Anime & Manga > Lupin III
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Autore: HenryLiv    19/03/2022    1 recensioni
Arsenio Lupin Secondo raccontava agli invitati senza sosta dettagli e particolari, annaffiando con abbondante vino Chateau Laffite Rothschild ogni passaggio saliente della storia, ridendo e gesticolando per rafforzare la narrazione.
Ricominciò a parlare e gesticolare, tornando a concentrarsi sugli ospiti e la sua Chloè, sempre perfetta e bellissima, come se non fosse ormai notte fonda. Dalla camera da letto in fondo al corridoio salì un gemito che rapidamente lasciò il posto ad un pianto prepotente…
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il dono del Capibara, e di come nacque Lupin III
1- Un depliant 
“ Il capibara è un roditore originario delle aree tropicali del Sud America. Ama vivere a ridosso di fiumi e laghi e, per il suo carattere docile, è stato spesso catturato per farne un animale domestico. 
Il capibara ha un corpo dai lineamenti tozzi e dalla corporatura massiccia a forma di botte ed una testa corta, con una pelliccia bruno-rossastra nella parte superiore del corpo che diventa più chiara, sul bruno-giallastro, nella parte inferiore del corpo” 
Chloè leggeva incuriosita la breve descrizione sotto la fotografia dell’animale sull’opuscolo che la hostess aveva distribuito a tutti i passeggeri della business class. Conteneva molti suggerimenti sulle bellezze della Ville Lumière, i più rinomati ristoranti, oltre agli indirizzi di boutiques di moda e gioiellerie. C’erano anche i dettagli del Giardino Zoologico. "Prima di tornare a Tokyo devo visitarlo, anche solo per vedere questa bizzarra creaturina!”, pensò, divertita dal fatto che un animale così potesse esistere nella realtà. 
Quell’opuscolo fu il primo contatto che ebbe con il continente europeo. Lo teneva tra le dita mentre scendeva lenta tra un mare di persone la scaletta di ferro dell'aereo. Quando finalmente toccò terra, la prima cosa che fece fu quella di alzare lo sguardo verso il cielo, come ad assicurarsi che fosse lo stesso anche all’altro capo del mondo. Lo era, e c’era anche il sole, un sole caldissimo che spaccava le pietre. Diede uno sguardo di sfuggita all’orologio, e quello che vide non le piacque. Era in ritardo! Corse verso l’aeroporto con tutti i suoi bagagli, con ancora fissa negli occhi l’immagine del capibara. Per qualche motivo che nemmeno lei riusciva a spiegare, non voleva separarsi da quel depliant. Lo teneva ancora tra le dita durante il controllo dei passaporti, anche quello straordinariamente lento, e mentre il taxi la portava all’ambasciata giapponese. 
Vi avrebbe trascorso un anno di praticantato come attache’ dell’Ambasciatore, un ruolo che aveva ottenuto per via della sua conoscenza delle lingue, degli importanti contatti della sua famiglia e anche, a detta delle chiacchierone sorelle Kay e Kaori, per la sua bellezza.
La città cresceva, le periferie si trasformavano velocemente e le misere borgate lasciavano il posto a palazzi di dieci o più piani mentre il vento caldo passava dal finestrino aperto e raggiungeva i lunghi capelli corvini della ragazza. Quasi senza che lei se ne accorgesse, il taxi arrivò alla sede dell’ambasciata, nella parte nord-ovest della città. 
Ancora non riusciva a credere che tutto ciò stesse capitando proprio a lei. Guardava estasiata i maestosi palazzi decorati, gli alberi rigogliosi, il cielo senza nemmeno una nuvola. Intanto il suo pensiero correva a quando le amiche di Tokyo a scuola la prendevano in giro per il suo strano accento che le aveva trasmesso la mamma, francese trasferitasi per amore nella terra del Sol Levante. E ora finalmente poteva visitare gli arrondissement che la mamma le aveva descritto in tanti racconti della buona notte. E lo studio delle lingue che con estremo impegno aveva praticato per anni le avrebbe portato ora i tanto attesi frutti. Che cosa poteva andare storto? Andò in fretta verso l’entrata del palazzo dell’Ambasciata, i tacchi che picchiettavano i cubetti di porfido del pavimento della piazza. Era ansiosa di conoscere il suo capo. Chissà che tipo sarebbe stato. Chissà come si sarebbe chiamato! 
Si chiamava Nobita. Sarebbe stato il capo di Chloè durante quell’anno di praticantato, per lei il punto di contatto con l’Ambasciatore, altrimenti irraggiungibile. Era sovrappeso Nobita, sudato per via dell’adipe ma anche del caldo di quell’estate particolarmente umida, pensò Chloe. Mentre gli stringeva la mano, molle e un po sudata, notò che indossava delle bretelle scure che lo penalizzavano parecchio, inquadrandogli l’abbondante addome in una sorta di cornice che ne esaltava la dimensione e la forma irregolare. A Chloè non piaceva nulla di quell’uomo, nemmeno il carattere, sempre così impegnato a esternare cordialità. Le aveva offerto del tè, e quando Chloè ne versò accidentalmente un pò a terra Nobita dovette sforzarsi per non dare in escandescenze, mascherando una facile irritabilità. 
Tuttavia Chloè avrebbe fatto meglio ad andarci d’accordo fin da subito, perchè Nobita, era piuttosto importante dentro l’ecosistema Ambasciata, nonostante la sua apparenza lo penalizzasse fortemente. Aveva un enorme ufficio al piano terra dell’edificio, luminoso, con una grande porta finestra che dava su di un giardino in perfetto stile zen con tanto di ciliegi, laghetto e carpe Koi. L’avrebbe condiviso con lei, e la sua scrivania sarebbe stata collocata accanto ad una statua in marmo di Carrara di medie dimensioni della Lupa Capitolina, regalo del Ministro dell’Economia del Regno d’Italia di qualche decennio prima. 
Entrando nella sala lo notò subito. Lo aveva studiato sui libri di storia dell’arte. Lo aveva ammirato in decine di foto e aveva sempre sognato di poterlo vedere dal vivo. Era racchiuso in una cornice antica, nera. Ed era perfetto con quella cornice in quella posizione in quella sala.
