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Autore: holls    17/03/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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27. Una giornata da ricordare

 

 

Quella giornata non iniziò nel migliore dei modi.

          Stavo per andare da Winston a comprarmi un pacchetto di Marlboro ed ero già a metà strada, quando la paranoia mi aveva colto e avevo cominciato a chiedermi se avessi chiuso la porta di casa. Avevo spento la luce della sala, mi ero sbattuto la porta dietro la schiena - e aveva fatto un tonfo terribile perché sì, quella casa era più vecchia e decrepita di me -, ma poi? Avevo girato quelle maledette chiavi nella serratura? Non avevo sentito il tintinnio del metallo, quel dolce suono di chiavi nella toppa che mi avrebbe liberato da ogni dubbio?

          E invece no, non me lo ricordavo. Nella mia mente, un attimo dopo ero già sul pianerottolo pronto a comprarmi quel maledetto pacchetto di Marlboro. Riavvolsi il nastro dei ricordi, ma nada. E quindi, tra improperi sfiorati (avevo quasi pestato il ricordino di un cane maledetto), avevo percorso di nuovo tutta la strada fino a casa. Di nuovo, sì.

E la porta, ovviamente, era chiusa a chiave.

Visto che avevo dovuto riaprirla per assicurarmi che fosse chiusa, memorizzai la sequenza di azioni nella mia mente: avevo afferrato le chiavi, le avevo messe nella serratura e poi le avevo girate. La porta era chiusa e quella volta ne ero davvero sicuro.

Schizzai fuori dal condominio perché la voglia di rigirarmi un pacchetto nuovo tra le dita stava salendo in maniera vertiginosa. Mi infilai le mani in tasca e sfiorai qualche verdone stropicciato, poi li tirai fuori, li stiracchiai e appurai di averne abbastanza per comprarmi le sigarette.

Be’, “abbastanza” era un eufemismo. Diciamo pure che erano soldi parecchio contati.

Passai davanti al bar Chucky, un cumulo di sporcizia e di merce sottobanco, ma l’avevo trovato chiuso con le transenne della polizia. Forse il karma aveva girato anche per quello zotico che vedeva il bagnoschiuma due volte l’anno. In quel momento pensai che non avrei voluto essere il suo compagno di cella, ma in fin dei conti non volevo essere nemmeno qualcuno nel raggio di quindici chilometri da lui.

Così avevo proseguito verso Winston, un negozietto infilato in una traversa che vendeva giornali, alcolici e strane schifezze di dubbia provenienza. Una volta avevo provato ad assaggiare quella roba, che per me non aveva un nome visto che era scritto in caratteri incomprensibili, e per poco non avevo rivomitato tutto all’istante. All’apparenza sembravano semplici bastoncini rossicci, simili a delle salsicce pressate; ma in bocca avevano tutto un altro sapore, che nemmeno la fame disperata mi aveva fatto accettare. Così, a malincuore, avevo buttato nel cestino quegli stecchini e i tre dollari che mi erano costati. Quella notte, forse, ci piansi pure un po’.

Winston era un tipo ben piazzato, ricciolino e con un paio di occhiali da lettura che lo facevano sembrare un intellettuale. Probabilmente non aveva nemmeno la terza media, ma sapeva leggere e far di conto, e che altro gli serviva per mandare avanti quella baracca e vendere sigarette sottobanco?

Lui era al bancone a contare soldi a capo chino, così il mio sguardo si spostò sul calendario dietro di lui. Winston era di certo un tipo strano: niente donne in abiti succinti o direttamente svestite, ma solo la gigantografia di un cagnolino che per quantità di pelo e di riccio somigliava decisamente a lui. Sulla destra, poco distante e appesa con una puntina, spuntava la foto di George W. Bush in giacca e cravatta, neo-presidente con la mano sul petto durante il giuramento. D’istinto misi una mano sul portafogli.

«Ehi, Winston. Il solito, grazie.»

Sganciai i soldi che avevo meticolosamente preparato e li ricontai; non mancava niente. Comprare le Marlboro a dieci dollari e novanta invece che quattordici era un affare per cui valeva la pena rischiare. Misi spiccioli e banconote sul bancone, mentre lui si guardò un attimo intorno prima di porgermi il pacchetto. Allungai una mano per prenderlo, quando mi afferrò il polso.

«Spiacente, bel biondino, ma manca un dollaro.»

