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Autore: futacookies    17/03/2022    0 recensioni
{kunikidazai}
«Kunikida-kun~»
«Dazai, cosa stai facendo?»
«Cosa ti sembra che stia facendo?»
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Doppo Kunikida, Osamu Dazai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NdA: scritta per la quarta settimana del cowt-12 indetto da Lande di Fandom, con il prompt: "Interruzione". In cui Dazai è assolutamente assetato di attenzioni e si diverte un sacco a rompere le scatole a Kunikida. Lievissimo accenno a contenuti vagamente sessuali perché io purtroppo sono una fanciulla puritana e queste cose non sono proprio capace di scriverle.

Buona lettura!




Come ottenere l’attenzione di Kunikida in poche, semplici mosse




1. Impedirgli di concentrarsi su qualunque cosa stia facendo
 

Stava leggendo documenti molto importanti. 

Kunikida si lasciò sfuggire un’imprecazione e si corresse — stava cercando di leggere documenti molto importanti. Quella mattina il Presidente l’aveva richiamato nel suo ufficio e gli aveva spiegato che avevano ricevuto l’incarico di proteggere un diplomatico nel corso della sua permanenza a Yokohama. La rogna, ovviamente, toccava a lui e Dazai, che secondo le esatte parole del Presidente avevano “abbastanza esperienza nel campo per occuparsene con maturità”, il che non solo implicava che davvero non c’era modo di scaricare la faccenda sui colleghi più giovani, ma che si aspettava anche che tenesse Dazai abbastanza in tiro da evitare incidenti internazionali, perché, insomma, la prima volta era stato un errore accettabile, la seconda un’incidente e la terza non si sarebbe mai dovuta verificare. 

«Oi, Kunikida-kun~»

Kunikida sbuffò, ignorando la voce di Dazai che stava cercando di chiedergli non sapeva nemmeno lui cosa, e tornò al capoverso del paragrafo che stava cercando di leggere, in cui erano elencati nel dettaglio gli appuntamenti a cui avrebbe dovuto partecipare il loro diplomatico, diversi incontri distribuiti malissimo nel corso di quattro intense giornate. Fortunatamente lui e Dazai si sarebbero dovuti limitare a controllare perimetri e neutralizzare minacce effettive, senza mai dover comparire nel quadro.

«Kunikida-kun~», ripetè Dazai, trascinando la voce. «Mi stai ignorando?»

Kunikida valutò per un istante le sue possibilità: poteva semplicemente tornare al suo documento se si sentiva disposto ad ignorare fermamente tutte le lamentele che indubbiamente sarebbero seguite se avesse continuato a non rispondere alle insistenti domande di Dazai, oppure avrebbe potuto assecondarlo, rispondergli brevemente e poi mandarlo a fare una lunga, lunghissima pausa pranzo al termine della quale sarebbe stato così tardi che non si sarebbe nemmeno dato la pena di ripresentarsi in ufficio. Quella tranquilla e pacifica prospettiva si faceva sempre più allettante con il passare dei secondi, in cui Dazai continuava a stonargli i timpani strillando il suo nome e protestando che non era molto carino da parte sua ignorarlo deliberatamente.

«Kunikida-kun~ Kunikida-kun~ Kunikida-kun~», cantilenò per qualche secondo.

Dopo che Kunikida ebbe deciso che non c’era altra possibilità, che gli toccava proprio continuare a lavorare facendo finta di niente, Dazai si alzò dalla sua terribilmente disordinata scrivania, su cui giaceva una pila abbandonata di documenti che avrebbe dovuto leggere ma che Kunikida sapeva non avrebbe neanche aperto — perché avrebbe dovuto sforzarsi, in fondo, se alla fine lui era sempre disposto a spiegargli tutto? Avrebbe dovuto essere molto più severo con lui. Anzi, avrebbe dovuto essere più severo con tutti — perché lui non faceva sconti a nessuno e di certo non ne faceva a Dazai.