“Edvard Munch! E’ un preziosissimo quadro del pittore norvegese Munch!” disse gongolante Nobita, come se Chloè venisse da un altro pianeta e non lo riconoscesse. “E’ un quadro della serie chiamata l’Urlo. E la tua scrivania la gireremo in modo che tutte le volte che alzerai lo sguardo sarà la prima cosa che vedrai!” Chloè sorrise. “Forse questo Nobita non è poi così male”, pensò. Il quadro, scoprì, era stato un dono del Re di Norvegia all’Imperatore del Sol Levante, e venne poi portato a Parigi. Almeno così raccontava Nobita, ma Chloè non sapeva ancora se considerarlo completamente attendibile. 
“Superlativo… va bene, forse è un po’ inquietante” rimuginò Chloe’, sedendosi. Poi però pensò alle sue amiche, sedute in piccoli uffici presso il ministero per il Commercio con l’Estero a Tokyo, con le pareti grigio topo arredate dal solito calendario con i panorami del monte Fuji innevato e riempite di scaffali modulari a basso costo stracolmi di scartoffie. E gioia e serenità tornarono in lei. 
Qualche secondo dopo essersi accomodata sulla sedia girevole della sua scrivania – ne aveva sempre desiderata una fin da piccola - sentì qualcosa di anomalo. Fece più attenzione e si focalizzò sul rumore. 
"Zzz..Rrrr.Ffff..". 
Guardò sotto la scrivania e cadde dalla sedia: un’enorme palla di pelo rosso era accoccolata sul fondo. Chloè si rialzò in fretta e corse, ansiosa, alla ricerca di un oggetto contundente da tirare addosso all’essere in caso di necessità. “Si chiama 
Fitzgerald, ed è il vero boss del piano terra!” si affrettò a tranquillizzarla Nobita, con un’irritante risatina. “E’ un bellissimo esemplare di Maine Coon americano, sette chili di felino di pura razza! E’ il dono che ci ha fatto la moglie dell’ambasciatore quando partecipammo alla loro cena di Gala per il Ringraziamento. E ora ha quasi due anni”. 
“Ma… perchè si chiama così?” chiese Chloè, ancora parzialmente scioccata. Nobita non se lo fece ripetere: “E’ il mio omaggio al giovane Presidente USA, che seguo e stimo da quando era senatore del Massachusetts….anche se forse è meglio non dirlo, qualcuno potrebbe ritenere poco appropriato il collegamento, sebbene questo gatto sia davvero straordinario”. 
Aggiunse: “l’anno in cui il gatto ci venne donato ci obbligava a scegliere un nome che cominciasse per F…sai per via del Pedigree. Lo dico sempre, così se qualcuno non dovesse gradire troppo la scelta almeno troverà una motivazione ragionevole”. Il sonno di Fitzgerald prevedeva per il suo corretto svolgimento il grande e prezioso tappeto persiano della sala, un russamento ritmico ed aveva una natura pericolosamente contagiosa per chi l'osservava. 
Fitzgerald si svegliò e lentamente si alzò, percorse l’intero perimetro della grande sala per poi tornare esattamente al punto di partenza e saltare sulla scrivania di Chloè, dove si sedette con la fierezza di una statua marmorea. Lui la guardava fisso, come una sfinge egizia, assolutamente immobile. Lei lo fissava con gli occhi spalancati, ferma senza muovere un muscolo, non aveva mai visto quella specie di gatto gigante ed era terrorizzata al solo pensiero che potesse farle del male. Finalmente Nobita
ruppe questa situazione di stallo, le prese la mano e la mise sulla testona di Fitzgerald che contraccambiò subito con delle fusa in stereofonia. 
Fitzgerald era quel tipo di gatto che aveva consapevolezza di vivere in condizioni estremamente privilegiate e che sentiva per questo di doversi sdebitare con una attenta sorveglianza della sicurezza dell’Ambasciata da topi e insetti, almeno del piano terra e del giardino dove era autorizzato a deambulare. Tuttavia la pulizia ossessiva praticata dalle persone di servizio nell’Ambasciata limitava significativamente le sue possibilità di intervento e di gloria. 
Annie fu la prima collega coetanea che Chloè conobbe all’Ambasciata. “Pensa che il mio Fitzy - come lo chiamava lei - aveva tentato a soli tre mesi di catturare una delle costosissime carpe Koi nel laghetto del giardino!” 
Per alcuni giorni Fitzy aveva trascorso ore sul bordo del laghetto ad osservare il loro nuoto lento e inconcludente, interrogandosi sulle loro dimensioni reali e sulla migliore strategia di intervento anfibio. I dubbi avevano trovato una rapida soluzione quando la decana delle carpe, Miwa, gli aveva morso la punta della coda vicina all’acqua: lo spavento era stato tale che da allora Fitzgerald non si avvicinava a meno di due metri dall’acqua. 
Mentre raccontava Annie non riuscì a trattenere svariate risatine, che cessarono solo quando Chloe, divertita almeno quanto lei, le chiese di continuare. Fu così che Chloè scoprì che da allora, tutte le sere, per sicurezza Nobita aveva l’abitudine di contare il numero delle carpe nel laghetto, conscio che la vendetta e’ un piatto che si serve freddo… 
Inoltre, a sentire Annie, alcuni interrogativi profondi ed irrisolti angustiavano Fitzy da quando era stato svezzato: “Dove sparisce tutto quello che lascio nella lettiera?”, “Quanti sono esattamente questi grossi bipedi che girano nel mio territorio?”, ma soprattutto: “Qual è la parola magica per aprire quel freddo contenitore di tutti i cibi dei bipedi che si trova in cucina?” 
Chloè, camminando per il palazzo, si accorse che Fitzgerald, in meno di due anni, aveva determinato anche importanti trasformazioni architettoniche all’Ambasciata. Uno sportello era stato praticato nella vetrata che dava sul giardino, per consentire il transito con l’esterno. Lui cresceva a vista d’occhio e lo sportello era stato riadattato due volte, ingrandendolo fino a diventare una vera porticina che lui apriva con un preciso colpo di calotta cranica. Per non parlare di un enorme grattatoio in velluto alto come un bambino di dieci anni che troneggiava nel corridoio di servizio, naturalmente intonso, un totem tanto ingombrante quanto inutile. 
La sera, arrivata in albergo e posati finalmente i bagagli, Chloè si stese sul letto. Aveva così tante cose a cui ripensare! Guardando il pregiato lampadario sul soffitto ‘illuminato’ dalla lucina arancione dell’abat-jour, decise che quello era stato il giorno migliore della sua vita. E si addormentò contenta.
