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Autore: Dira_    20/03/2022    2 recensioni
[Seguito de "Nella Selva Oscura"]
Castiglioscuro non è più un problema per le Silvani. Lo è il bosco, e ciò che contiene.
Un mostro si è risvegliato tra gli alberi e una barista di paese si è resa conto che non più essere soltanto quello.
Rosi deve tornare nell'Altrove, un mondo popolato da spettri, criptidi e mostri; deve trovare il coraggio di affrontarli e forse affrontare sé stessa.
Nell'Altrove è facile smarrirsi: puoi dimenticare di essere un mostro per scoprire il primo amore, puoi cominciare a dubitare che obbedire agli ordini sia sempre giusto. Puoi scoprire che no, non lo è.
Perché nell'Altrove vi è una sola certezza: una volta che lasci il sentiero, è allora che la storia comincia davvero.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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13.
 
Bice non riesce a dormire.
Vorrebbe, perché sa che il sonno porta risposte, ma rimane con gli occhi sbarrati a fissare le travi del soffitto. Accanto a lei, la figura immobile di Lietta, preme sudata contro la sua.
Per fortuna suo padre non è andato al castello a caccia della bestia; è andato in osteria a far l'alba, per essere il primo, assieme agli altri uomini troppo vecchi, a ricevere notizie. Bice vorrebbe essere uno di loro per poter ricevere per prima notizie. 
Un brutto presagio le bagna la pelle come febbre e alla fine irrequieta si alza e va alla finestra.
Quella notte è luna nuova e il cielo è scuro e ostile. Bice si getta uno scialle sulla camicia da notte. Deve andare.  
“... Dove vai?”
Lietta, da in cima alle scale, la chiama insonnolita e confusa.
“Torna a dormire.”
Lietta scende le scale di corsa e le si getta addosso, all'improvviso, stringendola in un abbraccio serrato.“Non andare!” le sussurra contro il collo parole calde d'ansia. “È pericoloso … non l'hai sentito il bosco?”
Bice le passa una mano tra i lunghi capelli castani e vorrebbe tenerla contro di sé, calda di sonno e posto sicuro. Non può. 
Fortunato è fuori quella notte, con solo una spada contro un mostro. Non basteranno tutte le guardie del signore del castello per fermare l'Altrove. 
Gli uomini del Chiaro pensano di essere i cacciatori, ma è tutto il contrario. Di notte l'ordine del bosco è rovesciato.
“Cosa devo aspettarmi?” le domanda piano. “Che ti ha raccontato Benedetto?”
Lietta la stringe con più forza. “Non lo so...” dice dopo qualche attimo. “Lui esce di notte, ma non mi dice dove va'. Mi lascia indietro e io … non lo seguo.”
“Hai visto il mostro?”
Lietta scuote la testa, testardamente fedele all'uomo che dice di amarla. Bice non ha tempo per cercare di convincerla del contrario, di scuoterla e farla tornare in sé. Si stacca con forza dall'abbraccio e corre fuori nell'aia. La luce della luna non può guidarla quella notte ma non le serve. 
Bice è figlia degli alberi ed a loro che chiede aiuto, gettandosi nella boscaglia a piedi nudi.
“Fatemi trovare Fortunato...” mormora al tronco di una quercia, posandoci la fronte contro, e premendo le labbra contro un nodo. “Fatemi trovare il mio uomo.”
Lo stormire delle foglie le risponde e di fronte a sé una fiammella pallida e lattiginosa si accende. È un lumicino.
 