«Cosa?»

Liberai il polso da quella presa e ricontai. Non mancava nulla.

«Non cercare di fare il furbo con me, Winston. Sono dieci e novanta, vanno bene.»

Lui indicò un cartello dietro di lui.

“Il governo ha aumentato le tasse. Tutto costa un dollaro in più. Prezzi di merda per un paese di merda.”

«Ma tu vendi sigarette illegalmente, le tasse del governo non c’entrano un cazzo.»

«Si chiamano affari, tesoro. E sono undici e novanta.»

Sospirai, poi mi cacciai le mani in tasca per vedere se avevo altro. L’unica cosa che trovai furono un paio di briciole incastrate in lanicci secolari.

«Sì, in effetti è proprio una bella… merda. Non ho altro, Winston.»

Lui riprese il pacchetto.

«Niente soldi, niente sigarette. È così che va il mondo, bello. Oggi sei tu, domani sono io.»

Una frase del genere in bocca a lui non aveva alcun senso, se non quello di farlo sembrare uno pseudo-intellettuale da quattro soldi. Ridacchiai e lo sfidai da sopra i suoi occhiali.

«Fammene almeno sfilare una.»

«E come lo rivendo questo pacchetto, poi?»

Feci spallucce.

«Oggi hai fregato me, domani freghi il prossimo. Non è così che hai detto?»

Winston mi guardò con la bocca tirata e gli occhiali sulla punta del naso. Era abbastanza ridicolo, ma poi abbassò lo sguardo verso il pacchetto e sfilò due sigarette per me. Dopodiché osservò i soldi ancora rimasti sul bancone e ne prese un po’.

«Immagino di doverti ringraziare.»

Lui mi porse le sigarette e io le afferrai, per poi metterle in tasca, cercando di non pensare a quelle bricioline imputridite. Ripresi poi i soldi rimasti e me li ricacciai da dove erano venuti.

«Vai a farti fottere, Nathan Hayworth.»

«Altrettanto, Winston, altrettanto.»

Uscii da quel negozio e me tornai trionfante, per così dire, verso casa. Quando trovai il tempo di contare i soldi rimasti, mi accorsi che si era intascato due dollari.

Con le dipendenze funzionava così, in fondo.

 

C’è un girone dell’inferno per tutti, probabilmente, e il mio non stava tardando ad arrivare.

Intanto, le sigarette di Winston erano umide. Ne avevo tirata fuori una e mi era parso di avere davanti un Jack Russell in miniatura. Corpo bianco e chiazze marroni, niente che un colpo di phon non avrebbe potuto sistemare. Ma il phon era in bagno e io mi ero appena schiantato sul divano e tutto ciò di cui avevo bisogno era una sigaretta in bocca. Così l’avevo accesa e il sapore del tabacco era anche più prepotente del solito. Una buona sigaretta, tutto sommato.

          Finii con l’addormentarmi. Nella mia mente si rincorrevano immagini di mia madre che urlava, io che piangevo, e poi ci si metteva in mezzo pure Alan che mi lanciava un giornale comunista. Io rimanevo piantato sul divano, incapace di muovermi, mentre il topo morto tornava vivo e Carter sbatteva sulla porta-finestra con le mani sporche di ketchup.

          Sbatteva.

          Sbatteva.

          E sbatteva ancora, con quei pugnetti cicciosi.

          Sbatteva e il rumore era sordo e secco.

Sbatteva e il rumore diventò un trillo assordante, che mi fece spalancare le palpebre all’istante.

Fissai il soffitto della sala per qualche istante, poi il trillo acuto mi svegliò del tutto. Nemmeno a dirlo, era il campanello.

«Sì, sì, arrivo», biascicai, mentre cercavo di ritrovare la dignità perduta sistemandomi camicia e capelli. Mi infilai le ciabatte, dopodiché mi stirai gli abiti e cercai di togliermi dalla faccia quell’aria assonnata. Camminai fino alla porta, dove sbirciai dallo spioncino.

Uomini con camicia blu e un cappellino conosciuto sembrarono quasi fissarmi di rimando.

«Signor Hayworth, è in casa? Polizia di New York.»

oh cazzo.

 

Quando mi misero in sala d’aspetto, mi resi conto che il mio girone era quello. Vedevo impiegati e poliziotti camminare a passo svelto davanti alla mia poltroncina, che capii essere il mio contrappasso. Era ancora più scomoda dell’ultima volta, e passai buona parte della mia attesa a cercare ancora posizioni comode - oltre a morire d’ansia, s’intende.