Dazai che in quel momento stava-

Kunikida fece finta di non notarlo. Era passato finalmente al secondo paragrafo. Un’attenta lettura gli sarebbe costata non più di una decina di minuti, ma con tutto quel fracasso ce n’erano voluti quindici soltanto per mandare giù un paio di righe. Quello non era davvero modo di lavorare. 

«Dazai, per amor del cielo!», sbottò, riponendo i fogli in una cartellina.

Dazai, che si era steso sulla sua scrivania come un gatto troppo cresciuto, ovviamente fregandosene dell’ordine maniacale con cui aveva sistemato ogni singolo oggetto e sicuramente incurante di tutto il tempo che avrebbe dovuto sprecare per sistemare il disastro che stava facendo, lo guardava come se non avesse una sola preoccupazione al mondo — se non, naturalmente, la missione divina che si era scelto, ossia impedirgli di lavorare. 

«Sì?»

Kunikida si sistemò gli occhiali e sospirò rumorosamente. Si guardò intorno, nella speranza che qualcuno volesse cortesemente aiutarlo a spiegare a Dazai che quello non era un comportamento decente e che sarebbe dovuto immediatamente scendere dalla sua scrivania, ma non c’era più nessuno in ufficio. Nel momento in cui scoccava l’ora della pausa pranzo, i suoi colleghi si volatizzavano con una rapidità impressionante — se solo avessero lavorato con altrettanta efficienza, non gli sarebbe toccato continuare a strillare per ricordare imminenti scadenze a destra e sinistra.

Dazai lo fissava con un pigro sorriso sulle labbra — ricambiò il suo sguardo per qualche istante, finché non sentì una familiare sensazione di anticipazione alla bocca dello stomaco. Kunikida sapeva che avrebbe dovuto arrabbiarsi. Sapeva che avrebbe dovuto continuare ad opporre una fiera resistenza finché non l’avrebbe lasciato in pace. Sapeva perfettamente che seppure lo avesse ascoltato e gli avesse dato tutte le attenzioni che voleva, dopo non sarebbe tornato a lavorare diligentemente al suo fianco, perché semplicemente Dazai era fatto così. Sapeva tutto questo eppure non riusciva ad impedirsi di cedere.

«Cosa vuoi?»

«Mh?»

Dazai si tirò a sedere, con le gambe che penzolavano dal bordo della scrivania. 

«Ho detto-», Kunikida si schiarì la voce, sotto gli occhi divertiti dell’altro, «-cosa vuoi?»

«Mhh~», Dazai si prese qualche istante per rispondere, dondolando le gambe e chiudendo gli occhi per concentrarsi. «Voglio del ramen.»

«Adesso?»

Dazai scrollò le spalle: «Per pranzo.»

Kunikida guardò l’orologio. Certo, se fossero usciti in quel momento avrebbero avuto abbastanza tempo per raggiungere il ristorante all’angolo della strada, ordinare e magari fare anche una passeggiata per facilitare la digestione. Non era un piano terribile. In fondo Dazai era stato abbastanza gentile da fargli compagnia quando se n’erano andati tutti, e se non avesse fatto tante storie forse lui avrebbe continuato a lavorare e avrebbe dimenticato di pranzare — una cosa del genere di certo avrebbe distrutto il suo perfetto programma per la giornata e davvero non era accettabile.

«Va bene.», acconsentì, sconfitto, alzandosi per andare a recuperare il cappotto. 

Quando spinse indietro la sedia e si alzò, Dazai si sporse appena per piantargli un bacio sulla guancia — un tocco rapidissimo, appena accennato, una presa in giro bonaria, niente di più. Eppure abbastanza per lasciarlo interdetto per qualche secondo, indeciso su come reagire. Aprì la bocca, poi la richiuse, ripeté l’operazione per qualche istante prima di sentirsi come una specie di pesce rosso che cercava di respirare. 

«Comunque-», lo interruppe Dazai, «oggi offri tu. Ho dimenticato il portafoglio a casa.»