volta le spalle e scappa, bambina … 
Torna indietro …
Chi entra è perduto …
 
Bice si tappa le orecchie. “Portami da lui,” chiede al lumicino che riappare qualche metro più avanti, fuori dal sentiero. 
Bice vorrebbe invocare lo spirito del bosco, ma non verrà se chiamato. Conosce le regole, quando potrà darle ciò che le ha promesso si paleserà. Non prima, non dopo.
Adesso il suo obiettivo non è sconfiggere il grande serpe. È trovare Fortunato e portarlo via di lì, perché ha capito che quella notte non deve sognare, deve agire.
Il lumicino pulsa di luce lattiginosa, apparendo e scomparendo tra le felci e il sottobosco. Bice si graffia le gambe nude, le braccia, ma lo segue senza esitazioni e, in un certo senso, senza scelta.
Il lumicino poi, di colpo appare fluttuando a mezz'aria e Bice incespica cercando di capire cosa vuole che faccia. Poi una luce, più intensa e calda le abbacina gli occhi. È la luce di una torcia e con gli ultimi passi fuori da un cespuglio, Bice si trova di fronte alla radura della grande quercia, quella dove lei e Fortunato si incontrano e dove quel pomeriggio hanno fatto l'amore.
La luce della torcia per un attimo fa ritrarre Bice, che al buio ormai si è abituata, ma poi riconosce i vestiti e l'armatura.
“Fortunato!” esclama con il cuore gonfio di sollievo. Il ragazzo si volta, a spada sguainata, ma riconosce la voce e la tensione fa spazio alla sorpresa, e ad un sorriso.  
Quello sciocco sta cercando il mostro da solo! Ha infranto la loro promessa! Bice fa per raggiungerlo quando un rumore assordante la blocca come un cervo di fronte ad un cacciatore.
Dal sottobosco, rapida come un fulmine, un'ombra cala su Fortunato. Bice grida mentre il giovane viene strattonato così violentemente da perdere la presa sulla torcia, che cade a terra, smorzando il cono di luce.
La bestia ha preso Fortunato e Bice lo sente urlare mentre cerca di divincolarsi, il rumore del ferro e della colluttazione riempiono la radura. 
Con la forza della disperazione Bice si lancia nella direzione dello scontro.
Bice prende la torcia da terra, ancora miracolosamente accesa e si scaglia sulla massa d'ombra che è il mostro. Con un urlo abbatte la torcia, che sembra bruciare divorata dalle fiamme, sul corpo gargantuesco della grande serpe. Questa lancia un grido raccapricciante, d'uomo e di belva assieme. Il fuoco la ferisce, capisce Bice, o la spaventa abbastanza perché si stacchi da Fortunato, che crolla a terra come una bambola di stracci.
La serpe ha il volto d'uomo. Alla luce della torcia che sfavilla in modo quasi innaturale il volto dagli occhi ciechi si volta nella sua direzione. Bice ringhia, ferina, mentre il sangue del bosco le si incendia nelle vene. Invoca gli alberi, e mostra i denti al serpe. 
Gli occhi obliqui non restituiscono luce e forse è cieca, ma il calore della torcia e i suoni lo fanno ritrarre.
“Va' via! Qui nulla ti appartiene!” ruggisce Bice. Il mostro si incurva, tenta di attaccarla ma Bice brandisce la torcia, mettendosi davanti al corpo esanime di Fortunato. 
È solo una ragazza con una torcia, oppure è uno spirito di quei luoghi antichi che sta difendendo il proprio territorio. Forse è entrambe le cose. 
Il mostro esita. A Bice sembra che il tempo rallenti, fino a quasi fermarsi. Poi il grande serpe scompare nelle ombre mentre l'odore di marcio si affievolisce.
Se n'è andato.
Bice non perde tempo. Conficca la torcia nel terreno morbido e si china su Fortunato. Un'enorme chiazza scura si allarga sul fianco, sullo stomaco e l'odore del sangue le rivolta lo stomaco. Il mostro è riuscito a penetrare nella cotta di maglia del ragazzo come se fosse fatta di stoffa. 
“Fortunato...” singhiozza prendendogli il viso tra le mani. Il ragazzo apre gli occhi e bisbiglia qualcosa. Ha le labbra sporche di sangue e Bice è consapevole di cosa significhi. Quando il sangue esce dalla bocca  a quella maniera, scuro e copioso, non c'è più niente da fare.
Lo stringe al petto e singhiozza. Avrebbe dovuto avvertirlo, avrebbe dovuto impedirglielo, non sarebbe dovuta rimanere a casa. Doveva darle retta, non doveva separarsi dai compagni, perché l'ha fatto?
Perché la vuole lasciare sola? 
Lo singhiozza disperata e si ferma con quella cantilena solo quando la mano fredda del senese le accarezza una guancia, obbligandola ad alzare la testa.
Si guardano negli occhi solo per pochi secondi o centinaia di anni. Fortunato le muore tra le braccia.
 
“Stanno arrivando gli uomini...” sente una voce. È lo spirito del bosco che parla attraverso gli alberi. “Scappa prima che ti trovino, che a quelli come noi non chiedon mai spiegazioni.”
Beatrice non vorrebbe separarsi dal suo Fortunato e se la passeranno a filo di spada credendola colpevole, dandole della strega, tanto meglio. 
Bice però sa che non può rimanere, non quando la bestia è in giro e può uccidere ancora.
Deve vivere, e ucciderla. 
Quindi bacia le labbra ancora tiepide dell'uomo che aveva promesso di amarla e, sporca del suo sangue, scappa nel buio del bosco.
 
*** 
 

I die when our nights end, 
but I only stay dead til I see you again
- Louisa, Lord Huron
 