Eppure, fui sorpreso dal mio rinnovato senso dell’umorismo, che mi aiutò a tenere a bada l’agitazione pure in un momento come quello. Il suono di risate mute mi aiutava a non sentire il mio battito accelerato, mentre granuli invisibili sembravano volermi bloccare le narici e il respiro.

          Alan non era venuto alla retata. Be’, forse “retata” era un po’ esagerato, ma i poliziotti (tra cui c’era anche Ash) erano usciti da casa con un cellulare in mano e uno sguardo che non mi aveva fatto dormire. Poi era arrivata la convocazione, che mi aspettavo ormai di ricevere.

          Puntavo gli occhi su chiunque passasse davanti a me, pensando che il malcapitato di turno fosse il mio carceriere; quando poi lo vedevo superarmi con indifferenza, riabbassavo lo sguardo e buttavo fuori un po’ d’agitazione, per poi ricominciare il giochino non appena risbucava qualcuno.

La mia ansia procedette con alti e bassi per dieci minuti buoni.

Poi, alla fine, sempre quel malcapitato si fermò davanti a me e fu in quel momento che pensai di non riuscire più a respirare. L’uomo mi fece cenno di seguirlo e un soffio gelido mi ghiacciò tutto il corpo. Le mie gambe si mossero da sole, come in uno scatto automatico, ma il mio cervello era completamente in pappa, incapace di ragionare.

Poi pensai ad Alan. Prima come a un amico, ma quel pensiero fu squarciato da una piccola e subdola insinuazione. La polizia era arrivata pochi giorni dopo che ci eravamo visti. Era stata una coincidenza? Forse c’entrava qualcosa col cellulare?

La mia mente si risvegliò dal torpore in cui era caduta e cominciò a sfrecciare tra i ricordi.

Il tizio del giornale comunista, così chiacchierone… era stato un caso? Mi aveva tenuto sulla porta per un periodo infinito e io, in tutto quel tempo, avevo dato le spalle ad Alan.

Che cosa era successo mentre non vedevo?

Possibile che…?

«Ci rivediamo, signor Hayworth.»

Allungai la mano verso il signor Church e lui me la stritolò letteralmente. Evitai di rispondere al suo sarcasmo. L’attimo dopo mi resi conto che eravamo arrivati in quella che, evidentemente, era la sala per gli interrogatori.

«Bene, si sieda pure. Il mio collega Ashton Stoner mi assisterà durante questa chiacchierata.»

“Chiacchierata”. Non riuscii a farmi spuntare nemmeno un sorriso.

Presi posto, ancora una volta, su quella sedia troppo grande per me, faccia a faccia con il signor Church, con Ashton in piedi che lo assisteva come un avvoltoio e Alan là fuori, stranamente visibile e a braccia conserte, a fissare il tutto dall’ampio vetro con sguardo accigliato. Una bella combriccola, sì.

L’uomo davanti a me iniziò con un preambolo sui miei diritti e sul registratore che aveva posato sulla scrivania, poi tirò fuori un piccolo sacchettino trasparente, contenente il cellulare che avevano sequestrato a casa mia. Lo posò sul tavolo e poi lo allungò appena verso di me.

D’istinto mi avvicinai verso l’oggetto. Non avevo avuto modo di vederlo chiaramente quando lo avevano portato via, preso com’ero dall’agitazione e dalla concitazione del momento. Era un cellulare nero, con sportellino e antenna, e un’aria vagamente familiare. Lo avevo già visto da qualche parte, ma non riuscivo a ricordare dove. L’attimo dopo, ripensai ancora ad Alan e a quello che era successo a casa mia qualche giorno prima.

No, non era plausibile un’ipotesi del genere. Perché Alan avrebbe dovuto nascondere quel telefono sotto al mio divano? Non poteva essere.

«Riconosce questo cellulare?»

Ci pensai un attimo, scacciando i pensieri su Alan. Alzai lo sguardo verso di lui, al di là del vetro, ma non ci incrociammo. Tornai quindi con gli occhi sulla scrivania.

«Mi dice qualcosa, penso di averlo già visto, ma non ricordo dove.»

«Saprebbe dirci a chi appartiene questo telefono e perché si trovava a casa sua?»

