giornate peggiori, quando per strada dell’ombra non vi era traccia o la fiumana di gente intorno rendeva troppo difficile individuarla in maniera distinta, così crudelmente chiara, sebbene dentro di sé prevalesse il voler preservare il benessere di Hanagaki n qualsiasi modo, quello scenario lo faceva sentire fin troppo fuori. Lontano dalla luce, gelido e senz’ombra. Nonostante ciò, raggiungerlo, in pasticceria per tornare a casa insieme – o meglio, riaccompagnarlo fino a quella che aveva iniziato a considerare la loro fermata – era il suo appiglio per mettere naso oltre le mura d’irrealtà nelle quali si era rinchiuso per anni, cercando di non essere visto neppure da quelle stesse pareti; l’unico da cui accettava, voleva essere guardato era fuori ed era una forza motrice sufficiente per spingerlo davvero a mostrarsi all’esterno. Sempre un po’ nascosto in vestiti larghi e pesanti, a volte fin troppo per le temperature primaverili che iniziavano a presentarsi con impaccio nei rimasugli dell’inverno, ma ne valeva la pena perché la percezione stessa del tempo, delle stagioni in successione quando tutto pareva essersi bloccato in autunno uggioso e monocromo da sempre, era arrivata con Takemichi.

Manjirou aveva capito di essersi innamorato quando quello gli aveva promesso, proprio in uno dei giorni in cui la sua ombra sembrava aver fatto ritorno al proprio posto – nella fessura di una cicatrice così evidente da dare l’impressione trattarsi di una ferita ancora aperta –, con le pupille pulsanti nelle iridi quiete come il mare al mattino d’estate ma ravvivate da dolcezza e determinazione: «La mia ombra sarà sempre grande abbastanza per entrambi».

Farò sì che la mia felicità sia anche tua.

E il suo cuore aveva tremato, ancora afflitto dalla paura di dar ascolto a quelle parole, nonostante ciò si era lasciato andare, accettando le dita di Takemichi vagare in cerca delle proprie e lì incastrarle quasi da imprimervisi per sempre e non potersi più allontanare.

Tornare a casa quella sera aveva avuto un altro significato, la notte interminabile che cozzava con la voglia incessante del giorno dopo, la sera in particolare, quando avrebbero avuto il loro prossimo incontro, perché l’amore di quell’accezione così delicata e intensa al tempo stesso era qualcosa di assolutamente nuovo per Manjirou, incomprensibile e violento come un’onda imprevista eppure era là in balia dei suoi movimenti ed era pronto ad accettare anche i prossimi, qualsiasi impatto avrebbero avuto nella sua vita.

A volte, però, capitava incontrasse conoscenti, vecchi amici, in quelle camminate dal passo pesante e di conseguenza più lento del normale, che gli dava un’andatura quasi stanca e trascinata; amici non suoi ma di Shinichiro, con bocche larghe di nostalgia parlavano e raccontavano e la gabbia relegata in fondo all’oscurità più fitta tornava a galla, inghiottendo l’ombra.

Capitò anche stavolta: era già a metà strada. A dire il vero, più verso la pasticceria che il suo appartamento. Tornare indietro era pericoloso, fu la riflessione, perché avrebbe potuto incontrare chissà chi a quel punto. Pensò a Takemichi e ai taiyaki, al modo in cui lui stesso profumasse come il dolce a cui era tanto legato, e per quanto male sentisse in quel momento al pensiero di impattare contro quella specifica familiarità decise comunque di proseguire.

Ci mise più tempo del dovuto, colto a intervalli irregolari dall’esitazione, e si era fatto tardi; l’orologio digitale riportava una cifra spaccata, lì dove lo schermo era stato schiacciato con una pressione eccessiva e intenzionale tempo addietro. L’orario di chiusura del negozio era passato da un pezzo, tuttavia il dispiacere al pensiero di aver perso quella piccola dose di luminosità giornaliera non lo toccò, non in superficie, solo in principio aveva sentito il panico montare alla prospettiva di non averlo visto – e chissà se lo aveva cercato, atteso, forse no. Forse non vederlo era stato un sollievo.

«Mikey-kun!».

Si irrigidì, piuttosto consapevole di quanto stesse tremando, persino della fitta alla nuca per il movimento brusco con cui aveva riportato il viso su, di fronte a sé, ma non aveva importanza.