 
2-Imma 
I giorni successivi non furono per Chloè meno emozionanti del primo. Prese confidenza con il territorio, con il palazzo dell'Ambasciata in primis, Fitzgerald e Nobita (in questo ordine) in secundis. Entrò anche in grande sintonia con Annie, che trovava così elegante nei suoi tubini neri e interessante con gli aneddoti che raccontava, tratti dai suoi numerosi viaggi e dall’attenta osservazione di tutto ciò che accadeva intorno a lei. Ovviamente ascoltava le voci che circolavano e si teneva sempre aggiornata sui pettegolezzi locali. 
Fu proprio Annie ad iniziarla alla fragrante tradizione del lunedì mattina. In un caldo pomeriggio con poco lavoro, le disse che Nobita faceva arrivare tutti i lunedì mattina dalla pasticceria napoletana “Da Cicciotto alla Scogliera” situata nel quartiere Le Marais i babà freschi al rhum. Ne era ghiotto come un procione al risveglio dal letargo, e li ordinava in quantità industriale. Anche l’ambasciatore li apprezzava, e questo autorizzava Nobita al loro consumo smodato. Li preparava una pasticciera originaria del sud Italia, una donna di tipologia curvy e di mezz’età, che tutti chiamavano Donna Imma, con una curiosa pronuncia nippo-francese. Donna Imma, diminutivo di Immacolata, era stata sicuramente una bella donna in gioventù, e in molti - tra cui naturalmente Annie - pensavano che il suo nome mai verificato da nessuno potesse essere un nome d’arte, scelto apposta per rafforzare il marketing dei prodotti della pasticceria. 
In effetti il pezzo forte della pasticceria erano babà, ovviamente il lunedì giorno della loro preparazione, e solo per chi ne era a conoscenza. Il locale non era molto invitante a detta di Annie che l’aveva frequentato in diverse occasioni. Era stretto e lungo ed era dominato da un antiquato registratore di cassa gigante e da un grande quadro raffigurante un non meglio identificato vulcano sullo sfondo del mare. La lunga vetrina che custodiva torte e paste aveva i segni delle manate dei bambini che vi si appoggiavano, era ingiallita dagli anni e sbeccata sugli angoli. 
Dietro la vetrina poteva esserci il nulla - segno di buoni affari - oppure qualche esemplare di pasta proveniente dal mesozoico, in cui era possibile leggere le previsioni del tempo a seconda della colorazione assunta dalle creme. Ma questo solo se adeguatamente preparati. 
Circa i rapporti di Donna Imma con Nobita, si favoleggiava da anni negli uffici dell’Ambasciata. Sicuramente erano grandi amici, erano all’incirca coetanei, e si raccontava di un loro primo incontro sulla costiera amalfitana, forse di un loro breve inconcludente fidanzamento. La leggenda vuole che Imma si fosse tuffata in mare per salvare il già rotondetto futuro capo segreteria dell’ambasciata nipponica dall’affogamento in seguito alla caduta da un pattino preso in affitto.
Il bagnino dello stabilimento era in pausa pranzo e non sarebbe tornato prima di qualche ora, anche in considerazione dell’impepata di cozze che gli avevano preparato a casa. Il pattino non sembrava un mezzo pericoloso, e il mare era la consueta tavola. Imma invece amava prendere il sole proprio durante quelle ore calde, quando finalmente la spiaggia si svuotava. E questo suo vezzo dell’abbronzatura perfetta salvò il piccolo futuro diplomatico da una ingloriosissima fine e diede inizio alla loro amicizia. Dopo qualche anno da quell’episodio si ritrovarono entrambi per vie diverse a Parigi. 
Lui seguendo l’evoluzione del suo percorso nella diplomazia, lei per frequentare una scuola di alta cucina francese. Il loro rapporto, di qualunque tipo fosse stato, aveva comunque avuto un risultato: Imma aveva stipulato un faraonico contratto di fornitura secolare di babà per l’Ambasciata, unica vera entrata certa per la piccola pasticceria “Da Cicciotto”. 
Chi fosse il “Cicciotto” dell’insegna della pasticceria nessuno lo sapeva. I più informati, per esempio Annie, sostenevano fosse un amore non corrisposto nella scuola di alta cucina. Era invece chiaro a tutti che “La Scogliera” era quella da cui Donna Imma si era tuffata per salvare il futuro ambasciatore dalle infide acque del Mediterraneo. 
Il prodotto di punta di “Cicciotto alla Scogliera” era il babà al rhum, la pasticceria aveva come cliente principale l’ambasciata del Giappone, e Donna Imma aveva una amicizia particolare con Nobita. E all’ambasciata tutto il personale era per definizione ghiotto di babà. Questa la sintesi di quanto Chloè apprese e si scolpì nella memoria. 
Chloè era arrivata da Tokyo completamente astemia. Dopo che Annie finì di raccontare, Chloè glielo confessò e lei trasalì. “Come? Dobbiamo assolutamente correre ai ripari!” 
Chloè dovette aspettare quasi un quarto d’ora prima che Annie si ripresentasse con un cioccolatino al liquore preso da chissà dove. 
“Dai, assaggia!” 
Chloè rise e lo assaggiò. Non le dispiaceva. Poco dopo realizzò una cosa importantissima: ora aveva una nuova dimensione nella sua vita tutta da esplorare. Ora c’era da fare il salto di qualità, affrontare il rhum dentro il babà! Fortunatamente quel giorno era lunedì, e fortunatamente era rimasto un babà avanzato. Se lo riservò per dopo il lavoro e così quella sera, appena fuori dall’Ambasciata, Chloè tagliò il metaforico traguardo, mangiandolo con soddisfazione e con il tifo di Annie a fare da sottofondo. 
Da quel lunedì Chloè aveva raddoppiato il numero di babà ogni settimana. L’ultimo lunedì di quel mese fu già grado di metabolizzarne quattro, il babà di Cicciotto aveva fatto breccia nel suo cuore! Un’altra sfida era stata raccolta e vinta. 
3- Meglio Munch o Da Vinci?
Arsenio fece la comparsa nella vita di Chloè in punta dei piedi, il terzo giorno dall’ arrivo di lei a Parigi. Per la precisione, Arsenio Lupin Secondo la conobbe proprio negli uffici dell’Ambasciata. Voleva informazioni sul Giappone ma soprattutto cercava di acquisire una conoscenza di base dell’idioma nipponico. Era giovane, ma aveva già attraversato l’Europa in lungo e in largo ed era ormai annoiato. 