Feci spallucce, perché non lo sapevo. Provai a sforzarmi, ma proprio non mi veniva. Ne scrutai la forma, la marca, provai a fare qualche associazione mentale con il colore… ma niente. E mi stizziva non riuscire a ricordare, perché finché non avessi puntato il dito contro qualcuno, lo avrei avuto puntato contro di me.

«Non lo so. Non è mio e non so perché fosse a casa mia.»

Ash sospirò. Alzai gli occhi verso di lui e lo trovai a gambe divaricate e braccia conserte, l’espressione scocciata. Church, invece, aveva stampato in faccia il suo solito sorrisetto irritante, come un baro che si frega le mani all’inizio di una partita scontata. Mi chiesi se il mio destino fosse già stato scritto o se ci fosse qualche speranza, per me, di uscirne vivo.

«Se non è suo, come ci è finito sotto al divano?»

«Forse ce l’ha messo qualcuno. Io sicuramente no. Come ho detto, non sapevo che ci fosse un telefono sotto al mio divano.»

Ashton cominciò a tamburellare le dita di una mano sull’avambraccio. Il suo gesto non emetteva alcun suono, eppure mi pareva di sentire quel picchiettare rimbombarmi nelle orecchie, come un orologio impazzito sopra la mia testa che batteva il tempo.

«E allora perché qualcuno avrebbe dovuto nasconderlo a casa sua?»

Una vena di sarcasmo mi colse, ma riuscii a tenerla per me. Se lo avessi saputo, di certo non mi sarei lasciato infilare in quel caso, perché ci mancava solo il cellulare. Feci spallucce.

«Non lo so. Forse mi sono fatto qualche nemico, anche se non vedo bene il perché.»

Oddio, in realtà forse un misero perché c’era. Ripensai alle mie capatine al McDonald e al fatto che con ogni probabilità qualcuno non aveva gradito la mia presenza là dentro, ma da lì a volermi mettere in casa quello che sembrava un oggetto compromettente ce ne passava.

Church mi fissò a labbra strette, come un professore troppo scocciato dalle scuse di uno studente che non aveva studiato. Poi schioccò la lingua e sospirò.

«D’accordo. Volendo seguire un attimo il suo filone, signor Hayworth, saprebbe dirci chi sono le ultime persone che sono venute a casa sua?»

Altre spallucce da parte mia. Ripercorsi le facce che avevano varcato la soglia di casa. Barrai subito quella del tizio comunista, perché non era umanamente possibile che potesse avercelo messo lui, oltre al fatto che non ne avrebbe avuto motivo; quella di Alan era in prima posizione, perché era stata la persona che avevo frequentato di più in quel periodo, ma c’era anche Harvey, che non vedevo né sentivo da una vita.

Tirare in ballo Alan mi sembrò pericoloso in quel momento. Forse avevo paura di metterlo in difficoltà, o forse esercitava su di me un potere che non avrei dovuto avvertire, ma c’era. Mi morsi le labbra, in preda a una crisi di coscienza, poi la codardia ebbe la meglio.

«Be’, per esempio Harvey.» Vidi già Church aprire bocca, pertanto decisi di precederlo. «Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequentavo, però non ci sentiamo da un bel po’. Ma è l’unico che è venuto a casa nell’ultimo periodo, quindi non vedo molte altre ipotesi.»

«Saprebbe quantificare da quanto tempo non lo sente?»

Feci un respiro profondo. Provai a prendere qualche evento come riferimento, ma senza successo. Non mi venne in mente nessuno spartiacque.

«Non lo so, sarà circa un mesetto.»

Church sospirò. Sembrò mollare un attimo la presa e darmi un momento di tregua, mentre io mi lasciavo cadere sulla sedia, mentalmente stanco. Spostai lo sguardo verso Alan, ancora dietro al vetro, ma guardava altrove, verso i due colleghi.

Intanto, la domanda del giorno continuava a frullarmi in testa: chi aveva messo quel telefono lì? Sembrava un oggetto importante, con ogni probabilità legato alla rapina, anche se erano solo mie deduzioni. La polizia non si era voluta sbottonare su cosa rappresentasse quell’oggetto e non pensavo che lo avrebbero fatto. Church incrociò le mani e le pose sulla scrivania, segno che era pronto a ricominciare con le domande. Il mio battito tornò ad aumentare e la testa cominciò a dolermi.