 
2. Porgli domande che scateneranno una crisi esistenziale
 

Kunikida stava lavorando. O meglio, stava cercando di lavorare — cosa che, tra l’altro, avrebbe dovuto fare anche Dazai, visto che quella mattina erano impegnati con un discorso pubblico che il loro diplomatico stava tenendo alle porte della sua ambasciata. Non c’era tantissima folla, il che rendeva molto più semplice tenere la situazione sotto controllo, ma i numerosi giornalisti presenti creavano abbastanza confusione da valere per dieci. 

Avevano messo in sicurezza il perimetro, entro i limiti consentiti per passare inosservati; avevano controllato ogni edificio della zona per assicurarsi che non ci fossero cecchini appostati che avrebbero potuto farlo fuori sotto i loro occhi impotenti; avevano — o meglio, lui aveva — indagato profusamente sui giornalisti che avrebbero presenziato, per assicurarsi che lì in mezzo non si nascondesse qualche minaccia sotto falso nome. Insomma, un lavoro certosino di cui era estremamente soddisfatto. Fino a quel momento.

«Kunikida-kun~»

Kunikida imprecò sottovoce e fece finta di non aver sentito. Si allontanò rapidamente da Dazai e pregò che quest’ultimo restasse fermo dov’era, come gli aveva chiesto qualche minuto prima. Non sentendo la sua presenza al suo fianco e nemmeno terribili mugugni che cercavano di richiamarlo, tirò un sospiro di sollievo. Davvero, di tutte le persone con cui gli era toccato lavorare, Dazai si qualificava come la peggiore — okay, forse non era il caso di essere così duri, in fondo lui sapeva che Dazai faceva del suo meglio, e che quando c’era bisogno di lui ci si poteva indubbiamente contare, ma, in ogni caso, Kunikida si riteneva un uomo dagli standard elevati, per cui avrebbe indubbiamente preferito dover collaborare con qualcuno che non trovasse continuamente scuse per non presentarsi in ufficio e che preferisse di gran lunga agire di testa proprio piuttosto che seguire l’accurato piano d’azione che lui si premurava di preparare prima di ogni missione. 

Per darsi un contegno e non far immediatamente capire a Dazai che, piuttosto che adempiere al suo compito, stava semplicemente scappando da lui e da qualunque sciocchezza volesse propinargli, diede un’altra occhiata al perimetro esterno dell’edificio, si affacciò dietro i cespugli, osservò con sospetto le ombre proiettati dalle querce piantate nel parco circostante e infine rifletté a lungo sulle condizioni climatiche della giornata e la direzione in cui soffiava il vento. Tutto estremamente regolare, tutto come doveva essere, se non per lo scoiattolo che aveva cercato di arrampicarsi sulla sua gamba e che aveva dovuto allontanare prima che gli riducesse il bordo del pantalone in brandelli.

Quando voltò le spalle per tornare indietro, si trovò faccia a faccia con Dazai, che chiaramente lo stava seguendo. Aveva stampato in volto un broncio petulante che preannunciava problemi e un luccichio negli occhi che non prometteva niente di buono.

«Kunikida-kun», cominciò, afferrando la manica della sua camicia per tirarla un po’, «ma io ti piaccio?»

Kunikida sbuffò. Si precipitò di nuovo nell’area di fronte all'ambasciata, dove poteva facilmente controllare tutto e si disse che era proprio per questo, che stava correndo via, per poter lavorare meglio e non per evitare di morire di imbarazzo di fronte a Dazai, che comunque gli stava alle calcagna. Stava andando tutto benissimo. Era tutto perfetto, tutto secondo il suo programma — se non, appunto, per la voce di Dazai che echeggiava nella sua mente e che continuava, in un loop infernale, a chiedergli se gli piacesse. Che poi, una domanda del genere, era ovvio che fosse formulata per essere ambigua: in qualità di cosa? Di collega? Di partner? Di — tentò di non arrossire al solo pensiero — partner

