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Autore: Parmandil    21/03/2022    0 recensioni
[https://it.wikipedia.org/wiki/Dune_(film_1984)]
"Il principio è un periodo oltremodo incasinato. Sappiate che questo è l’anno Diecimila e Rotti. L’Universo Conosciuto è unificato sotto l’Impero Analogico, governato dall’Imperatore Pascià Sofà IV. In questo periodo, la più preziosa e vitale sostanza dell’Universo è il melange, la Spezia. La Spezia esalta tutte le facoltà della mente e del corpo. La Spezia fa arrapare anche i nonnetti. La Spezia è essenziale per annullare lo spazio, tenendo unito l’Impero Analogico. La potente Gilda Spaziale, e i suoi Navigatori che la Spezia ha sballato in oltre quattromila anni, usano il gas arancione del melange che conferisce loro la capacità di annullare lo spazio, e cioè di viaggiare in qualsiasi parte dell’Universo... senza mai muoversi.
Oh, già... ho dimenticato di dirvelo. La Spezia esiste su un solo pianeta nell’intero Universo Conosciuto. Un arido e desolato pianeta, con vasti deserti roventi. Nascosta tra le rocce in queste zone desertiche, vive una popolazione conosciuta come i Femen, che attende – secondo un’antica profezia – l’avvento di un giovane emo, che li guiderà finalmente verso la vera libertà. Il pianeta è Arrankis, così detto perché tutti arrancano come dannati nelle sue sabbie, conosciuto anche come... Dune. TUM-TUM-TU-TUUUM!”.
Genere: Avventura, Comico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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-Capitolo 5:
 
   “L’Emo disse che la sua vera educazione ebbe inizio ai suoi primi contatti con l’ambiente di Arrankis. Imparò a piantar pali nella sabbia per valutare le condizioni del tempo, e il linguaggio del vento che gli pungeva la pelle con mille aghi aguzzi. Conobbe allora il prurito della sabbia nel naso e il modo migliore di raccogliere e conservare l’umidità del suo corpo. Mentre i suoi occhi si tingevano di blu, ricevette l’insegnamento cip-ciop”.
dalla prefazione di Sticazz a L’uomo dietro all’Emo,
della Principessa Iruxol Corrida
 
   Paul ricordò sempre confusamente quella prima, folle cavalcata su un Vermone. Si avvicinarono alla creatura standone prudentemente di lato, dopo di che le corsero a fianco come dei forsennati. I più veloci si aggrapparono alla corda lasciata pendere da colui che cavalcava il Vermone, e in tal modo s’issarono sulla sua groppa. Paul si chiedeva come avrebbe fatto a far salire sua madre, che non correva così svelta; per fortuna il guidatore fu tanto abile da far rallentare il Vermone fin quasi a fermarlo. Allora Paul e Godiva si aggrapparono insieme, stringendosi ad alcune cinghie di cui era munita la fune, e quelli che erano già saliti li issarono. Quando furono tutti in cima, il guidatore fece un «Oh-oh!» e la cavalcata riprese.
   Faceva un effetto stranissimo solcare il deserto su quella titanica creatura, come un tempo Paul aveva solcato i mari di Calamar sulle imbarcazioni. Al posto delle onde, le dune; al posto di vele o motori, la forza bruta del Vermone. Il vento sulla faccia era più secco, il sole più bruciante, ma l’emozione non era poi molto diversa.
   Il problema maggiore derivava dal fatto che anche un guidatore esperto stentava a dirigere il Vermone nella direzione voluta. Naturalmente i Femen avevano studiato dei modi. Dopo essersi issati con le piccozze, attaccavano delle corde a due piccoli sfiatatoi che il Vermone aveva sulla groppa, facendone una sorta di briglie; tirando quelle cercavano d’impartirgli la direzione. Anche così, però, la creatura faceva spesso di testa sua. Di conseguenza il viaggio verso il sietch fu convoluto e condito dalle imprecazioni dei nativi.
   La cavalcata terminò bruscamente quando il Vermone decise che era ora di tornare sottoterra. In un attimo tornò a immergersi nella sabbia, sgroppando pericolosamente. Alcuni Femen caddero; altri riuscirono a saltar giù atterrando in piedi. Paul, sempre in pensiero per sua madre – a maggior ragione poiché era incinta – l’afferrò mentre venivano sbalzati a terra. Nella sua memoria rimasero alcuni fotogrammi mancanti; nel ricordo successivo era a terra, con sua madre che lo schiaffeggiava per farlo svegliare. Aveva un male boia alle costole. «Che diavolo è successo?» biascicò.
   «Ti sono atterrata sopra» spiegò Godiva. «Per fortuna le tute distillanti forniscono una buona imbottitura».
   «Figurati senza!» borbottò il giovane.