«Bene, signor Hayworth. Saprebbe dirci dove si trovava l’undici agosto, tra le sette e le otto e mezzo di sera?»

«Cosa?!»

Avevo risposto d’impulso, senza neanche pensarci. L’undici agosto? Era passato già più di un mese! Come potevo ricordare dov’ero? E soprattutto, cosa ci incastrava con il telefono? Certo, non potevano dirmelo, ma la sensazione di essere stato messo in mezzo cominciò a risalirmi su per la gola e ad assumere fattezze sempre più concrete.

Il mio respiro si accorciò. Gli occhi cominciarono a vagare frenetici qua e là nella stanza, come in cerca di una risposta che non poteva esserci. Poi si soffermarono su Alan e i nostri sguardi si incrociarono quasi per miracolo, ma anche lui sembrava smarrito quanto me.

Undici agosto, undici agosto…

Provai a rimettere insieme i pezzi. Era stato sicuramente prima del pestaggio, ma non riuscivo a ricordare altri eventi. Era stato prima o dopo aver trovato Ryan al McDonald’s? Prima o dopo l’ultima volta che avevo visto mio padre?

Undici agosto, undici agosto…

… proprio una data da ricordare.

Mi fermai.

“Proprio una data da ricordare”.

Anzi, no; avevo detto: “Undici agosto duemilauno: proprio una data da ricordare”.

Sì, sì, lo avevo detto. O quantomeno pensato.

«Ha ricordato qualcosa, signor Hayworth?»

Ignorai le parole di Church per permettere ai ricordi di fluire. I pezzi piano piano andarono al loro posto e cominciai a ricordare lo sconforto, la delusione e l’amarezza per quell’undici agosto. Lasciai che quelle sensazioni si facessero strada in me, fino a che non avvertii dei gemiti nella mia testa e lo stare seduto mi richiamò alla mente il dolore per quel rapporto troppo violento… e l’umiliazione di essere stato usato, di essere servito come corpo in cui scaricarsi, né più né meno.

Le mani di Harvey scorrevano su di me, ma senza accarezzarmi; il suo unico scopo era stato eccitarmi quel poco che bastava per farmi acconsentire. E io avevo acconsentito, oh sì, perché l’emozione del rivederlo aveva spazzato via ogni mia razionalità.

«Signor Hayworth?»

Mi rimisi comodo sulla sedia, come se quel dolore fisico fosse ancora lì e stessi cercando di scacciarlo.

Guardai Church negli occhi e mi sentii nudo.

«Sì, sì, mi sono ricordato qualcosa. Ero con Harvey Walker, quel giorno. Non ricordo fino a che ora, ma eravamo insieme.»

«Che cosa avete fatto in quel lasso di tempo?»

In parte mi aspettavo una domanda del genere, ma la mia reazione non fu quella che avevo previsto. Immaginavo di arrossire e di ricordare la cosa con un filo di amarezza; invece, tutto ciò a cui riuscii a pensare era che mi veniva da vomitare.

«Niente, siamo rimasti a casa da me, a fare due chiacchiere. Lui poi è andato via di corsa perché aveva da fare.»

«E lei è rimasto a casa tutta la sera?»

Mi ricordai della sua voce gentile, di quel filo di apprensione nel pronunciare il mio nome, l’invito. Parte del mio dolore fisico immaginario sparì.

«No, ho chiamato l’agente Scottfield e poi sono andato a casa sua.»

Sia Church che Ashton si girarono all’unisono verso Alan. Lui si limitò ad annuire appena, gesto che produsse una smorfia di sorpresa nel viso di Church.

Una strana sensazione di sollievo mi permise di rilassarmi e solo un attimo dopo capii il perché: Alan era il mio alibi. Non avevo la certezza che la polizia volesse accusarmi di qualcosa, ma ebbi come la sensazione che l’essere andato da Alan quella sera mi avesse fatto perdere posizioni nella classifica dei sospettati per la loro indagine.

Per via di un meccanismo di certo perverso, cominciai a ringraziare Harvey.

Grazie, Harvey, per avermi trattato di merda.

Grazie, Harvey, per avermi scopato con così tanta indifferenza da avermi fatto inserire l’undici agosto come una giornata da ricordare.

Grazie, Alan, per avermi invitato a mangiare da te.

E grazie a me stesso, ovviamente, per essere corso da lui senza un attimo di esitazione.