Rosi si svegliò con un sussulto, le guance bagnate di lacrime, il dolore che le premeva al centro del petto: quello che provava non era suo, ma era come se lo fosse.
Aveva sognato la morte di Fortunato.
Si asciugò le lacrime strofinando con rabbia le guance, cercando di tornare alla realtà: era pomeriggio, non notte ed era a casa di Tobia, non in un bosco buio e spaventoso. 
Però potrebbe succedere ancora. 
Si abbracciò le ginocchia, seppellendoci il viso. La sensazione del cotone grezzo dei jeans sul viso le impediva a malapena di tuffarsi di nuovo in quel mare di dolore e ricordi.
Non era facile tornare indietro. Non era facile tornare alla realtà senza un'ancora, senza qualcuno in grado di ricordarle chi era.
La porta si aprì e Tobia apparve sullo stipite. “Tutto bene? Ti ho sentita gridare…”
Scosse la testa e l'altro le fu subito accanto. “Cos'hai sognato?”
Le pareva di sentire ancora le urla di Beatrice graffiarle le orecchie e l'odore del sangue di Fortunato. 
“Il regolo ha paura del fuoco ...” mormorò perché era quella la parte importante. Tutto il resto, era contorno che doveva sorbirsi lei. Non aveva senso ammorbare qualcun altro. “Non lo vede, ma ne percepisce il calore.”
“Cos'hai sognato?” ripeté Tobia e Rosi alzò la testa di scatto per rispondergli a tono, ma trovò solo l'espressione preoccupata e attenta dell'altro. La disarmò.
Non voglio che quel sogno diventi realtà. Non voglio che tu muoia. 
“Non riesci a tornare indietro?” 
Io non sono forte come Beatrice. Se tu muori, io che faccio?
Rosi scosse di nuovo la testa e Tobia, interpretando il gesto come una risposta, si sedette sul letto accanto a lei, passandole un braccio attorno alle spalle. 
“Sei a casa, Roísín...” le mormorò. “Sei a casa e sei al sicuro.”
Adorava il modo in cui diceva il suo nome: Tobia Neri era l'unico che si fosse mai sforzato di  pronunciarlo correttamente.  
Rosi ricambiò l'abbraccio, incastrando il volto nell'incavo del collo, respirando l'odore di bosco. Di casa.
“Stringimi più forte,” lo istruì. “Più forte...” ripeté quando lo sentì esitare. Fu contenta solo nel sentirsi schiacciata contro il petto dell'altro, tra stoffa e pelle, mentre ascoltava il cuore battergli con forza.
“La manolonga sta meglio...” disse Tobia rompendo il silenzio. “Anche la ferita ha smesso di sanguinare. Si è svegliata ed ha mangiato.”
“Bene...” 
“Non mi vuoi parlare del tuo sogno?” le domandò: quel giorno era insolitamente ciarliero. “Tua mamma diceva sempre...”
“Mia madre dice un sacco di cazzate.”
Parlarne avrebbe probabilmente aiutato, ma l'essere stretta fino a quasi far fatica a capire dove iniziava l'uno e finiva l'altro era meglio. Molto meglio, ma come avrebbe potuto spiegarglielo senza dirgli tutta la verità?
Vorrei altro. Vorrei che mi toccassi, e mi spogliassi. Vorrei che facessi l'amore con me. 
Quel treno era passato, però. E non sapeva dove cercarne un altro, o come, checché ne dicesse quel cretino di Ettore.
Rosi avrebbe voluto rimanere in quel modo per sempre, lasciare che il tempo passasse e il resto del mondo scomparisse oltre le fronde delle querce. Però non poteva trattenere Tobia, che era troppo gentile per sciogliere l'abbraccio anche quando era palese che fosse a disagio, almeno per come stava tamburellando un piede per terra.
Lo faceva sempre da bambino, quando era nervoso.
“Se ti sei stufato puoi smettere ...” 
Tobia non rispose e Rosi si arrischiò a lanciargli un'occhiata. Come al solito, il viso non lasciava trapelare nulla.
“Non mi sono stufato, non è quello...” tirò un respiro profondo. “Solo che non siamo più bambini.”
Rosi si sentì avvampare, e sciolse in fretta la presa. “Scusami. Non volevo metterti a disagio, avevo soltanto bisogno di...”
“... di un'ancora per tornare indietro, me lo ricordo,” la anticipò guardando ovunque tranne che nella sua direzione. Le fece male. 
“Esatto,” mentì spudoratamente, “tranquillo, non te lo chiederò più.”
“Non è quello.”
“Allora cos'è?!” sbuffò esasperata.
“Non è disagio,” ripeté testardo e con gli occhi incollati alla coperta. “Non è importante adesso. Non lo è,” ripeté. “Non preoccuparti.”
Rosi accantonò lo stramaledetto mostro fuori dalla porta e si concentrò sull'uomo che le stava davanti. Tobia, l'altra metà dei bambini nati di Domenica di Malacena, il suo migliore amico e la persona che si era accorta decisamente troppo tardi di amare. 
Non era a disagio, aveva ragione. C'era però qualcosa che lo stava facendo soffrire, come se un'urgenza gli agitasse il corpo senza riuscire ad uscire. Tobia non era una persona irrequieta; la sua flemma era famosa in tutto il paese.
In quel momento sembrava seduto su un cuscino irto di spilli.  
Rosi avrebbe potuto ignorare la cosa, lasciarlo uscire dalla stanza, ma se c'era una cosa che aveva capito da quell'orribile separazione, era che non parlare era quello che li aveva davvero allontanati. 
“Dimmi che c'è che non va...” mormorò prendendogli le mani tra le sue. “Mi rendo conto che non è facile parlare con me. Ti ho ignorato e trattato male per anni … e ora ti invado casa e ti ho chiesto un gesto che forse non volevi fare e...”
“Volevo farlo,” la interruppe. “Volevo farlo da tanto tempo.”
“Parlarmi?”  
“No. Abbracciarti. Toccarti.” 
Rosi inspirò, mentre il cuore dava una brusca accelerata. Le dita di Tobia si incastrarono tra le sue. Notando forse la sua agitazione, le sorrise. “E non è perché sono diventato un eremita avulso dal contatto umano … almeno, non solo.”
“Dubito che mia madre ti abbia risparmiato in questi anni i suoi famosi abbracci da chioccia ansiosa...”
“Non è la stessa cosa.”
Se non fosse stata troppo assorbita nei suoi patemi personali, se ne sarebbe accorta molto prima. Questo le sembrava ripetere a nastro una vocetta dentro la testa; se non fosse stata un'idiota completa si sarebbe accorta che il modo in cui la guardava Tobia non era la stessa cosa.
Non lo era mai stata.
“Perché non siamo più bambini, vero?” mormorò sfiorandogli la guancia con una mano. Tobia si irrigidì, guardingo come un animale selvatico. 
Vacci piano. La parte sull'eremitaggio non è lontano dalla realtà. Non c'è più abituato. Ed è pure colpa tua.
“Sì...” rispose continuando a fissarla come se volesse metterle a nudo l'anima. Ma Rosi non si sentiva spaventa, aveva idea del perché l'altro lo stesse facendo. Voleva capirla. Voleva leggerle nel pensiero ed essere rassicurato.
Peccato che non sia questo il tuo dono, ragazzo del Cimitero.
“C'è qualcos'altro che vorresti fare con me?” gli domandò, passandogli le dita tra i capelli. Tobia chiuse gli occhi come un gatto a cui era stata fatta la carezza giusta, poi annuì. 
Forse non avevano mai trovato il momento giusto. Forse era troppo tardi ...
… O forse, come diceva Ettore, era tardi soltanto da morti.
Rosi si sporse e posò le labbra su quelle dell'altro, sperando, pregando di aver capito bene ma non dovette attendere molto; Tobia se la tirò addosso come se non pesasse nulla e la strinse, regalandole un bacio appassionato, goffo e meraviglioso. 
Un bacio che ci aveva messo cinque anni per arrivare. O dieci. O venti. O una vita.
Rosi non sentì più il bisogno di essere stretta fino a sentir male. Stava bene lì, in braccio al suo gigante buono, che le seppellì il viso tra i capelli con un profondo respiro soddisfatto.
Rosi sentì un sorriso premere sulle labbra. “Beh … se ci tenevi tanto potevi farlo prima,” non riuscì a trattenersi.
“Dimmi un prima in cui non mi sarei beccato un pugno.”
“Vero...” ammise. “Solo per la sorpresa però.”
Tobia alzò la testa e Rosi lo baciò di nuovo. Farlo fu così naturale che si chiese perché non fosse successo prima. Molto prima.
Perché avevi paura di rovinare tutto e l'hai rovinato comunque. Quindi, tanto vale almeno provarci, ad essere felici. 
“Bia...” si staccò, perché avrebbero dovuto mettere un punto. Discutere. Cercare di capire dove sarebbero andati a parare, perché non erano due ragazzini, erano adulti in mezzo ad un guaio di proporzioni epiche e …
… e un telefono prese a squillare. Il suo cellulare per la precisione. Rosi imprecò a bassa voce, cercandolo a tastoni tra le lenzuola. 
Tobia si sporse sul comodino e glielo porse. “È tua madre, è meglio se rispondi.”
“Sarebbe meglio se la mandassi a quel paese ...” borbottò di rimando e non riuscì a trattenere l'ennesimo sorriso quando Tobia sbuffò una mezza risata e non pensò di liberarla dal suo abbraccio. “Mamma, che c'è?” 
 