Voleva conoscere altre terre, e il Giappone era sempre stato in cima alla sua lista. E sapeva che le migliori insegnanti gravitavano sull’ambasciata nipponica, nei diversi uffici amministrativi e nella biblioteca. Chloè fu subito incuriosita da questo individuo che le si era avvicinato il giorno stesso della sua prima comparsa nell’Ambasciata. Palleggiava lo sguardo da lei al Munch e la salutò con un “ Posso capire che è un quadro straordinariamente di valore, ma… di chi è stata l’idea di piazzare l’Urlo di Munch con tutto il relativo carico ansiogeno nell’ufficio di una così graziosa signorina come lei?” 
Chloè, divertita, fece per rispondere quando Nobita si materializzò. “Chloè! La stavo cercando! Ha per caso…” 
Chloè lo interruppe subito, dicendo che non era il momento, che aveva un ospite a cui doveva mostrare proprio quel quadro appeso davanti a lei. Nobita le fece notare, sarcastico, che davanti a lei c’era solo una libreria, ma prima che lei potesse ribattere, “l’ospite” si diresse in fretta verso l’uscita. 
“Vi lascio soli…”, disse divertito. 
“Non… Non è come pensa!”, gli disse, anzi gli urlò Chloè, imbarazzata. Ormai, però, lui stava correndo giù per le scale, saltandole a due a due per fare più in fretta. A quel punto, l'unica cosa logica da fare per Chloè sarebbe stata quella di prendersela con Nobita, ma non lo fece. E’ pur sempre il mio capo, pensò. E così, malvolentieri, si rimise alla scrivania. Annie, sua vicina di posto, aveva osservato di soppiatto tutta la scena. Ma non fece domande. 
Arsenio fece diverse visite nell’ufficio di Chloè, risultando molto simpatico e potenzialmente utile anche a Nobita, che sperava sempre in qualche affare da concludere nel mercato dell’arte. Alle numerose domande sulle mete da visitare in Giappone alternava l’attenta osservazione degli arredi e soprattutto dei quadri presenti nell’Ambasciata. Ostentava indifferenza verso Fitzgerald, che contraccambiava. 
L’aveva notato anche lui “il Munch”, e già alla seconda visita dell’ufficio di Chloè aveva stabilito due punti fermi. Il primo era che L’Urlo era un dipinto originale, ed era praticamente incustodito. Il secondo era che la giovane attachè all’Ambasciatore del Giappone in Francia avrebbe meritato tutte le sue attenzioni per il prossimo futuro, almeno quanto il quadro. 
Il secondo punto ebbe la priorità. Arsenio cominciò ad architettare a come vedere Chloè dopo il lavoro, creando ad arte incontri “casuali”. Per esempio, grazie alla
parlantina sciolta di Annie, riuscì a scoprire che Chloè aveva una meta precisa da raggiungere esattamente domenica 1 luglio. 
Chloè doveva visitare il Louvre. L’aveva solennemente promesso alla mamma, “la prima cosa che vedrò nel mio tempo libero a Parigi sarà il Louvre”, ma, a dire il vero, ci furono diverse destinazioni che ebbero la precedenza sul museo. Però quella domenica mattina di fine estate era alla biglietteria del Museo puntuale già alle nove e mezza, all’apertura. Portava una voluminosa guida di Parigi nella borsa, indossava scarpe comode e pantaloni neri con una camicia bianca che nascondeva le diverse brioches au chocolat della colazione, che riteneva fossero il minimo indispensabile per affrontare il Louvre. 
Dopo una mezzoretta di giri casuali nei corridoi del museo incontrò - coincidenza del tutto fortuita - il signor Lupin, quello del viaggio in Oriente e dai mille quesiti amministrativi. Vestito di tutto punto nel suo abito grigio fumo di Londra osservava da vicino, quasi rapito, alcuni quadri di pittori della scuola fiamminga. Lei fece finta di non vederlo, ma lo controllava con la coda dell’occhio..lui invece la notò subito, anzi, a Chloè era sembrato che lui fosse in quel posto per lei. Senza grandi tattiche dopo qualche minuto le si presentò davanti con una proposta che non poteva essere rifiutata: “Ma buongiorno Signorina Chloè! Che fortuna incontrarla in questo luogo magico, a quest’ora quando le folle dei turisti ancora riposano. Se lo vorrà sarà per me un privilegio farle da guida in questo oceano d’arte ed essere il suo Virgilio, accompagnarla nel lungo cammino sui sentieri del bello. Accetti la prego” . Lei contò fino a dieci, era la tecnica che usava sempre per simulare una riflessione anche su scelte ovvie, ma qui avrebbe accettato già all’uno-quasi-due.. “Va bene, sarà interessante” rispose Chloè. 
Era stupita e ammirata dalla competenza di Arsenio. Una fonte inesauribile di dettagli, gustosi aneddoti e informazioni storiche per ogni opera che incontravano, anche se probabilmente minore nella collezione del museo. Aggiungeva anche le valutazioni sul mercato dell’arte, la facilità di vendita, dettagli sulle ultime compravendite simili, potenziali famosi collezionisti privati.. 
Insomma corredava la presentazione di ogni opera con un insieme di informazioni operative che dovevano appartenere per forza ad un “addetto ai lavori” del settore della valutazione e commercio d’opere d’arte. Ma per Chloè lui era solo un bel parigino, molto colto e molto affascinante. 
Arsenio aveva impiegato molto tempo per catalogare nella sua mente le opere per lui più interessanti del museo, memorizzando per ciascuna la sua storia, il suo valore, potenziale compratore, la sua dimensione e trasportabilità e il suo sistema di sorveglianza. Gli era sufficiente selezionare da quella enorme banca dati di informazioni qualche dettaglio su un’opera per stupire la sua ascoltatrice. Che sapeva davvero poco di arte occidentale ed era perciò facilmente impressionabile, per Arsenio fin troppo facile. 
E così, invece di pagare lautamente una guida ufficiale, Chloè aveva trovato il suo Virgilio personale che la guidava. Camminava accanto a lei, e ogni volta
che Chloè si fermava ad osservare un quadro, lui le illustrava quello che sapeva a riguardo, e la sua memoria di ferro non era mai deludente.
Scherzando e parlando d’arte, il tempo passò in fretta. Arrivò l’ora di pranzo e Chloè aveva già un impegno con Annie e così si avviarono verso l’uscita del museo. 