Davanti la saracinesca abbassata della pasticceria, al riparo da timide gocce di pioggia che avevano iniziato a cadere, Takemichi stava sventolando il braccio in sua direzione, come per farsi vedere. Come se fosse possibile non lo vedesse. Era lì, col naso rosso e gli occhi stanchi, l’aria di chi aveva davvero tanto bisogno di tornare a casa e farsi una doccia, riposarsi e prepararsi alla giornata successiva, e avrebbe potuto essere già sull’autobus a pregustare quell’attimo di pace, eppure era lì. Mikey avrebbe voluto correre e raggiungerlo ma si sentiva parte di una scultura piantata saldamente al terreno, reso instabile dal marasma interno che aveva iniziato a provare.

A scattare verso di sé, forse interpretando quell’immobilità come un segnale ad avvicinarsi, fu Takemichi.

«Sei arrivato al momento migliore» disse, la voce un po’ affannata «Ancora un po’ e si sarebbe messo a piovere davvero, ho controllato le previsioni prima e-».

«Perché non sei tornato a casa?».

Perché mi hai aspettato?

Il ragazzo lo guardò spaesato, quasi non capisse il senso dietro le sue parole. Mikey stesso, d’altronde, non riusciva a capirsi.

«Perché torniamo sempre insieme, sono diversi mesi ormai che-».

L’ascian lo interruppe di nuovo, incalzante, per qualche ragione sentiva di aver fretta.

«Sono arrivato in ritardo, di» sollevò lo smartphone per ricontrollare l’ora «quasi cinquanta minuti. Non hai pensato non mi sarei presentato?».

Il modo in cui Takemichi abbassò lo sguardo lo fece sentire stupidamente colpevole perché stupido era il modo in cui gli si stava rivolgendo, con un tono di voce troppo alto ed equivocabile, dalla falsa apparenza del rimprovero quando non c’era altro se non disperazione in ciascuna delle sue domande, la necessità forse patetica di sentirsi dire qualcosa nello specifico che lui stesso non era in grado di identificare nella matassa ingarbugliata delle sue sciocche speranze.

La voce di Hanagaki tornò flebile, zoppicante; Mikey notò gli zigomi ravvivarsi e di primo acchito temette si fosse preso la febbre ad aspettarlo.

«Speravo non lo facessi» mormorò «Di non presentarti, intendo. Speravo di vederti arrivare, mi sono detto che gli imprevisti capitano e qualcosa poteva averti rallentato, che non ti fossi accorto dell’ora e per questo non mi avessi… avvisato… Non...» la voce si abbassò ancora, il rossore si propagò fino alle orecchie come primule appena fiorite, e stavolta Manjirou maledì la pressione assordante che stava ovattando le sue, o forse era il cuore e il pulsare così intenso da rassomigliare a urla indispettite dal proprio atteggiamento.

Perché poi quello riprese, guardandolo dritto negli occhi, un’espressione strana e indefinita che accentuò la confusione.

«Non ho pensato non saresti arrivato, prima o poi, ho solo pensato che se me ne fossi andato avresti fatto un viaggio a vuoto e non volevo non trovassi nessuno ad aspettarti».

 

Non avevano detto altro, tornando sui loro passi verso la fermata.

Takemichi non aveva detto niente nemmeno sulla sua ombra, del tutto invisibile persino sotto la forte luce del lampione, nonostante fosse stato il primo a rendersi davvero conto di quando aveva cominciato a far capolino agli inizi – senza però menzionarlo per non alimentare alcuna pressione; avanzò silenzioso, invece, verso il tabellone delle corse mentre Manjirou rimase un po’ più indietro, guardando distrattamente il cielo, l’odore di pioggia già nell’aria. Poi, l’affermazione dell’altro lo riportò su di sé.

«Credo non passeranno più autobus…».

Gli si avvicinò poco convinto di quanto udito, o più probabilmente il senso di colpa per avergli fatto perdere l’autobus gli impediva di metabolizzarne il significato e accettarlo. Adocchiato però il tabellone riscontrò quanto detto, sospirando in una maniera fin troppo rumorosa perché Takemichi dovette fraintendere ancora i motivi dietro.

«Mi dispiace averti fatto scomodare per nulla… Proverò a chiamare un taxi, ovviamente sali anche tu, ci penso io a-».

«Vieni da me».

Parlò prima di rendersene conto, le corde vocali stuzzicate prima che il pensiero di formasse concreto nella mente ma ormai era fatta, preoccuparsi non sarebbe servito a nulla e, in ogni caso, Takemichi era comunque libero di dirgli di no. Sarebbe stato persino più comprensibile che accettare, considerato il modo inspiegabile – per entrambi – in cui si era comportato prima.