   «Sei stato coraggioso» riconobbe Cianidrina, quasi di malavoglia. «Hai male alle costole?».
   «Solo quando respiro».
   «Ah, per fortuna. Su, vieni. Ci resta ancora un tratto di strada da fare» disse la Femen, porgendogli la mano.
   Paul accettò l’aiuto per rialzarsi. «Forte, la cavalcata» commentò. «Però ho avuto l’impressione che il Vermone non si facesse guidare facilmente. E il finale non è stato granché».
   «Uhm, sì, abbiamo sempre avuto difficoltà in questo» ammise Cianidrina. «Shai-Hulud va dove vuole; noi siamo solo autostoppisti. Solamente...» s’interruppe.
   «Sì? Che stavi dicendo?» incalzò Paul.
   «Solamente l’Emo, secondo le leggende, riuscirà a domare davvero i Vermoni» rivelò Cianidrina. «Tu non farti illusioni. Se ti va bene, imparerai a cavalcarli come noi».
   «Sarebbe già qualcosa» borbottò Paul, massaggiandosi le costole doloranti.
 
   Il viaggio durò ancora un paio di giorni, nei quali la comitiva si mosse principalmente di notte, riposando all’ombra delle rocce durante l’infuocato dì. Infine giunsero a un’altura che si levava isolata nel mare di dune.
   «Questo è il sietch Tabr» disse Sticazz, tutto contento. «È qui che ospitammo il tuo amico Duncan, un uomo valoroso. A proposito, che ne è stato?».
   «Lui... è caduto in battaglia» rivelò Paul, ancora sofferente per la perdita.
   «Ah, bene! È una buona morte» commentò il naib (così era detto un capotribù). «Hai recuperato la sua acqua, vero?».
   «Temo di non averne avuta la possibilità» sospirò Paul.
   «Oh, questo non va bene» commentò Sticazz. «Beh, pazienza. Preparatevi a vedere la nostra città!» disse teatralmente, rivolto agli stranieri.
   Il gruppo si era arrestato davanti a una parete rocciosa, alla base del monte. Il naib premette la mano su una protuberanza, pronunciando le misteriose parole: «Apriti, sesamo!». La parete sprofondò silenziosamente, rivelando una spaccatura irregolare. Sticazz guidò il gruppo all’interno, sempre in fila indiana. Cianidrina, che chiudeva la fila, azionò un comando che fece richiudere il passaggio.
   Malamente illuminati da una lampada levitante, i viaggiatori scesero una scala intagliata nella roccia, che parve interminabile. A intervalli regolari superarono delle porte; in tal modo la scalinata si suddivideva in vere e proprie camere stagne. C’era anche una sorta di condizionamento atmosferico, che faceva circolare l’aria. Man mano che scendevano nel sottosuolo, l’aria si rinfrescava; ma c’era dell’altro.
   «È una mia impressione, o c’è più umidità?» chiese Paul a un certo punto.
   «Eh, eh, vedrai...» ridacchiò Cianidrina, enigmatica. «Stiamo per entrare nella Grande Spelonca!».
   I gradini finirono e il gruppo superò un’ultima porta. La luce del globo luminoso si disperse in un’immensa cavità sotterranea, dal soffitto a cupola. Paul sentì Cianidrina stringergli il braccio e udì, nell’aria fredda, un gocciolio. «Acqua?!» sussurrò, esterrefatto.
   Senza una parola, la squinzia indicò più avanti. Seguendo il suo gesto, Paul vide ciò che i Femen nascondevano gelosamente. Oltre un basso parapetto roccioso giaceva una distesa d’acqua che si perdeva nell’ombra. Prima che il giovane si riavesse, i nativi si tolsero i sondini dal naso, respirando a pieni polmoni. Poi svuotarono le scorte d’acqua rimanenti nel lago sotterraneo, in religioso silenzio e con precisione certosina. Non una goccia andò sprecata.
   Allora, finalmente, Paul esplose: «Boia d’un mondo, ma allora avete l’acqua! Quanta ce n’é?!».
   «Trentotto milioni di decalitri» rispose Sticazz, contemplando la pozza.
   «Il vostro tesoro» commentò Godiva. «Questo sì che significa possedere una liquidità non dichiarata!».
   «È solo un deposito fra tanti» disse Sticazz a sorpresa. «Ne abbiamo migliaia, disseminati nel pianeta; pochi di noi li conoscono tutti».
   «Guarda un po’, che razza d’accumulatori seriali!» commentò Paul, fissando stranito i Femen. «E fuori da qui, continuate a fare gli assetati! Si può sapere perché vi date tanta pena di accumulare l’acqua, se poi non la usate?!».
   «Mio padre non te l’ha detto?» chiese Cianidrina.