Senza accorgersene, uscendo, camminavano tenendosi per mano.
Dopo questo incontro “casuale” ne seguirono altri, ugualmente “fortunosi” e poi arrivarono i primi appuntamenti. Parigi collaborava, offriva angoli panorami e occasioni. E fu in uno di queste passeggiate che i due si fidanzarono. Precisamente accadde al Giardino Zoologico, proprio quello che Chloè aveva visto nella brochure sull’aereo dal Giappone. Proprio nell’area dedicata agli animali del Sud America, precisamente davanti al recinto dei Capibara. Sembrava il destino! Chloe’ adorava quell’animale, un goffo mix tra un castoro ed un criceto, dalla provenienza lontana che era però il filo d’unione della sua vita da quando aveva lasciato Tokyo mesi prima. E questa sua passione per il capibara non la teneva certo segreta, condividendola allo sfinimento con Arsenio! 
3-Impara l’arte… 
Ad Arsenio Lupin Secondo adesso serviva il suo amico, collega e compagno di sempre. Si, ora gli serviva proprio il suo Jean Pierre detto anche Jean-Pierre-copia-conforme. Doveva il suo nome alla sua innata capacità di copiare in maniera assolutamente impeccabile qualunque documento disegno o quadro. Fin da piccolo coltivava questa arte, copiando i disegni degli altri bambini prima, dei maestri e dei libri di testo poi. Tutte le tecniche erano alla sua portata, colori pastelli a cera acquarelli tempere olio, dal foglio di carta per avvolgere il formaggio fino al muro degli affreschi le sue tavolozze. Studiò con successo per tre anni all’Accademia di Belle Arti, il suo sogno era fare il restauratore come lavoro. Purtroppo la sorte si mise di traverso e una serie di sfortunati eventi lo costrinse a lasciare gli studi per guadagnarsi da vivere. Lo conosceva da talmente tanto tempo che era come se fossero due fratelli.  Condividevano però poco della loro quotidianità ordinaria e si cercavano invece solo nelle occasioni che ne valesse davvero la pena…avventure o sfide particolari. E così non sapevano molto l’uno dell’altro. Sapeva però sempre dove trovarlo, e se non era nella piazza a Montmartre tra i suoi pennelli e tele, allora si poteva essere sicuri di trovarlo nel cafè Le Chat Mechant, con una birra chiara in una mano e il pacchetto di bionde nell’altra.
 Era il prototipo del pittore parigino come lo ci si aspetta di incontrare dopo aver visto un film o letto un libro sulla Ville Lumière: il basco blu sempre sulla testa, le mani sporche di colore e la Gitane senza filtro perennemente in un angolo della bocca. Uno stereotipo vivente. Aveva sempre la barbetta di due giorni, anche se lo si rinchiudeva per una settimana in una cantina. Ovviamente lui faceva apposta a tenerla
così, facendo invece credere di essere un “maledetto” artista assorbito solo dalla sua meravigliosa vocazione. Sempre a questo scopo, indossava le bretelle, sempre le stesse, ed un foulard blu, secondo lui ben abbinato al basco... Come lavoro faceva ritratti ai turisti, preferibilmente se del gentil sesso, a cui si sforzava di nascondere ogni piccolo possibile difetto del viso. 
Ci sapeva fare con i turisti, e così oltre al prezzo del ritratto già non proprio a buon mercato, rimediava spesso una mancia o un appuntamento..certo per accompagnarla nella visita della città! 
Ed insieme, Arsenio e Jean la città l’avevano visitata tante volte, soprattutto nelle lunghe notte d’estate, con particolare predilezione per gli arrondissement tres chic, il sedicesimo e il diciassettesimo. 
“Ti piace Munch ?” gli chiese Lupin accennando appena un sorriso. Lui lo guardò con un espressione assente, e cambiando argomento rispose “Claudia mi ha scritto oggi, con il solito codice segreto, e non va per niente bene laggiù. La devo portare via, subito” “Claudia?” 
Lui fece sorpreso: “Non te ne ho mai parlato?” 
“No… me ne sarei ricordato. Dai, dai, parla!” 
Gli prese una sigaretta dal pacchetto, si mise comodo e scoprì che Claudia era la ragazza di Jean Pierre, bionda alta e di Berlino. 
Ma di Berlino Est. Claudia, però, non si era mai rassegnata alla prepotenza del regime della DDR e ne aveva così ricavato una vita complicata, insoddisfatta e per certi versi pericolosa. Jean Pierre la conobbe a Parigi alcuni anni prima, quando con la famiglia si era recata in visita ad alcuni parenti approfittando di un regime non ancora così arcigno. Complici il bateau mouche sulla Senna con la torre Eiffel di sfondo ed una luna piena disegnata in mezzo al cielo, una nuova alleanza franco-tedesca venne siglata con un lungo bacio sulla prua. 
“Oh, quant’è romantico, Pierre!” 
Lui se la prese un po’. “Non è il momento di scherzare! Dimmi, vuoi che faccia una copia? Basta che poi mi paghi…” 
Aveva bisogno di soldi, servivano per far uscire Claudia dal Muro, per farla rinascere e vivere insieme la vita che meritavano. Quel maledetto muro. E i soldi, molti soldi, servivano per “ungere” alcuni punti sensibili del sistema poliziesco della Repubblica Democratica Tedesca. “Sì, sì, scusa, ti pagherò ovviamente, e molto. Ma mi serve una bella copia dell’Urlo, come le sai fare tu. Fai con calma, deve essere di qualità.” 
Poi con aria grave chiese: “Ma come farà Claudia a uscire?” 
“Stanno scavando” disse Jean tirando un’ampia boccata di fumo dalla Gitane ormai esausta. 
“Ininterrottamente tutta la notte tutte le notti. Ci sono persino degli studenti universitari italiani ad aiutare”. Arsenio lo guardava serio, lui continuò: “Il tunnel parte da una cantina della zona est, passa sotto il muro esterno ed uscirà subito dopo, in un prato dietro ad una chiesa nella zona ovest. Io sarò là ad aspettarla.” Una densa nube di fumo lo avvolse, quasi a sottolinearne l’ineluttabilità.