“Vieni a casa, Cate ha fatto un incidente in motorino.”
 
***
 
“Sto bene!”
Cate aveva voglia di darsela a gambe; non facilissimo però quando eri reduce da un incidente e lo sapeva tutto il paese.
Lei e Maddalena erano riuscite ad arrivare senza problemi a Malacena; però quando aveva parcheggiato il motorino, la cui carrozzeria ormai era un ammasso spigoloso di lamiere e plastica, aveva attirato l'attenzione di metà piazza, sua madre compresa, che in quel momento stava servendo fuori ai tavoli. Senza che potesse protestare era stata presa di peso e portata in processione fino dentro casa, in una coda di siciliani, sua madre, Tea e una mezza dozzina di malacena a caso.
Marina aveva scacciato tutti alla svelta, istruendo Michele di portarla fino al divano del salotto dove era stata rivoltata come un calzino, tra domande, luce sparata in faccia e palpeggiamenti in punti assai dolenti.
Alla fine se l'era cavata con una fasciatura alla gamba che puzzava di erbe di campo e due dita della mano sinistra steccate perché sospettate di slogatura. 
E ora come faccio a suonare?!
La peggiore comunque era e rimaneva Maddalena; appoggiata al muro dietro di lei la fissava come un falco ansioso. “E' caduta di motorino ed è svenuta... non dovremo portarla in ospedale?” ripeté per la centesima volta.
Sua madre, per fortuna, aveva la pazienza di un bonzo tibetano. “Caterina sta bene …” ripeté. “Dobbiamo solo stare attenti che non le venga sonno. Mal di testa tesoro?” 
Non ho mal di testa!” ribadì esasperata. “Il motorino è messo peggio...” l'idea di dover dire a Rosi di averlo sfasciato le metteva ansia. Sua sorella aveva un rapporto morboso con le sue cose, e si era raccomandata miliardi di volte di tenerlo alla perfezione.
“Sei stata fortunata,” osservò Stefano, l'unico a parte sua madre che non aveva l'aria di partecipare ad una veglia funebre. 
“Lo siamo state entrambe,” fece notare, “anche Malù non s'è fatta niente.”
Maddalena fece una smorfia ma non disse niente.
Lei ne è uscita illesa! Perché non parliamo di questo?
Michele passò un braccio sulle spalle della sorella. “Figurati, chista ccà ha nove vite come i gatti!”
“Come no...” 
Oppure … perché non parliamo della roba che abbiamo investito?
Perché probabilmente avrebbe rischiato l'ospedale. Le allucinazioni non erano un bel biglietto da visita per rassicurare gli altri che non aveva un trauma cranico.
Però l'ho vista, e prima di cadere … 
Sua madre le accarezzò un braccio. “Ora pensa a riposarti. Guarda un po' di tv e fatti servire da questo baldo giovanotto...” e indicò Michele che annuì energico. “Per un paio di giorni, con quella gamba lì, te ne devi stare tranquilla...”
“Ma riesco a camminare!”
“Mica tanto,” borbottò Maddalena incassando la testa nelle spalle quando la fulminò. “Michi ha dovuto darti una mano a fare le scale...”
“La fate più lunga della messa cantata,” borbottò, ma prima che potesse lamentarsi ulteriormente il rumore di qualcuno che saliva le scale di corsa fece voltare tutti. 
Rosi si precipitò  nella stanza, con gli occhi sgranati e i capelli che volavano da tutte le parti, privi della solita crocchia in cui erano costretti.
“Mi spiace per il motorino!” esclamò Cate, maledicendo il fatto che non potesse andare da nessuna parte, bloccata sul divano in parte da sua madre e in parte dalla sua stupidissima gamba dolorante.
“Che c'entra il motorino?” ribatté Rosi senza fiato. Poi in due falcate le fu davanti e si chinò, stritolandola in un abbraccio.
Caterina ricambiò sbalordita.
Niente urla? 
“Rosi … te l'ho detto che non era grave,” commentò Marina con un sospiro divertito. “Ti preoccupi sempre troppo.”
Eh, non è l'unica …
Cate evitò di commentare, godendosi quell'abbraccio insperato. Rosi poi si staccò, esaminandola con minuzia un po' inquietante. “Si può sapere come hai fatto?”  
“Pioveva ed è scivolata la ruota davanti … ho perso il controllo.” 
“Andavi troppo forte,” non chiese, attestò, mentre il cipiglio da accusa, giudice e giuria tornava in tutto il suo splendore. “Te l'ho detto mille volte di far piano per quella strada!”
Cate abbozzò. Non c’era molto da contestare su quel punto. “Mi dispiace, hai ragione … ho distrutto il motorino, ma te lo ripago.”
“Ma che me ne frega del motorino!” sbottò rabbiosa. “Potevi morire!”
“Che esagerata!” esclamò, ma l'espressione di Rosi non mutò: era pallida come un cencio e si stava martoriando le labbra. Era spaventata sul serio.
A Cate venne voglia di abbracciarla. L'avrebbe fatto ma l’altra si era di nuovo chiusa nel guscio, rialzandosi e stringendo le braccia al petto. 
“Non mi sono fatta niente, sta tranquilla...” Si voltò verso Marina. “Diglielo mamma!”
“Ha qualche graffio e una brutta contusione alla gamba, ma non ha bisogno dell'ospedale. Lei e Maddalena sono state fortunate.”
Rosi si voltò verso la siciliana. “C'eri anche tu? E come stai?”
Maddalena per un attimo sembrò quasi non capire la domanda, come se non se la fosse aspettata. “Bene sto … nenti mi feci.” 