Il silenzio proveniente dall’altra parte non fu affatto confortante, trovare il coraggio di voltarsi si rivelò molto più complicato di quanto immaginasse perché il significato della sua proposta assumeva sempre più forma, man mano che i secondi passavano.

Quando estrasse il telefono dalla tasca per chiamare il taxi da sé, le dita di Hanagaki strattonarono piano la sua manica e a quel punto si ritrovò pressoché costretto a guardarlo – ancora rosso, con lo sguardo nel suo, mentre annuiva.

 

 

Mikey non ricordava da quanto tempo non ricevesse un ospite. Anzi, era sicuro non ne avesse mai avuto uno prima, all’infuori di Emma e Ken ma loro non poteva considerarli tali.

Era confusionario, avere qualcuno di estraneo ai propri spazi gironzolarvi liberamente con quell’aria così curiosa, come se ci fosse davvero qualcosa di interessante nella sua casa spoglia, l’arredamento così essenziale da dare più l’impressione di essere un’abitazione in via di trasloco; i mobili e le tende rigorosamente scuri per divorare qualsiasi forma di luce.

Takemichi non poteva trovarsi in un posto più inadatto, lo pensò quasi con rabbia, pensiero però interrotto dalla domanda del ragazzo, chinato verso un mobiletto, unico con sopra delle cornici.

«È lei Emma-chan?» chiese genuino, per poi sorridere più apertamente quando ricevette un assenso in risposta «È molto bella. Ti somiglia».

Ci volle poco perché capisse quanto fraintendibile potesse risultare quella consequenzialità, difatti Manjirou stesso era rimasto sorpreso dal complimento implicito ed era certo Takemichi lo intendesse davvero, anche quando iniziò ad agitare le braccia davanti al viso per scacciar via la vergogna – o il peso dello sguardo dell’ascian su di sé – per cercare di spiegarsi. Non smentì quanto inteso da quell’affermazione né se la rimangiò, perlomeno nulla di ciò che Manjirou riuscì a captare nelle sue parole sconclusionate sembrava farlo. Così impacciato, preda totale di vergogna e panico che solo un suono riuscì a interrompere il fiume in piena delle sue giustificazioni, rimanendo a osservarlo con uno stupore indescrivibile; qualcosa che il padrone di casa stesso faticò a riconoscere nell’immediato.

La sua stessa risata.

 

«Certo che da qua su hai una vista meravigliosa, Mikey-kun».

Quello scrollò le spalle in risposta, preferendo liquidarla in quel modo piuttosto di dar come risposta la verità – di aver scelto un appartamento in alto per sfuggire agli occhi dei balconi e delle finestre circostanti, di aver scelto tende scure e spesse di proposito, di non affacciarsi mai lui stesso perché aveva nutrito per tanto tempo l’egoismo della sofferenza e non voleva saperne della normalità di chi aveva ancora un’ombra. Certe volte era doloroso persino osservare quelle di Kenchin ed Emma, in particolar modo della sorella, invidioso di come fossero sempre insieme, legate al punto da formarne una grande e indissolubile.

Anche l’ombra di Takemichi, illuminato dall’abat-jour al suo fianco e dalle luci della città ormai ammantata nel buio serale, sembrava immensa già così, da sola.

Takemichi che era evidente non vedesse l’ora di guardar fuori dal primo momento in cui aveva compreso quanto davvero in alto fossero, ma prima di scostare il tessuto protettivo gli aveva chiesto se andasse bene. Non se potesse, se a Manjirou non disturbasse il pensiero di non essere più del tutto al riparo.

La mia ombra sarà sempre grande abbastanza per entrambi.

Strinse le labbra, il capo leggermente chino per nascondersi, ancora, dietro le ciocche chiare sulla fronte.

Tutto, di lui, voleva chiedere scusa.

«Mi dispiace… per prima».

L’espressione entusiasta di Hanagaki svanì di colpo, sostituita da una più mortificata, il che peggiorò l’umore di Mikey stesso che non aveva alcuna intenzione di angosciarlo ulteriormente. Perciò continuò, prima di permettere all’altro alcuna replica o giustificazione in suo favore.

«Ho fatto tardi perché» si indicò; fece una pausa intenzionale, non aveva voglia di ricordare il motivo specifico, non lo riteneva importante «la mia ombra continua a sparire. Ci sono voluti più di dieci anni perché tornasse, non è nemmeno davvero considerabile un’ombra a tutti gli effetti».