Poi continuò: “Con Claudia scapperanno una ventina di altre persone, ci sono anche 3 bambini. Sarà una cosa grossa, avrà una eco importante sui giornali. Deve essere un successo. Andremo poi per qualche giorno a stare dai nostri amici Karl e Greta, te li ricordi ? Per festeggiare ovviamente, e per riorganizzarci” 
Arsenio capiva che la fuga era ad uno stadio molto avanzato di progettazione, oltre il punto di non ritorno. Di Karl e Greta aveva solo un lontanissimo ricordo di quando li aveva conosciuti in visita a Parigi, invece capiva che Jean Pierre ne aveva coltivato l’amicizia in questi anni, ed ora loro erano un prezioso supporto a Berlino ovest per la fuga di Claudia. “Li ho presenti” rispose asciutto. 
“Servono ancora alcune notti di lavoro, e soprattutto servono ancora soldi per evitare che quello della Stasi vadano a curiosare di cantina in cantina, sicuramente qualche mezza soffiata l’hanno già ricevuta. Procedono lentamente, non devono fare rumore quando scavano e devono portare fuori la terra che devono poi far sparire nel fiume”. Tirò fuori dal taschino una foto stropicciata di qualche anno prima, in bianco e nero, ritraeva Claudia davanti alla Porta di Branderburgo, e gliela mostrò. 
“Questa volta ci giochiamo davvero tutto” e così concluse con aria grave, sia la frase che la sigaretta. 
Lavorò sulla tela per quasi due settimane di seguito, tutte le notti. Di giorno con la luce naturale controllava il risultato e faceva i ritocchi necessari. La copia dell’Urlo era perfetta, talmente perfetta che ormai se ne poteva parlare al plurale, come di Urla! 
4-…E metti Miwa da parte 
Poi c’era il piano. Oh, il piano! Quello era la specialità di Arsenio. E non amava condividerlo, nemmeno con Jean, convinto che meno persone ne fossero a conoscenza meno coinvolgimenti ci sarebbero stati se qualcosa fosse andato storto. L’ampio sportello basculante di Fitzgerald – opportunamente non allarmato per la comodità di deambulo del felino - non passò inosservato ad Arsenio nelle sue ripetute visite all’Ambasciata. Quel pertugio era il tallone di Achille dell’edificio, e con gli arnesi giusti sarebbe riuscito attraverso di esso ad aprire la porta finestra ed entrare senza danni. Per riuscirci doveva trovare un modo per restare all’interno dell’Ambasciata oltre l’orario di apertura degli uffici. Ci riuscì presentandosi con uno dei suoi travestimenti. 
Stavolta era travestito da veterinario e aveva anche un’assistente. Era Colette, sua cugina, che era davvero studentessa all’ultimo anno di veterinaria e che spesso lo accompagnava per divertimento nelle sue avventure. Arsenio pensava fosse un po’ innamorata di Jean Pierre, che lei aveva incontrato qualche volta insieme a lui.
Questa volta l'idea era stata di Colette. “Cugino, serve qualcosa che abbia a che fare con gli animali! Ho già un piano!” Era così convinta della cosa che era stato impossibile per lui dirle di no. “Ecco come andrà: siamo stati chiamati all’Ambasciata per una verifica urgente delle proprietà fisico-chimiche dell’acqua del laghetto delle carpe Koi. Dobbiamo anche verificare lo stato di salute di alcune carpe che sembravano sofferenti”. 
Erano dei perfezionisti e così studiarono su di un libro di acquariofilia come allevare con soddisfazione le carpe Koi, per risultare il più convincenti e disinvolti possibile. Occorreva però entrare all’interno dell’Ambasciata quando gli uffici erano chiusi, e così decisero di accumulare un bel ritardo rispetto all’ora concordata per l’appuntamento. La motivazione sarebbe stata un intervento urgente al Parco Zoologico al Bois de Vincennes. Avevano dato assistenza ad una panda neo-mamma ed un neonato che non ne voleva sapere di nascere. Avevano una buona motivazione per l’ora tarda, due facce pulite raccomandabili e professionali, e una imprescindibile missione da compiere: le guardie giurate li avrebbero fatti entrare senza troppe domande. E anche se qualcuno avesse voluto verificare direttamente con il Parco Zoologico l’autenticità della storia del neonato panda, a quell’ora non avrebbe trovato nessuno a rispondere al telefono. E poi a quell’ora i panda riposano. 
Quella sera era insolitamente calda. Quando i due cugini ‘veterinari’ si presentarono davanti alla porta dell’Ambasciata, le guardie giurate inaspettatamente fecero parecchie domande:
 “Chi siete?” 
“La ragione della sopravvivenza dei vostri animali” rispose Colette indispettita da loro tono.
“Perchè siete in ritardo?” 
“Ehm, sa… c’era un panda, al Parco Zoologico… che doveva nascere e io e il mio collega… abbiamo dovuto star lì fino a quest’ora, la mamma non si decideva… abbiamo fatto più in fretta possibile…” 
“Devo fare degli accertamenti.” 
“Scusate, ma io e la mia collega dovremmo fare un’operazione piuttosto urgente di verifica dello stato delle vostre carpe e prevedo già che alcune non sopravviveranno. Il fattore tempo è cruciale. Se volete farci passare…” intervenne autoritario Arsenio.
 
Insomma, alla fine entrarono e presero due strade diverse. Mentre Colette parlava alle carpe Koi, Arsenio armeggiava alacremente allo sportello di Fitzgerald, che in via eccezionale era riuscito ad infiltrarsi al piano superiore dove dormiva senza indecisioni il sonno del giusto. 
“Il sushi si puo’ preparare con le carpe Koi?” era il pensiero sacrilego di Colette mentre armeggiava nel laghetto. “Questa e’ proprio bella” pensò osservando Miwa, la decana che si era avvicinata perlustrativa al bordo del laghetto, cosparso di riflessi violetti dello stesso colore del cielo. Se il sushi era un’idea fin troppo irriverente, la vendita dell’esemplare a qualche appassionato danaroso era sicuramente una possibilità più concreta.
Fu un attimo trasferire Miwa dalle acque del laghetto extraterritoriale dell’ambasciata a quelle della vaschetta da viaggio che Colette aveva portato come parte del suo kit veterinario. “Vedrai che distrarrà le guardie giurate” spiegò Colette ad un Arsenio palesemente irritato per l’estemporanea iniziativa di furto ittico. Lui trasportava sotto il camice un Munch arrotolato…certo non gli servivano ulteriori complicazioni! 