“Niente di grave,” concluse sua madre. “Non ti ho chiamato per farti preoccupare.”
“E per cosa lo avresti fatto esattamente?” sbottò Rosi con un veleno incomprensibile. Almeno per Cate; sua mamma invece che prenderla da parte e chiedere spiegazioni come suo solito, si limitò a controllare di nuovo la fasciatura alla gamba. 
Rosi dopo qualche secondo di indecisione, annunciò che sarebbe scesa al Bar e, dopo un saluto borbottato generale, levò le tende. 
Ma hanno litigato?
Decise che non era affar suo. La gamba cominciava a farle davvero male, ma non aveva voglia di rimanere in salotto vegliata dalle premure non richieste di Michele e lo sguardo ansioso di Maddalena.
“Michi mi dai una mano ad andare in camera? Mi stendo un attimo … senza dormire,” aggiunse mettendo le mani avanti. “Metto un po' di musica e mi rilasso.” 
“Sarebbe meglio se qualcuno stesse con te tesoro...” Sua madre lanciò un'occhiata all'orologio da polso. “Tra poco devo essere in ospedale, ma se vuoi...”
Maddalena si staccò dal muro. “Posso...”
“Chiamo Alina,” la anticipò. Fu istintivo e ne pentì subito, soprattutto da come Maddalena si afflosciò. Però non ritrattò.
Sono ancora arrabbiata con te. Credi che mi sia immaginata tutto! 
Aveva bisogno di qualcuno che le facesse passare il malumore. Neppure Pietro sarebbe andato bene perché si sarebbe agitato troppo. 
Speriamo che Alina mi risponda stavolta.  
Sua mamma annuì. “Va bene tesoro, chiamala … e dille che se vuole restare a cena non c'è problema. Assicurati però che non abbia impicci con suo padre.”
“Sì, sì … Michi?”
Il ragazzo le fu subito accanto, tendendole le mani. “Agli ordini!” 
Passando zoppicante di fronte a Maddalena evitò con tutte le forze di guardarla; non fu facile per niente. 
Si lasciò guidare da un insolitamente delicato Michele lungo le scale e poi manovrare fino al letto. “Eccoci qua principessa!” annunciò soddisfatto. “Ti serve qualcos'altro?”
“Che cringe,” ribatté al nomignolo, scambiandosi un ghigno con l’altro. “No, grazie … ho tutto a portata di mano.”
Michele annuì. “Se Alina non può, ci stiamo noi con te … Maddalena si è proprio offerta!” rise. “Ma mi sa che non hai voglia di averla tra i piedi.”
“Si è notato tanto?”
“Beh, l'hai trattata da cani da quando siamo entrati...” le fece notare pacato. “Avete litigato?”
“No … cioè, non proprio,” si strinse nelle spalle, recuperando il cellulare e le cuffiette. “Non ho molta voglia di parlarne, scusa.” 
Con te che sei suo fratello e l'ultima volta m'hai detto di lasciarla stare proprio no.
Non le piaceva avere quell'umore “nivùro”, ma non aveva idea di come scrollarselo di dosso. “Ti spiace se chiamo Alina e...”
“Capito, levo le tende.” Michele le sorrise, dandole una pacca sulla spalla. “Quando hai bisogno, grida!” e dopo un saluto le chiuse la porta alle spalle.
Caterina sospirò, reclinando la testa sul cuscino. 
Forse a Lin potrei dire quello che ho visto …
Sospirò e compose il numero dell'amica, che miracolosamente rispose al primo squillo.
“Ciao!” esclamò contenta. “Ti disturbo?”
“No,” la voce di Alina era nervosa, ma dopo una breve esitazione continuò, “che succede?”
“Succede che mi manchi,” ammise sincera. “Mi manchi e mi sono sfracellata in motorino ed ho bisogno che qualcuno stia con me perché se mi addormento potrei avere un trauma cranico.”
“Cosa … come scusa?” balbettò Alina. “Dove sei?” 
Caterina raccontò tutto per sommi capi, evitando accuratamente di nominare Maddalena. Non che l’altra avesse colpe dell'incidente ma aveva imparato a tenerla fuori dai discorsi quando parlava con l'amica. “... e quindi mi serve una babysitter,” concluse. “Solo se puoi, eh.”
“Arrivo. Dammi il tempo di salire in paese.”
“Puoi lasciare solo tuo babbo?”
“Sì, non preoccuparti. Arrivo,” e chiuse la chiamata senza darle il tempo di ringraziarla.
C'è qualcuno che si comporta in modo normale?
Forse Ariele. Che a giudicare dai miagolii strazianti fuori dalla porta tentava come al solito di entrare per scroccare la sua quotidiana dose di grattini. Cate sbuffò, ma conosceva la bestiola e non si sarebbe rassegnata finché non gli avesse aperto la porta. Si issò a sedere e poi saltellò fino alla maniglia.
Aprì e Ariele era in braccio a Maddalena La quale avvampò con aria colpevole. “Mi è saltato in braccio e ha cominciato a miagolare...” 
“E ti ha chiesto a miagolii di portarlo fin qui?” le domandò non riuscendo a reprimere un sorriso. Era arrabbiata e confusa … ma Maddalena era Maddalena. La sua ragazza bellissima e impacciata che si fissava le scarpe.
“No … ero qui fuori da un po',” ammise abbassando inevitabilmente lo sguardo. “U' sacciu che non vuoi parlarmi anche se non capisco perché … però … Alina ha risposto? Viene?”
“Sì, tra poco,” sospirò sorridendole e togliendole Ariele dalle braccia. Questo, calato a terra, zompettò via, lontano dalla camera.
“Mi aiuti a tornare a letto?”
Maddalena si illuminò. “Avaja.”  
Hai i super poteri, ecco cosa. Non riesco proprio a rimanere arrabbiata con te. 
 