Non poteva fargli cascare in testa una domanda del genere per poi continuare a mantenere un’espressione fintamente distratta e disinteressa. Si aspettava davvero una risposta? E sarebbe stato saggio, rispondere? Non avrebbe forse complicato la loro relazione? A Kunikida andava benissimo com’era, la loro relazione. Diceva apertamente di non sopportarlo, poi ovviamente lo tollerava, poi collaboravano magnificamente, era ovvio, l’avevano dimostrato più volte sul campo, c’era qualcosa di complementare, nel modo in cui agivano, nel modo in cui la prontezza di spirito di Dazai gli impediva di restare intrappolato nei suoi schemi e nel modo in cui l’intensità dei suoi ideali finiva inevitabilmente per coinvolgere anche lui. 

Non c’era bisogno di chiedergli se gli piacesse. Se questo fosse stato il caso — il che non era, perché Dazai non incontrava neanche la metà delle qualità che lui trovava necessarie per reputarlo un accettabile interesse amoroso — comunque non gliel’avrebbe detto. Sarebbe stato sicuramente troppo imbarazzante, e aveva letto diversi studi in cui era dimostrato che intrattenere relazioni con colleghi avrebbe eventualmente reso più difficile lavorare efficientemente. Quindi, anche se Dazai gli fosse piaciuto, anche se Dazai gli stesse esplicitamente chiedendo se gli piaceva piaceva, proprio il quel senso — dio, si sentiva una ragazzina alle prese con la sua prima cotta —, in ogni caso non se ne sarebbe fatto niente. Il lavoro veniva prima di tutto.

Be’, però, ecco, insomma, se proprio insisteva, se proprio voleva strappargli una risposta di bocca, forse, no- cioè, sì, in fondo a lui Dazai- be’, come dire? Non dispiaceva. Sì, metterla in questo modo era un compromesso accettabile. Non gli faceva mica perdere la testa — almeno, non in senso positivo, perché poi c’erano volte che- — però se ci avessero lavorato entrambi, magari, e se Dazai avesse accettato di limare certe sue terribili abitudini che Kunikida proprio non riusciva a mandare giù, forse avrebbe potuto funzionare. Non sarebbe stato poi così male. 

Che poi, no, perché Dazai avrebbe dovuto chiederglielo? Gli interessava la risposta? Era interessato a lui? In quel senso? Altrimenti, ovviamente, non avrebbe avuto motivo di agire in quel modo. Avrebbe dovuto tener conto dei suoi sentimenti? Non lo stava forse ferendo, con questo silenzio imbarazzato? Era certo stato poco attento, da parte, ignorarlo e chiudersi in un cervellotico mutismo, ma proprio non riusciva a trovare una giustificazione soddisfacente. E se gliel’avesse chiesto a sua volta, gli avrebbe risposto? Sinceramente? E, soprattutto, positivamente? Kunikida si considerava una persona, se non proprio notevole, quantomeno rispettabile — e sarebbe riuscito ad essere un buon fid- partner, indubbiamente. Almeno ci avrebbe provato.

«Kunikida, ehi, Kunikida!»

Dazai gli sventolò una mano davanti al volto più volte. Aveva un’espressione dannatamente soddisfatta, come se, seppure non fosse stato in grado di leggergli nel pensiero, avesse indovinato la direzione in cui erano stati dirottati tutti i suoi pensieri nell’ultima ora — l’unica direzione possibile: la sua. 

«Cosa c’è adesso?», domandò, esasperato dal fatto che in quel momento non riuscisse proprio ad ignorare il fascio di luce che stava colpendo il volto di Dazai e faceva sembrare i suoi occhi castani improvvisamente dorati.

«Potremmo anche andarcene-», disse, indicando il palco vuoto che alcuni addetti stavano smontando, ammazzando sul nascere le sue proteste indignate. «-la conferenza è finita da un pezzo, se restiamo qui inizieremo a dare nell’occhio-»

«Ma- uhm- il diplomatico, dovremmo scortarlo-»

«Se ne sono già occupate le sue guardie del corpo-»

«E tu non hai fatto niente?!»