   «Tuo... padre? Non lo conosco» fece Paul, sempre più confuso.
   «Oh, io credo di sì. Il nome Kinkes non ti dice niente?».
   «Kinkes... lui è tuo padre? Ma certo, aveva detto d’essersi legato ai Femen» mormorò Paul. «Mi ha mostrato una stazione ecologica in rovina e ha accennato ai vecchi piani imperiali di terraformare Arrankis. Ma nulla più».
   «Uhm, forse non ti riteneva pronto» borbottò Sticazz. «Ma ora sei dei nostri, quindi è inutile farla lunga. Devi sapere che da millenni il mio popolo raccoglie ogni goccia d’acqua disponibile, concentrandola in questi depositi. Quando sarà abbastanza, cambieremo il volto del pianeta».
   «Intrappoleremo le dune sotto ciuffi d’erba, trasformeremo il suolo in una spugna con alberi e radici. Faremo di Arrankis un paradiso, coi laghi nelle zone temperate, le calotte di ghiaccio ai poli... proprio come gli altri mondi abitati!» proseguì Cianidrina, in tono ispirato. «E nessuno avrà più bisogno d’acqua. Sarà a disposizione di chiunque, basterà solo che porga la mano».
   «Uh, che sogno comunistoide! Aspettate che arrivi l’Impero Analogico con le sue bollette» avvertì Paul, frenando gli entusiasmi.
   «Che arrivi pure, siamo pronti a riceverlo!» gridò Sticazz, suscitando gli schiamazzi dei suoi. «Manca poco, ormai... il nostro antico sogno si concretizzerà in questa generazione!».
   La gazzarra durò a lungo. Nel frattempo gli abitanti del sietch si fecero avanti da molti pertugi, attirati dal frastuono. Sticazz spiegò loro che i due stranieri erano stati ammessi nella tribù. Aggiunse che Jingle era morto, senza entrare nei dettagli. I Femen non cercarono una correlazione tra le due cose, forse perché non la giudicavano importante, e accolsero benevolmente i nuovi arrivati. Alcuni, tra loro, sussurrarono le antiche profezie riguardanti l’Emo. Presto non ci sarebbe stato nessuno, nella città-formicaio, che ignorasse l’arrivo dei Formaldeides.
   Passati i primi momenti, Paul e Godiva sedettero un po’ in disparte sull’orlo del bacino, osservando i Femen che discutevano ancora delle novità.
   «Hai compreso, Paul? Questa gente ha concluso un’alleanza con l’avvenire» bisbigliò Godiva all’orecchio del figlio.
   «Hm-hm» fece il giovane, osservando Cianidrina che appariva e spariva tra la folla.
   «Sono un popolo con uno scopo, e non permetteranno a nessuno di fermarli» incalzò la Lady. «Sarebbe assai facile farne i tuoi guerrieri, se li convinci che è nel loro interesse liquidare gli Scarafonnen. Puoi usare il loro fervore come una spada, per riconquistare il tuo legittimo posto...».
   «Hm-hm» annuì Paul, sempre fissando la squinzia. Non aveva udito una sola parola dei grandiosi piani materni.
   «Ehi, mi ascolti?!» protestò Godiva, passandogli una mano davanti agli occhi. Siccome il figlio restava catatonico, seguì il suo sguardo fino a scorgere Cianidrina. «Ah, guardi la beduina!» s’indignò. «Figliolo, lascia che ti dica una cosa: quella buzzurra non è adatta a te. Sei pur sempre un Duca, sebbene in esilio. E sei così giovane... hai tutta la vita davanti. Voglio dire, hai tante occasioni di combinare un matrimonio vantaggioso!» gongolò, ricominciando a fare progetti.
   «Sì, mamma. Certo, mamma. Ovviamente, mamma» disse Paul in tono meccanico. Dopo di che lasciò il seggio di pietra e si mise sulle tracce della ragazza, che era sparita in una galleria.
 
   «Che c’è, mi stai seguendo?» chiese Cianidrina, voltandosi a mezzo. Lei e Paul avevano salito una rampa di scale e ora percorrevano una balconata da cui lo sguardo spaziava sul lago sotterraneo. Ora che il sole non batteva più sulle loro teste, la figlia dello scienziato si era levata il velo, scoprendo i lunghi capelli scuri e mossi.
   «Ehm, volevo solo dirti che ci sono ancora molte cose che non so del tuo popolo» balbettò il giovane. «Spero che potrai spiegarmele. Non dico subito, ma nei prossimi giorni, un po’ alla volta» chiarì.