***
 
“Ah, ma ci sei allora!”
Rosi fece una smorfia in direzione di Tea, aprendo il bancone per mettersi di fianco alla cameriera. “Va’ a servire ai tavoli, qua sto io,” ribatté. “Vai,” ripetè notando che l’altra aveva la faccia di chi stava per tempestarla di domande. 
“Mamma mia, t’ha morso una vipera anche oggi!" esclamò Tea e poi marciò via stizzita.
Rosi sospirò; a causa delle sue defezioni in quei giorni l’altra stava lavorando per due. Avrebbe dovuto farsi perdonare.
Appena questa storia si sarà risolta magari le propongo dei giorni di ferie extra. E’ da mesi che dice che vuole andare in Salento …
Forse avrebbe dovuto prenderli anche lei. 
Quel pensiero era così assurdo che per un attimo rimase ferma con un bicchiere da spritz vuoto in mano. Che cavolo le stava succedendo?
Tante cose, indubbiamente. La faccenda del serpe regolo, sua madre invischiata in un possibile complotto, sua sorella che del farla preoccupare ne aveva fatto un mestiere … e infine Tobia.
Già. Tobia.
Si voltò di scatto per afferrare una bottiglia di Aperol ed evitare così che qualche cliente notasse la sua faccia andare in fiamme.
Lei e Tobia avevano scelto il momento peggiore per chiarire i sentimenti che provavano l’uno per l’altra … o forse l’unico possibile. Senza quel sogno orribile, scatenato dalla presenza del regolo, non sarebbe mai riuscita a fare quello che aveva fatto.
Sì, però adesso?
Riempì la ciotola di patatine e servì lo spritz a Nello che, all’angolo del bancone, aveva gomiti saldamente piantati sul giornale ma l’attenzione tutta rivolta a lei. “Che c’è?” gli domandò brusca.
Il vecchietto prese il bicchiere e se lo mise davanti al naso, regalandole un sorrisetto divertito. “T’avevo chiesto un bianchino bimba.”
“Scusa … te lo rifaccio,” imprecò sottovoce e svuotò il drink nel lavandino, sbrigandosi a preparare l’ordine giusto. 
“Qualcuna qui ha la testa tra le nuvole!” commentò Gianni facendo un cenno in direzione della porta. “C’entra mica qualcuno?”
Decisamente non lui.
Ettore era entrato nel Bar facendosi aria con il cappello dell’uniforme: per fortuna non era scortato dai suoi irritanti sottoposti.  “Rosì! Proprio te cercavo!”
“Mi hai trovato. Una birra come al solito?” 
“No, non posso, una Coca andrà benissimo…” Ettore si accomodò su uno degli sgabelli con un sospiro, continuando a sventolarsi di gran lena. “Quando finisce l’estate?”  
“St’umido più che altro … bubbola ma poi manco una goccia! Che sta aspettando la Montagnola non si sa,” si intromise Nello dando un vigoroso sorso al suo bianchino. “Ah, a proposito Maresciallo … forse non lo devo dì a lei, ma hanno trovato una carcassa di cinghiale vicino alle mura.”
Gianni aggrottò le sopracciglia. “L’ho trovata io facendo i mi’ soliti giri pel bosco. Quella roba va spostata o tra la puzza e gli animali…”
Ettore inarcò le sopracciglia. “E come è finita lì?”
“I cinghiali si spingono fino al paese quando hanno fame,” gli spiegò Gianni. “Anche se in effetti con la rete è un po’ che non si vedevano. So’ animali furbi, hanno capito che da lì non si passa.”
“Ultimamente però di tracce ce ne son parecchie attorno alle mura, no?” intervenne Nello. “Chissà che gl’è preso.”
“Cercheranno cibo,” suppose Gianni con aria poco convinta.
“Avete fatto bene a dirmelo, contatto i colleghi della Forestale.” 
Ettore chiacchierò amabilmente con i due anziani, finché i due decisero che all’interno del locale faceva troppo caldo per le loro coppole, e raggiunsero i compagni al solito tavolino.
A quel punto il napoletano si voltò verso di lei con espressione seria. “Non abbiamo lupi in queste zone, vero?”
“Non li abbiamo,” confermò preoccupata. “Dev’essere stato il serpe regolo.”
“Che si avvicini tanto alle mura non è un buon segno … dobbiamo fare qualcosa.”
Rosi si passò una mano tra i capelli. Ci aveva rimuginato ogni momento libero e una soluzione l’aveva trovata, anche se non ideale. “Potremo andare direttamente a denunciare la cosa alla Confraternita di Siena con le prove che abbiamo. Non darà un bel messaggio di come gestiamo le cose a Malacena, ma non credo che abbiamo alternative a questo punto. Attacca indiscriminatamente animali e cripiti…”
Ettore annuì. “Non possiamo gestirla da soli, mi è bastata trovarmi di fronte la manolonga per capirlo. In capo ad un mese avrà fatto una strage. Tobia ha ragione, chiunque lo controlli vuol fare danno e vuole farlo rapidamente.”
Alla menzione del Nero, Rosi non poté fare a meno di avvampare ed Ettore, che era curioso come una scimmia, lo notò subito.
“Stamattina eri da lui, vero?” domandò con un sorrisetto pescando una patatina dalla ciotola e lanciandosela in bocca. “Come sta andando?
“Non sono affari tuoi.”
“Invece sì,” ribatté disinvolto. “Da vero gentiluomo ho fatto un passo indietro per lasciarvi risolvere le vostre cose decennali … mi merito almeno un aggiornamento!” 
“... Ci siamo baciati.”
Ettore si sporse comicamente sul bancone, portando una mano all’orecchio. “Come? Non borbottare Rosina, che con l’accento che tieni non si capisce niente…”
Rosi meditò se tirargli un cazzotto in un occhio, ma lo stronzo era ancora in servizio e avrebbe rischiato un arresto. “Ci siamo baciati,” ripeté ad alta voce mentre pelle e capelli assumevano la stessa sfumatura di rosso.
“Finalmente!” esclamò Ettore alzando il bicchiere in segno di vittoria.  
“C’è ancora tanto da chiarire…”
“Però almeno quello l’avete chiarito, no?”
Rosi suo malgrado sorrise. “Quello sì … abbastanza.”
“Sono fieri di voi, miei piccoli disadattati.”
“Siamo più grandi di te, entrambi!”
“Di testa no. Comunque … sono contento, davvero.” 
Rosi si strinse nelle spalle, lanciandogli un’occhiata di sottecchi. Il napoletano aveva un sorriso sincero stampato in faccia e questo le scaldò il cuore: se le cose con Tobia fossero andate avanti non molte persone in paese avrebbero accolto la loro ritrovata unione con quella gioia sincera.
Avere un amico dalla loro parte avrebbe sicuramente aiutato. “Grazie. Quei discorsi che mi hai fatto … sono serviti.”
“Te l’ho detto che sono un pessimo fidanzato ma un ottimo amico,” ribatté con un ghigno. “Però mo’ mi aspetto di essere invitato al matrimonio!”
Rosi alzò gli occhi al cielo. “Prima sistemiamo questo casino … per il resto c’è tempo.”
“Sì, ma se devo calcolare i vostri tempi, non vorrei ricevere l’invito quando sarò in ospizio.” 
Rosi fece per tirargli una sberla sul braccio, quando notò con la coda dell’occhio la porta dietro il bancone aprirsi. Sua madre era scesa. 
Era incredibile pensare che quel donnino rotondo, con l’espressione fanciullesca e i vestiti colorati potesse essere colpevole di qualcosa, men che meno dell’incolumità dei suoi compaesani.
Però davvero, quanto lascia trasparire tua madre di quello che davvero pensa, da quando la conosci?
“Ah, Maresciallo, speravo di trovarla qui!”
“Signora Silvani,” ribatté Ettore mettendosi leggermente sull’attenti,  “la trovo bene.”
“Si tira avanti… in realtà cercavo entrambi,” li contemplò indecifrabile per qualche momento, poi fece un sospiro. “Siete stati convocati.”
“Da chi?” sbottò Rosi anche se aveva già capito. Il sudore le ghiacciò la schiena.
“Dalla Confraternita tesoro. Tu, il Maresciallo Mangiola e Tobia. Siamo attesi tra mezz’ora nell’ufficio del Sindaco.” 
 