Kunikida chiuse e riaprì più volte i palmi delle mani. Non era stato un comportamento professionale, farsi distrarre in quel modo assolutamente imbarazzante e inaccettabile durante le ore di lavoro, lasciando così tutto il controllo e la responsabilità della situazione a Dazai, che notoriamente non era in grado di tenere sotto controllo un bel niente ed era, altrettanto notoriamente, una persona irresponsabile. Però non se la sentiva nemmeno di addossare tutta la colpa su di lui: in fondo, era stato lui a chiudersi in elucubrazioni che non c’entravano nulla con il suo incarico — anche se era stato a causa di Dazai, che probabilmente aveva orchestrato tutto soltanto per evitare di dover lavorare più di quanto non fosse disposto a fare.

«Io mi sono goduto il delizioso spettacolo offerto dal tuo cervello che emetteva fumo. Cos’altro avrei dovuto fare?»

Era insopportabile. Era proprio insopportabile e Kunikida non riusciva a capire come non lo stesse prendendo a pugni in quel preciso istante, come il suo gancio destro non si fosse già scontrato contro la sua mandibola, come non gli avesse ancora afferrato il bavero della giacca per tirarlo più vicino e- e poi- e poi dargli una testata, ecco quello che voleva fare. Voleva dargli una testata. Si stropicciò il volto, nel tentativo di schiarire la mente da suggestioni che purtroppo avevano molto poco a che fare con il prenderlo a pugni e dargli testate — notò, più con crescente apprensione che con fastidio, che proprio non ci riusciva. 

Maledetto Dazai.

 
3. Fargli un’offerta che non potrà rifiutare
 

Stava compilando il suo rapporto di fine missione.

Fino a quel momento era riuscito a preparare uno schema e aveva scritto poche righe. Lanciò un’occhiata distratta all’orologio del suo soggiorno: se avesse mantenuto quel ritmo, nel giro di mezz’ora avrebbe potuto archiviare tutto e consegnarlo all’indomani al Presidente. Non c’erano stati problemi di alcun tipo, era felice di poterlo scrivere. Quando gli era stata assegnata la missione, Kunikida si era, naturalmente, preparato al peggio — tentativi di rapimento, sicari pronti ad uccidere ad ogni angolo, bombe piazzate in posti insospettabili. Invece erano stati quattro giorni assolutamente tranquilli, in cui lui e Dazai si erano limitati a fare sopralluoghi e appostamenti e non erano mai dovuti entrare direttamente in azione. C’era, quindi, ben poco da riportare. 

«Dazai?»

Dazai stava fissando la punta della sua penna con aria confusa. Kunikida l’aveva invitato a casa sua d’impulso, quando al termine di quattro giorni passati continuamente con lui proprio non se la sentiva, di ritirarsi da solo, non quando la sua mente era stata così assorbita dall’altro da lasciar spazio a pochi altri pensieri che non ruotassero intorno a lui. Avrebbero potuto compilare insieme i loro rapporti, così almeno sarebbe stato sicuro che avrebbe effettivamente lavorato e che non gli sarebbe toccato completare anche il suo. Però Dazai non stava combinando nulla, anzi, sembrava anche abbastanza indeciso su quello che avrebbe dovuto fare. 

Kunikida decise di non insistere, che era già un miracolo che avesse passato gli ultimi quindici minuti in religioso silenzio, interrotto soltanto dai loro respiri regolari e dai click nervosi della penna di Dazai. Tornò a concentrarsi sul suo rapporto, aggiungendo i dettagli che gli sembravano notevoli: era arrivato a metà del secondo giorno, quando, sbirciando in direzione di Dazai, vide che aveva completamente abbandonato penna e foglio sul tavolino e si era alzato. Si era tolto la giacca, abbandonata senza troppe cerimonie per terra e adesso si stava sbottonando il gilet — Kunikida non riuscì a distogliere lo sguardo dalle sue dita sottili che liberavano rapidamente i bottoni dalle asole. Certo, gli aveva detto di mettersi comodo quando erano arrivati, ma questo gli sembrava, forse, troppo comodo. Cominciò a preoccuparsi delle sue effettive intenzioni quando si tolse la cravatta e lasciò aperti i primi bottoni della camicia. A Kunikida sfuggì un respiro profondo che era spaventosamente simile ad un sospiro, al che ebbe abbastanza forza di volontà per staccare gli occhi da Dazai e trascinarli sul foglio davanti a lui — anche se, in tutta onestà, non era sicuro che avrebbe continuato a mantenere la concentrazione ancora a lungo.