“Non sta bene, so come rimetterla in salute e tra una settimana sarà di ritorno” disse con tono rassicurante alla guardia al cancello dell’Ambasciata. Era quasi l’ora del cambio di turno e le guardie erano più impegnate a prepararsi per tornare a casa che a controllare i due veterinari, la solita fortuna dei novellini.. 
Il giorno successivo tutto cambiò nell’Ambasciata. Nell’ufficio di Chloe’ il povero Nobita cercava invano di ricontrollare tutte le serrature e le eventuali tracce del malfattore. Il quadro di Munch era sparito. Al suo posto lo spazio lasciato dalla cornice a cui era stata sottratta la tela. La polizia era ovunque e l’Ambasciatore – certo non un gigante anche per gli standard nipponici - era furioso e trotterellava con corti e fittissimi passettini perlustrando tutto l’edificio. 
Tutti erano sospettati e tutti temevano di essere accusati se non per il furto del quadro per negligenza nel rispetto delle misure di sicurezza. L’operazione di controllo maniacale di ogni centimetro dell’Ambasciata eseguita dalla polizia fece rinvenire anche i resti dimenticati di due babà, in angoli remoti dell’archivio e della dispensa. I rimasugli di babà del giurassico erano certamente un reato minore rispetto alla sparizione del Munch, ma i sospetti di tutti si concentrarono univocamente su Fitzgerald, che per sfuggire dal trambusto si era già cautelativamente allontanato. 
E mentre nell’ambasciata la mattina trascorreva isterica, Arsenio assonnato guardava perplesso l’Urlo appeso sul muro della sua cucina. “Davvero vorrò vedere questo tizio allucinato dipinto tutte le mattine? “. “E’ un quadro nato per essere esposto in un museo” pensò “non per stare nel soggiorno di casa mentre bevo il latte con i biscotti. Rovinerà tutte le mattine della mia vita. Non deve sostare oltre a casa mia”. Ci pensò qualche giorno e mentre all’Ambasciata ormai si stavano rassegnando al più grande furto del secolo, stabilì cosa avrebbe fatto. 
“Riavrete l’Urlo se nel giardino dell’ambasciata verrà predisposto un recinto per accogliere comodamente una famiglia di capibara. Allego come prova del possesso una foto della tela e per chiarezza una del capibara”. Questo il messaggio che venne fatto recapitare da Arsenio attraverso un corriere all’Ambasciatore. Ad essere precisi, tecnicamente fu Annie che lo raccolse dal corriere e lo diede a Chloè che lo posò sulla scrivania di Nobita che lo portò all’Ambasciatore secondo un antico rituale. Avrebbe accettato? 
Il piccolo Ambasciatore si occupò personalmente di contattare il Giardino Zoologico del Bois des Vincennes per recuperare l’allegra famigliola di roditori sudamericani.
Incaricò una famosa archi-star di preparare un adeguato recinto full-comfort nel giardino dell’Ambasciata. E per i primi giorni volle nutrire personalmente i capibara assicurandosi del loro benessere. 
E così come era sparita, qualche giorno dopo la tela riapparve al suo posto, e nessuno seppe mai in che modo. Nobita però venne incaricato di assicurare il benessere dei capibara ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette; dimagrì molto! L’Urlo di Munch riprese il suo posto all’interno della cornice nera nella sala di Nobita e Chloè dell’Ambasciata. D’altronde i patti vanno rispettati, persino un accordo che preveda lo scambio di una famiglia di roditori sudamericani con un capolavoro immortale della storia dell’arte occidentale. Forse. 
O forse era l’Urlo di Jean Pierre-Copia-Conforme quello che era tornato a dominare la scrivania di Chloè nella sua cornice nera? 
La settimana seguente Miwa fece la sua orgogliosa comparsa nelle acque del laghetto del Parco Zoogico. “Non posso privare l’Umanità del piacere di vedere una simile bellezza della natura” pensava Colette. “Nell’ambasciata solo pochi l’avrebbero goduta, e lo stesso se l’avessi venduta a qualche ricco collezionista” pensava, orgogliosa di sentirsi come una moderna Robin Hood. Si assicurò che al Parco Zoologico fossero a conoscenza di cosa stava nuotando nel loro laghetto e ne avessero il massimo della cura. Comparvero anche cartelloni sui diversi tipi di carpa, abitudini e aneddoti. Fu l’inizio di una breve Carpa-Koi-mania tra i frequentatori abituali del Parco Zoologico, torme di bambini ne pretendevano una nella vasca del bagno di casa dannando la vita dei loro genitori. 
5- C’è un capibara nel mio giardino! 
Fitzgerald impiegò diverso tempo per elaborare e finalmente metabolizzare l’arrivo dei due capibara. Da sovrano assoluto del piano terra inclusi giardino e pertinenze varie riteneva irricevibile una famiglia di roditori e relativa magione senza alcuna preventiva autorizzazione o almeno indennizzo nei suoi confronti. Cercò di razionalizzare concludendo che evidentemente anche i bipedi abituali frequentatori del suo feudo dovevano trovarsi in una situazione senza alternative. Ciò che segue è una ricostruzione puntuale degli eventi, accuratamente registrati da Chloè, da sempre attenta osservatrice. 
Di mattina Fitzgerald partiva di buonora ed esplorava il perimetro del recinto, con attenzione certosina, cercandovi un pertugio per introdurre almeno una zampa indagatrice. Ma ogni giorno gli riservava la stessa delusione, il recinto era alto, perfettamente liscio ed integro. Solo il ciliegio da fiore giapponese gli offriva un punto di vista aereo del recinto; dai suoi rami poteva contemplare quei capibara, i loro ritmi di vita da roditore e le loro dimensioni considerevoli, quasi da felino. Di notte
sembrava sognasse di affrontare in campo aperto gli abusivi roditori. Probabilmente si immaginava come l’acheo Achille con i baffi e la coda, fiero e invincibile che ripristina con le unghie e con i denti l’onore e la gerarchia naturale nel giardino dell’Ambasciata. 
L’occasione si presentò in un afoso giorno di metà agosto, quando Nobita dimenticò la porta del recinto aperta. Era stato chiamato dal Segretario Generale proprio mentre cambiava l’acqua della ciotola dei capibara. Si precipitò dentro l’ufficio, rovesciandosi l’acqua addosso e dimenticano di assicurare il lucchetto della porta del recinto. Hiroshi, il capibara maschio, il capo-famiglia, uscì curioso dal recinto e trotterellò nel giardino, costeggiando il laghetto delle carpe Koi, per fermarsi nella parte confinante con l’ufficio di Chloè. 