*** 
 
Ormai casa Silvani era diventata il quartier generale dei siciliani; Alina passando dal salotto incrociò Michele e Stefano, chini sul tavolo a spizzicare patatine da una busta mentre lavoravano in sincrono su un tablet e un mucchio di fogli sciolti.
Stefano le rivolse un sorriso amichevole ma prima che potesse aprire bocca Michele lo anticipò:  “Unni vai Lin? Non ci vediamo da un paccu! Come stai, tutto bene a casa? Tra poco viene Pietro, rimani per cena?”
“Sì, grazie tutto bene, no, posso stare poco,” rispose spazientita. Non aveva voglia di rimanere a chiacchierare quando desiderava soltanto andare dalla sua migliore amica e assicurarsi che stesse bene. 
Stefano sembrò notare il suo stato d’animo perché diede una pacca sulla spalla dell’amico. “Credo che non sia qui per noi, Miché, lascia fare. Caterina è in camera sua.”
Alina gli rivolse un sorriso grato e se ne andò mentre alle sue spalle i due cominciarono a battibeccare, probabilmente su di lei. Non le interessava.
Caterina si è fatta male. Se fossimo state assieme non sarebbe successo. Se ci fossi stata io non l’avrei mai fatta guidare con la pioggia.
Alina salì le scale con il cuore pesante: aveva sempre pensato di poter gestire i due mondi, ma non era vero, e presto l’Altrove l’avrebbe richiamata definitivamente a sé. 
Non l’aveva ancora detto a Caterina e aveva fatto promettere a Pietro di fare lo stesso.
 
“Sì, però glielo devi dì che torni a Roma… non è che lo deve scoprì da qualcun altro. Lo sai come le piglia male se vien fori che le nascondi le cose. Diglielo alla svelta!”
 