«Kunikida-kun~»

Appunto.

Kunikida osservò impotente Dazai che si sedeva per terra accanto a lui e appoggiava il mento sulla sua spalla per spiare quello che aveva scritto fino a quel momento. Deglutì un paio di volte, cercando di ignorare il calore che emetteva e il suo respiro che soffiava leggero sulla sua guancia. Avrebbe dovuto protestare — e se proprio non riusciva a protestare, doveva fare comunque qualcosa a riguardo. Prendere iniziativa? Aveva ricevuto messaggi relativamente chiari nell’ultima settimana, e benché il loro rapporto fosse sempre stato abbastanza confidenziale, tutta quella vicinanza improvvisa poteva voler dire soltanto una cosa — non era mica scemo, lui.

«Dazai-», borbottò, sperando di sembrare contrariato, «cosa stai facendo?»

«Cosa ti sembra che stia facendo?», rispose, allungando il braccio per cingergli la vita.

Kunikida fece finta di non essere arrossito. 

«Sembra», iniziò, scegliendo di darsi un tono, «che tu voglia copiare il mio rapporto.»

«Mhh, non è affatto una cattiva idea.»

Poi strofinò il naso contro la sua nuca. Kunikida trattenne il respiro, e poi sentì la bocca di Dazai, calda sul collo e qualunque dimostranza credeva di poter opporre gli morì in gola. Istintivamente piegò la testa di lato per consentirgli un migliore accesso e lo sentì sorridere sulla sua pelle umida.

«E adesso cosa ti sembra che stia facendo?»

Qualunque cosa stesse facendo, pensò Kunikida, avrebbe voluto che continuasse. Non lo disse ad alta voce, ovviamente, ma il mugolio che gli sfuggì dalle labbra batteva qualunque risposta avesse potuto articolare. 

«Ho una proposta da farti.», iniziò, mentre le sue mani salivano a sbottonargli il gilet. «Un’offerta che non potrai rifiutare.», sussurrò al suo orecchio, trattenendo il lobo tra i denti e passandoci appena la lingua.

Kunikida si sentiva sciogliere tra le sue mani e si rilassò completamente contro il suo petto. Buttò la testa indietro sulla sua spalla, fissando il soffitto per qualche istante prima di chiudere gli occhi — era probabilmente inutile che gliela facesse, quella proposta, perché in quel momento Kunikida sentiva di non potersi fidare del suo giudizio e di non essere capace di negargli qualcosa.

«Che ne dici di mettere da parte i compiti e fare qualcosa di più-», si fermò un istante, riflettendo sulla parola più adatta. «-divertente

«Mhh.»

«Perché mica mi fa piacere, se mi ignori per lavorare.», si lamentò, petulante, aprendo la sua camicia con un sorriso trionfante che lui non riusciva a vedere ma che potere chiaramente avvertire. 

«Non credo che mi lasceresti lavorare in ogni caso.», protestò debolmente.

Dazai non si scomodò nemmeno a rispondergli, si limitò a catturare le sue labbra in un bacio lento e languido, mentre Kunikida sentiva, distintamente, di star andando in fiamme. Poi non ci fu più tempo per sentire, pensare, riflettere, per esistere al di fuori di Dazai, delle sue mani che continuavano ad esplorare il suo corpo, della sua lingua che si spingeva nella sua bocca. 

 

 

  
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