La sfilza di ringraziamenti più lunga e corposa della mia vita.

Sentii i nervi rilassarsi. Il dolore fisico tornò a essere immaginario. Mi abbandonai di nuovo a quella sedia, poi chiusi gli occhi un attimo, il tempo di raccogliere le forze per uscire vivo di lì. Ormai il peggio era passato, me lo sentivo. La stanza non sembrava più asettica e soffocante, ma solo un po’ troppo bianca e vuota, così come l’espressione di Church, che sembrò sentirsi smarrito in seguito alle mie dichiarazioni e alle conferme di Alan.

Lanciai ancora un’altra occhiata a quel ragazzo dietro al vetro e ritenni impossibile che lui c’entrasse qualcosa con quel telefono, vista anche la rapidità con cui aveva confermato la mia versione. Per quanto ne sapevo, comunque, poteva anche essere stata opera di un criminale qualsiasi. Qualcuno ingaggiato da Ryan? Forzare la porta di casa o la porta-finestra non era certo difficile: il palazzo dove abitavo aveva almeno il doppio dei miei anni. Però ripensai anche ad Harvey, all’ultima volta che ci eravamo visti, al fatto che eravamo stati proprio su quel divano. Possibile che…?

«Va bene, ho capito. Un attimo solo.»

Church e Ashton si alzarono, uscirono dalla stanza e raggiunsero Alan, per poi sparire tutti e tre. Mi lasciarono solo coi miei pensieri su cui non volevo ritornare, almeno non del tutto. Però era vero che Harvey pippava e che io mi ero ribellato al modo in cui mi aveva trattato. Possibile che fosse legato a Ryan e al suo giro, che il cellulare fosse loro, e che Harvey mi avesse usato come capro espiatorio perché non avevo più voluto sottostare ai suoi giochetti? Eppure non aveva senso, perché un’ipotesi del genere avrebbe implicato una premeditazione - d’altronde, Harvey non poteva sapere che lo avrei mandato a fanculo quella sera e di certo, se c’entrava qualcosa, non poteva aver deciso di vendicarsi così su due piedi. Un’idea del genere sottintendeva che Ryan e Harvey avessero pensato tutto fin dall’inizio, fin dal giorno in cui lui era ricomparso, ed era un’ipotesi folle… e che mi faceva venire i brividi.

I tre tornarono dopo un po’, con in mano il solito foglio dove mi assumevo tutta la responsabilità per ciò che avevo dichiarato. Firmai e, dopo che ci fummo salutati come da copione, lasciai quella stanza con un’incredibile leggerezza da una parte e un’inedita pesantezza dall’altra.

 

Poco prima di uscire dalla centrale, fui richiamato da Alan. Il mio cuore perse un battito, ma non per romanticismo; mi voltai e non notai nessuna espressione ansiogena sul suo viso, quindi mi adattai di conseguenza. Per fortuna, fu una buona scelta.

          «Ehi, aspetta.»

          Attesi che arrivasse dov’ero, ormai quasi all’ingresso.

          «È successo qualcosa?»

          «No, non preoccuparti. Volevo solo dirti che è probabile che tu venga convocato ancora nei prossimi giorni.»

          «Ah, quindi devo aspettarmi qualche altra visita disinteressata da parte tua?»

          Una battuta al vetriolo che uscì senza il mio permesso. Non volevo essere cattivo con Alan (in fondo mi aveva appena salvato il culo), tuttavia, quando stavo con lui, c’era sempre quella perenne sensazione che mi stesse usando. Non come faceva Harvey, ma in un modo più subdolo e sottile, quasi invisibile. Allo stesso tempo, però, sapevo che le sue premure nei miei confronti erano sincere, che quel suo farmi sentire importante non era finzione. Sì, spesso stava con me anche per motivi lavorativi, ma non era mai solo per quello.

          Mi sentii in imbarazzo per come lo avevo trattato e arrossii un pochino.

«… Scusa, non volevo essere acido. È solo che...»

«Lo so. So cosa vuoi dire, lo capisco e mi dispiace. Ma le mie visite sono sempre disinteressate di base, che tu ci creda o no.»

Sbuffai con un mezzo sorriso addosso. In quel momento vidi passare due poliziotti, un uomo e una donna, che scherzavano tra loro; aspettai che fossero passati.

«Lo vedremo dopo la fine delle indagini.»