Il corridoio che ospitava le camere delle due sorelle era già immerso nell’ombra della sera. La porta di Rosi era chiusa, mentre da quella di Cate filtrava uno spiraglio di luce arancione, segno che il tramonto stava cominciando a tingere le case del paese. 
Alina si avvicinò e udì una risata e due voci. Caterina non era sola, era con Maddalena.
Che ci fa qui?  
Serrò le labbra mentre un fiotto di rabbia le annebbiava la vista. 
Si frenò dallo spalancare la porta e precipitarsi dentro, ma la aprì comunque con una certa veemenza da come Caterina alzò la testa di scatto e la succuba sobbalzò; erano sedute vicine sul letto, il computer sulle gambe. 
“Lin! Mia salvatrice! Eccoti!” 
Cate le rivolse un sorriso contento. Maddalena invece diventò terrea.
Comprensibile. L’ultima volta che vi siete incontrate le hai dato un pugno in faccia. 
“Sei stata velocissima!” continuò Caterina. “Hai volato?”
“No, sono venuta in motorino… Come stai?”
“La gamba mi fa un male cane e anche le dita non sono messe benissimo,” l’amica le mostrò la fasciatura. “Mamma dice che sono solo contusioni però e che mi passeranno alla svelta.”
“Meno male…” Cercava di tenere l’attenzione su Cate, perché era l’unica che di fatto le stesse parlando, ma non voleva perdere di vista la succube. 
La quale si alzò in piedi come un animale circospetto. “Ora che c’è Alina io andrei,” mormorò. “Se avete bisogno siamo al piano di sotto.”
“Non credo ne avremo,” le rispose. Maddalena fu svelta ad andarsene anche se Cate tentò una debole protesta. Si chiuse la porta alle spalle e rimasero finalmente sole.
Alina si permise di rilassarsi, sedendosi sul ciglio del letto. “Come hai fatto a cadere?”
“La pioggia…” Che continuava a fissare la porta con le sopracciglia aggrottate. “Senti, però una cosa me la devi spiegà. Che problema hai con Malù?” 
“Non ho nessun…”
“Non mi raccontare cazzate,” la fermò spazientita. “Ogni volta che state nella stessa stanza ha la faccia di una che si aspetta di prendere botte e tu quella di chi gliene vorrebbe dare una sporta. Perché?”
Alina deglutì a disagio. Cate ovviamente non aveva idea di cos’era accaduto, ma con la sua maledetta empatia era riuscita ad arrivare molto vicina alla verità.
“Perché non mi piace,” mormorò. “Non è una brava persona.”
Non è neanche una persona se vogliamo essere onesti.
“Perché mi ha trattato male?” domandò Cate perplessa. “Si è scusata e da allora … Okay, ogni tanto le pigliano i cinque minuti, ma di solito è gentile , e ti assicuro che con me è super carina. È rimasta a badarmi e si è pure sorbita due puntate di Bojack Horseman che aveva già visto!” 
Alina fece una smorfia, spianando una piega inesistente del leggero vestito estivo. Non voleva parlare della succuba, voleva prendersi cura della sua migliore amica, ascoltarla ciarlare di tutto e niente e poi, forse, trovare il coraggio di dirle la verità sulla sua prossima partenza.
“Come vuoi. Se ci tieni tanto me la farò andare a genio,” disse per chiudere la conversazione.
“Non è che te la devi fa garbà per forza … anche perché rimarremo in contatto anche dopo che sarà finita la vacanza, sicché …”
“Come anche dopo?” sbottò incredula. “Che vuol dire?”
Cate sbuffò. “Vuol dire che magari vado a trovarla in Sicilia o lei torna a trovare me. Rimanere in contatto vuol dire questo. Scusa, ma ti crea problemi questa cosa?”
“Sì!” non riuscì a frenarsi e saltò anche in piedi. Caterina la contemplò come se si fosse bevuta il cervello e ovvio, non aveva idea del perché. Non poteva dirle il perché.
Però poteva farcela arrivare.
“Te l’ho detto che non è una brava persona!”
“Ma non è vero! Ti sta antipatica, va bene, ma sta antipatica a te …  a me piace!” 
“Se sapessi la verità non ti piacerebbe più.”
Cate stavolta rimase in silenzio. Si sistemò meglio sui cuscini.  “Di che verità parli?” domandò a bassa voce. 
Alina esitò; doveva dirle quanto bastava per rivelare la vera natura di quel mostro a due facce, ma senza menzionare l’Altrove. Come poteva rompere la fiducia granitica che l’altra nutriva per Maddalena?
 
Lo sai come le piglia male se vien fori che le nascondi le cose. 
 
“Maddalena esce dal paese quando dormi.”
“Esce dal paese per fare che? Come fa poi … non ha la macchina.”
“La accompagna Stefano e stanno fuori tutta la notte.” 
Alina aveva vinto, aveva finalmente trovato il modo di allontanare la principessa dal mostro, ma non si sentì vittoriosa.
Cate aveva l’espressione persa e frastornata, come se qualcuno le avesse tirato via il terreno sotto i piedi. “Tutta la notte? Per fare che?”
Improvvisamente Alina non ebbe più voglia di continuare a parlare. Era orribile notare come ogni parola fosse letteralmente uno schiaffo sul viso dell’amica … ma ormai non poteva più fermarsi. “Non ne ho idea, dovresti chiedere a loro … però, Cate, Maddalena non è la persona che pensi che sia. Ti nasconde delle cose importanti su di sé. Non voglio che ti faccia soffrire.”
Cate fece un sorrisetto che le strinse il cuore. Era espressiva e le si leggeva tutto in faccia. Ed Alina potè quasi anticipare la frase successiva: “Troppo tardi.” 
“Mi dispiace…” Quella non era una vittoria, era una sconfitta, realizzò. Alina tentò di sedersi di nuovo sul letto e allungò le mani per prendere quelle dell’altra. 
Cate si ritrasse. “Mi puoi lasciare sola per favore?”
“Non puoi restare da sola.”
“Sto bene, e ci sono gli altri di sotto. Scusami per averti fatto venire fin qui, ma non ho voglia di compagnia adesso.”
“Ma…”
Il viso di Caterina si contorse di colpo in una smorfia di rabbia. “Vattene!” le urlò addosso e Alina realizzò con sgomento che si sarebbe alzata in piedi e l’avrebbe spinta via se non fosse stato per la gamba. Si puntellò infatti sul materasso, ma fu costretta a crollare con un’imprecazione. Si nascose il viso tra le mani e rimase in silenzio.  
Non si era mai comportata così.  
Alina si alzò in piedi non sapendo cosa fare di sé stessa. “Mi dispiace… non volevo…”
“E allora perché mi hai detto quelle cose?” domandò Caterina con il tono di chi stava per piangere. “Lasciami in pace.” 
Ad Alina non restò che obbedire. Mormorò un mezzo saluto ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Vi rimase di fronte per quelli che le parvero minuti interi, ma da dietro la porta non udì un rumore. Neppure un singhiozzo.
Si voltò e scese le scale: suo padre sarebbe stato contento di vederla tornare prima.
 
***

 
  
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