Si guardò intorno e fece il verso che ha reso famosa questa specie nell’intero mondo animale: un sordo “Gruf” fu l’espressione della sua sorpresa e felicità per la libertà inaspettatamente ritrovata. La scena non sfuggì a Fitzgerald, appollaiato come sempre sul ramo più grande del ciliegio. Attraversò i tre stadi dell’essere felino in meno di un secondo: sonno-dormiveglia-azione. 
Balzò giù dall’albero, e avanzò in direzione di Hiroshi con andamento guardingo, appiattendosi più che poteva sull’erba per ridurre la possibilità di essere visto. Ma era grosso come un trolley, per di più rosso e bianco, davvero impossibile non notarlo. Il sole era alto e caldissimo, ed in breve furono a meno di tre metri l’uno dall’altro: si osservavano con lo sguardo fisso sugli occhi rimanendo immobili, attenti ad un solo movimento dell’altro come un segnale di attacco. Mancavano solo i cactus e il condor sopra di loro e sarebbe stata la scena madre perfetta di un film western di Sergio Leone, regista che Chloè adorava. 
“Nobitaaaa…” chiamò a squarciagola Chloè dopo che si accorse che la riproposizione di “Mezzogiorno di Fuoco” in giardino non accennava a fermarsi. Nobita era in realtà impegnato al bagno e non era in condizione di poter reagire alla chiamata in tempo utile. Ma anche al di fuori dei momenti di necessità, i suoi tempi di reazione erano piuttosto deludenti, più simili a quelli ad un bradipo affaticato, penalizzati dall’adipe diffusa e dalla pigrizia cronica innata. Ma la chiamata di Chloè un effetto lo sortì ugualmente: Hiroshi si spaventò per il grido e si ritirò al galoppo veloce nel recinto. Fitzgerald non lo inseguì: interpretò quella fuga come un atto di sottomissione verso di lui, e lo valutò sufficiente per considerare restituiti onore e gerarchia sul suo territorio. Achille si coprì di gloria! 
Il verso che produce un Capibara arrabbiato restò cosi ignoto ai più, solo Fitzgerald lo sperimentò senza averne pero’ possibilità di farne divulgazione scientifica. Inoltre la vendetta è un piatto che si consuma freddo si dice, e a Fitzgerald non era sfuggita l’abitudine primitiva del Capibara di ritirarsi in letargo. Con grande sdegno riflettè su questa arcaica abitudine di alcune specie animali primitive, e concluse: “Avrò tutto il tempo e le possibilità di agire durante il loro stolto sonno”
L’interesse di Fitzgerald per la famigliola di Capibara da quel giorno diminuì sensibilmente, tornò ad annoiarsi al fresco sotto la scrivania di Chloè, e a seguire da là sotto lo scorrere della giornata di Nobita e degli altri suoi sudditi. Chloè lo chiamava “micetto”, gli portava delle polpettine di ciccia di cui era ghiotto da un negozio di specialità libanesi lì vicino. 
Lui contraccambiava con grandi fusa che sapeva essere da sempre apprezzate dagli umani. Inoltre, con un occhio di riguardo del tutto particolare, cercava di limitare al massimo delle sue possibilità le gioiose zampate sulle gambe di Chloè, così da preservarle intatte numerose paia di collant. Chloè stava lentamente scalando di posizione in posizione nella scala della considerazione che Fitzgerald aveva per tutte le cose del mondo. Un giorno l’avrebbe forse potuta considerare al livello di una gatta, persino di Camille, la deliziosa persiana bianca a pelo lungo del ristorante libanese dietro l’angolo, con cui si scambiava struggenti miagolii nelle lunghe notti estive. Già, l’affascinante gatta Camille, ma quella è un’altra storia.. 
 
6- San Silvestro 
Il grande salone illuminato a giorno aveva un balcone fronte Senna che regalava una vista sulla rive gauche da levare il fiato.  L’atmosfera era perfetta ed era impreziosita da un piano a mezza coda che Annie suonava divinamente, spaziando tra autori classici ‘e moderni, rivelandosi anche intonata nel canto! C’era Colette, che correva da una parte all’altra della sala senza sosta portando vassoi colmi di ogni prelibatezza. Era bellissima quella sera, l’abito lungo che indossava ne risaltava il corpo slanciato e la collana di perle al collo ne illuminava il viso. Un capannello di invitati ascoltava divertito Arsenio raccontare della storia del suo primo incontro con Chloè. Più di un invitato aveva notato la radiosità di Colette e non la perdeva di vista. Arsenio Lupin Secondo raccontava agli invitati senza sosta dettagli e particolari, annaffiando con abbondante vino Chateau Laffite Rothschild ogni passaggio saliente della storia, ridendo e gesticolando per rafforzare la narrazione.
Ad un tratto il suo sguardo si posò sulla libreria dove giaceva una piccola foto su di una busta da lettera aperta con il timbro Germania Ovest. Smise di parlare per qualche secondo, e la sua mente volò lontano, per focalizzarsi su quell’immagine stampata in bianco e nero. La foto ritraeva una coppia felice che si abbraccia in una piazza di Berlino ovest con il castello di Charlottenburg come fondale. Erano il suo amico di sempre Jean Pierre sorridente con Claudia, finalmente libera. E con loro in quello scatto c’era anche il loro futuro bambino che non sapevano ancora di aspettare. Si sarebbe chiamato con un nome norvegese, quello del loro pittore preferito… Edvard…ma questa era una storia che proprio non poteva raccontare a nessuno…Mentre rincorreva questi pensieri accennò ad un sorriso, era soddisfatto di come quel capitolo della sua vita si fosse concluso. 
Ricominciò a parlare e gesticolare, tornando a concentrarsi sugli ospiti e la sua Chloè, sempre perfetta e bellissima, come se non fosse ormai notte fonda. Era ormai semi-sbronzo quando si alzo’, diede un bacio a Chloe’ e si diresse verso il corridoio. La mezzanotte era passata da un pezzo ed un nuovo anno stava cominciando. Dalla camera da letto in fondo al corridoio salì un gemito che rapidamente lasciò il posto ad un pianto prepotente….era lui, il piccolo Arsenio, il continuatore della dinastia, Lupin III !
E a pensarci bene…fu proprio quel neonato il dono del Capibara…
 
 
 
Fine
 
 
By: Henry & Liv
 
Marzo 2022
 
   
 
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