«Cioè quando te ne sarai andato?»

La sua risposta mi spiazzò. Non avevo mai pensato ai due eventi con quell’ovvio legame di causa e conseguenza, eppure era proprio così: stavo solo aspettando la fine delle indagini per andarmene. Avrei lasciato finalmente la mia famiglia, Harvey, tutti gli altri mentecatti che mi giravano intorno e… Alan. Sì, avrei lasciato pure lui. Lo avevo pensato più e più volte, ma ormai era una certezza il fatto che fossi capitato nella sua vita al momento sbagliato.

Mi accorsi solo in quel momento che Alan aveva piantato i suoi occhi nei miei. Si umettava le labbra con discrezione, dopodiché le schiudeva appena, per poi chiuderle subito dopo. Capivo che voleva dire qualcosa, ma sembrava non riuscirci. Smise di guardarmi per darsi un’occhiata intorno; aspettò che un gruppetto di persone defluisse prima di girarsi nuovamente verso di me.

Intorno a noi calò un innaturale silenzio, spezzato solo da qualche rumore di sottofondo tipico di un qualunque ufficio, ma niente che fosse in grado di disturbare il suo sguardo, di nuovo rivolto a me. Occhi che sentivo di stare per perdere, perché sapevo che una volta seduto su quell’aereo quegli sguardi non ci sarebbero più stati, o che sarebbero stati freddi e indifferenti. Fu un pensiero che si tradusse in una stilettata in pieno petto, e che diventò più dolorosa nel pensare che, dopo la mia partenza, l’importanza che avevo per lui sarebbe diminuita di giorno in giorno, fino a scomparire.

Fece qualche piccolo passo verso di me, il massimo che potesse concedersi in quell’ambiente. Strinse le labbra, le umettò ancora, poi trasse un respiro profondo.

«Non c’è proprio niente che possa farti cambiare idea?»

Rimasi gelato, un’altra volta. Una sfilza di risposte cominciarono a sfrecciarmi in testa perché, sì, diamine!, certo che c’era qualcosa per farmi cambiare idea. Bastava solo che lui avesse… o che io avessi…

Un legame. Era questo che volevo? Legarsi, affezionarsi? Affezionarsi davvero?

Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non uscì nulla. Un legame era un impegno. E se ci fossimo… stancati l’uno dell’altro? E come dovevo fare con Oliver, un ragazzo ormai morto ma così vivo, nel cuore di Alan?

«Ecco...»

Fu tutto quello che riuscii a dire. Qualcuno chiamò Alan dal corridoio. Lui si girò. Era Ash che aveva bisogno di lui, e anche con una certa urgenza. Nella mia testa, il rumore di sottofondo divenne ovattato, quello della voce di Ash quasi impalpabile.

Alan si voltò verso di me, forse per scusarsi, ma io fui più veloce.

«Ci vediamo», dissi, e uscii da quella porta senza voltarmi indietro.

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

Non so bene cosa dire su questo capitolo perché non ne conservo un grande ricordo – è stato uno degli ultimi che ho scritto, con molta molta fatica, prima di abbandonare la storia per mesi, forse anni. Oltretutto, l’ho scritto dopo che avevo eliminato di peso altri due capitoli che ho cestinato perché la trama aveva preso una piega che non mi piaceva, quindi vi lascio immaginare il mio stato d’animo.

Ci ho rimesso mano nei giorni scorsi e ho provato a migliorarlo un po’, ma non sono granché soddisfatta, e penso che sarà uno di quei capitoli che revisionerò a fondo prima di procedere con la pubblicazione su Amazon.

Ma parliamo anche di cose belle, anzi bellissime: ebbene, ho finito di scrivere la storia! Esatto, sono arrivata a mettere la parola “Fine” a questa avventura. Vi anticipo già che mi sono lasciata trasportare e che il capitolo 33 conta la bellezza di ventisette pagine… mi dispiace… XD Però sono felicissima, sia perché concludere qualcosa è sempre bello, sia perché almeno non vi lascio a piedi.

Nel prossimo capitolo vedremo che l’indagine giungerà a conclusione e che, più o meno, questo filone terminerà (anche se ci sarà una parte pure nel 30). Quindi forse vi starete chiedendo di cosa parleremo per altri cinque capitoli. Chissà… :P

 

A giovedì prossimo e grazie a tutti voi lettori per il sostegno <3

Simona

   
 
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