«Mikey-kun-».

«È la facilità con cui sparisce, che mi fa arrabbiare davvero. In un modo che spero tu non debba conoscere mai. Ho iniziato a crederci, ma mi sono posto davanti a delle aspettative che distruggo semplicemente svegliandomi, guardandomi intorno».

Sentì gli anelli delle tende tintinnare, il fruscio del tessuto leggermente stropicciato e la luce attenuarsi, sufficiente per capire Takemichi le avesse tirate e chiuse, per poi avanzare piano verso di sé. Il tono di Manjirou si fece brusco al notarlo e quanto disse rapido lo bloccò lì dov’era, a metà strada.

«Non voglio tu mi veda senza ombra» quasi ringhiò, la rabbia trattenuta a denti stretti, rivolta a se stesso per l’ammissione di una debolezza incapace di fronteggiare «Non voglio ti renda conto di quanto non sia in grado di farcela mai. Di quanto, pur provandoci, non cambi nulla. Più ci provo, più distruggo tutto».

I passi dell’altro ripresero, più spediti di prima, intravide le punte delle ciabatte – offertegli per ospitalità – dabbasso ma non le distinse davvero, ormai in piena corsa verso quel discorso autodistruttivo.

Non poteva guardarlo.

«Quando smetterò di avere un’ombra, di nuovo, Emma e Kenchin staranno male» continuò, la voce sempre più graffiante, un lamento rancoroso e colpevolizzante che da tanto sentiva incastrato dentro di sé, smanioso di uscire, di liberare tutta quell’oscurità che impediva alla luce di andare oltre.

«Mikey-kun».

«Tu» enfatizzò, «tu ti renderai conto di quanto tempo hai perso nel dare retta a una persona che non farà niente se non trascinarti-».

«Mikey-kun!».

Fece sorprendentemente male l’impatto dei palmi di Takemichi contro le guance, come se non bastasse la repentinità con cui lo portò a risollevare il volto per guardarlo in pieno rianimò la fitta di diverso tempo prima, quando era arrivato alla pasticceria e le vertebre e le ossa del collo lo avevano punito per il movimento improvviso.

Erano piuttosto ruvidi, i palmi, riuscì a pensare in un barlume di lucidità, mentre un pizzicore sempre più fastidioso iniziava a propagarsi per tutta la pelle colpita, tuttavia era un bruciore in sottofondo poiché tutta l’attenzione di Manjirou era concentrata sul modo in cui Takemichi lo stesse fissando, così serio da sembrare sul punto di fargli una ramanzina.

Il tono del ragazzo si mantenne deciso e tuttavia basso, le mani senza alcuna intenzione di spostarsi da lì.

«Mikey-kun» lo richiamò una terza volta, giusto per essere certo lo stesse ascoltando – almeno quella fu la sensazione del diretto interessato, che annuì per riflesso, ancora sconvolto dal gesto e, gradualmente, dalla vicinanza raggiunta.

«Non ho mai pensato tu fossi responsabile di avere un’ombra» iniziò, stringendo la presa quando l’ascian fece per protestare «Non ho mai voluto ti sentissi in dovere di mantenerla, o di colpevolizzarti nel non riuscirci. Né io né, sono sicuro, la tua famiglia. Il fatto che tu riesca ad averne una, certe volte, è meraviglioso perché significa che quel giorno va meglio, ma» diede un leggero scossone ai polsi quando il più grande cercò di distogliere lo sguardo e un po’ Mikey lo detestò per questo, un po’ gliene fu grato perché si sentiva ancorato al terreno solo per il contatto ferreo e solido con Takemichi «non deve essere la tua ossessione. Se la tua ombra ieri c’era e oggi no, va bene. Non è colpa tua. Non è così facile, sai? Anche chi l’ha costantemente si ritrova ad averla un po’ più sbiadita, qualche volta. Prima della pasticceria lavoravo in un negozietto di videonoleggio, la mia vita era… abbastanza diversa, e la mia ombra ho creduto davvero di non riuscire a vederla più».

Manjirou faticò a credere alle sole parole, perfettamente consapevole di quanto Takemichi stesso fosse una fonte di luce incontenibile, con un’ombra definita e impossibile da non notare; fu terribile riscontrare negli occhi del ragazzo la sincerità di quella confidenza, con quel sorriso mesto eppur gentile, così bello e importante che si ritrovò a stringere i polsi dell’altro nei propri pugni, con delicatezza, per sentirlo più vicino e concreto davanti a sé.

La consapevolezza della fortuna di averlo trovato – di essere stato trovato – ad allargargli il petto, spingerlo a inspirare il profumo dei taiyaki che era forte e dolcissimo a quella distanza ridotta.

La pressione sulle sue guance si rilassò, tanto da fargli pensare stesse per allontanarsi, invece Hanagaki rimase lì, semmai approfittò del contatto ricambiato per poggiare la fronte contro la sua; i pochi centimetri di altezza in più risaltarono in quel momento, agli occhi di Manjirou, osservando le spalle dell’altro appena più in alto delle proprie. Non erano particolarmente larghe, anzi, persino nelle sue condizioni Mikey appariva più robusto, ciononostante pensò non avrebbe voluto nulla a cui aggrapparsi per non cadere se non quelle stesse spalle che tante volte avevano sfiorato le sue, camminando fianco a fianco alla sera, verso le fermata o in pasticceria, passandogli accanto di corsa per consegnargli il suo personalissimo sacchetto di taiyaki senza farsi scoprire.

Per qualche motivo solo adesso, a quel ricordo, gli venne da piangere.

«Mikey… Manjirou».

Probabilmente avrebbe pianto davvero, perché era bastato così poco per provare un dolore terribile al centro del petto, del tutto diverso da quello a cui era abituato e del quale, in altri momenti, ne avrebbe temuto il ritorno. Ora c’era Takemichi davanti a lui, però, ed era confortante pensare quella sensazione fosse dovuta a lui perché niente di proveniente dall’altro avrebbe mai potuto nuocergli. Erano fitte di pienezza, un principio di sazietà di soli assaggi ma dei quali era riuscito a risentire il sapore dopo tanto tempo.

«Non sei tenuto a fare niente, tanto meno da solo. Noi ti siamo e saremo vicini, sempre. Ti…» si fermò, Manjirou non riuscì a distinguerne l’espressione, la vista appannata e le palpebre inferiori sembravano pesanti come non ricordava di averle mai percepite, impazienti di svuotarsi di quelle lacrime accumulate fin troppo; l’unica cosa di cui era certo era il battito accelerato che sentiva sotto i polpastrelli, ancora serrati attorno ai polsi di Takemichi, quando questo concluse in un balbettio acuto: «T-ti amiamo, qualunque cosa accada».

In un recesso della propria coscienza, Mikey avvertì il sobbalzò del ragazzo quando le lacrime gli impattarono contro le dita, incredibilmente calde e altrettanto in fretta congelate lì, aumentando senza controllo sotto gli sforzi di tenere gli occhi aperti e non lasciare il pianto li strizzasse.

Voleva vederlo. Voleva mettere a fuoco il viso che sentì in fiamme sotto i suoi di palmi, adesso, dopo aver abbandonato a malincuore la prova tangibile di quanto non vi fosse possibilità di equivoco in quelle parole, scivolate come una carezza fino alla sua anima per lì posarsi. Si sporse, nel tentativo di guardarlo da vicino, più di quanto già non fosse, mentre Hanagaki cercava invano di asciugare il volto lucido, umido e al tempo stesso caldo, vivo per ogni goccia di dolore versata e sorsata di amore ricevuta.

Per la prima volta in vita sua, desiderò berla quella speranza, la voce di Takemichi in testa ripeteva costantemente le stesse parole e Manjirou si avvicinò ancora, a un passo dalle labbra dell’altro e qui si fermò, perché doveva dare spazio e tempo di scegliere e quando Takemichi lo baciò, tremante sotto le sue mani, sentì l’aria entrare nei polmoni e respirare come non era mai riuscito a fare – come non ricordava di essere mai stato capace.

Non riuscì a dire altro, cullato dall’abbraccio in cui il ragazzo lo avvolse, goffo e in imbarazzo senza però allontanarsi, neppure per riprendere fiato.

Se Manjirou avesse guardato l’ombra di Takemichi si sarebbe reso conto che era grande, davvero tanto, solo quando erano insieme; come lo spicchio residuo durante un’eclissi, leggero e impercettibile, proprio come aveva sempre invidiato a Ken ed Emma.
 

 

He says he doesn’t believe anything much he hears these days
I say, “Believe in one thing: I won’t go away.”

Taylor Swift – Forever Winter

 

   
 
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