   «Si può fare» concesse la squinzia. «Altrimenti ti metteresti nei guai». Per un attimo osservò l’immota superficie delle acque. «Ora conosci il nostro più grande segreto, Paul. Il sogno dei Femen... e di mio padre, anche. A volte mi chiedo se abbiamo fatto bene i calcoli. Quando guardo i depositi come questo, mi riempio di speranza. Poi esco, arranco tra le dune... e il nostro sogno mi pare impossibile. Forse non sarò così fortunata da assistere alla trasformazione di Arrankis. Forse la vedranno i miei nipoti, o pronipoti. O forse... non avverrà mai» s’intristì. «Se gli Scarafonnen serrano il pugno su di noi, potrebbero scovare i depositi e distruggerli. Sarebbe la fine di tutto».
   «Ehi, il tuo intero popolo è votato a impedire che accada» la confortò Paul. «E siccome mi avete accolto tra voi... significa che lo sono anch’io».
   «Ma come, se non sai neanche cavalcare un Vermone?» rise Cianidrina. Stavolta era una risata affettuosa, che scaldò il cuore a Paul.
   «Per questo ti ho chiesto d’istruirmi!» rispose prontamente il giovane.
   «Lo farò» promise la squinzia. «Ma anch’io vorrei sapere certe cose da te. Ho sentito che il tuo mondo d’origine, Calamar, ha vasti oceani. Me ne parleresti?».
   A queste parole – la prima manifestazione d’interesse nei suoi confronti – Paul sentì d’averla agganciata come un pesce all’amo. «Certo, ti racconterò tutto quello che vuoi sul mio vecchio mondo» rispose, sfiorandole “casualmente” i capelli. «Al diavolo i consigli di mia madre! Sono in un buco sottoterra, non in un salotto dell’alta società, e questa è l’unica ragazza che potrà mai interessarsi ai racconti delle mie gite in barca!».
 
   Era passato sì e no un giorno dall’arrivo dei Formaldeides nel sietch, e Godiva stava ancora esplorando la città sotterranea, quando alcuni abitanti le vennero incontro. Avevano l’aria crucciata, come se qualcosa li preoccupasse. E non era il generico timore per le loro sorti, intuì la Lady, ma qualcosa di più vicino e pressante.
   «Dobbiamo parlare» disse Sticazz, sempre diretto. «Tu sei una Mala Gesserit, non è così?».
   «Lo ero» annuì Godiva. «Ma non credo che la Sorellanza conservi molta simpatia per me, o non avrebbe consentito agli Scarafonnen di farci questo».
   «Non ha importanza» tagliò corto il naib. «Tu conosci le pratiche della Sorellanza, giusto?».
   «Beh, sì...».
   «Anche la Sbronza della Spezia?».
   A questa domanda, Godiva s’incupì. «Certo che la conosco: è la nostra prova suprema. Quando un’accolita deve ascendere al ruolo di Reverenda Madre, beve un intruglio di Spezia e coca-cola. Se riesce ad assimilarne il potere, raggiunge il suo pieno potenziale, sbloccando la memoria genetica delle proprie antenate. Altrimenti impazzisce, diventando una bimbaminkia» rabbrividì. «È questo che volete farmi?».
   «La nostra Reverenda Madre sta morendo, e per colmo di sfiga non abbiamo chi possa subentrarle» spiegò Sticazz. «Se ciò accadrà, il popolo perderà fiducia. Ma se tu la rimpiazzerai, allora avremo una speranza. Naturalmente sarai la nostra grande sacerdotessa, ascoltata e riverita da tutti» garantì.
   «Senti, senti!» s’interessò Godiva. «Non sapevo nemmeno che aveste una Mala Gesserit con voi. È in contatto con la Sorellanza?».
   «Macché. Abbiamo Male Gesserit da quando l’Impero venne su Dune, ma esse appartengono pur sempre al nostro popolo, e si occupano delle nostre faccende» rivendicò il naib con orgoglio.
   «Dev’essere stata la Missionaria Protectiva, la nostra divisione che si occupa di proselitismo, a inviare le prime sorelle» mormorò Godiva. «Certamente furono loro a diffondere la profezia dell’Emo» rifletté.
   «Sì, infatti abbiamo ancora i loro volantini» confermò Sticazz. «Allora, ci stai?».
   «Ci starei, ma... mi chiedo che conseguenze avrà la trasformazione su mia figlia» mormorò la Lady, sfiorandosi l’addome. «Di solito non si diventa Reverende durante la gravidanza. Ci sono... strane voci sugli effetti».
   «Sfortunatamente alla nostra sacerdotessa non resta molto da vivere. Non credo che farai in tempo a sfornare tua figlia» disse Sticazz. «Comunque la nostra Reverenda ti assicura che la piccola non corre alcun rischio».
   «Quand’è così... accetto» esalò Godiva. «In fondo sono anch’io una specie di missionaria, non diversa dalle prime Male Gesserit che vennero tra voi» ragionò. Le sue parole suscitarono un coro d’approvazione da parte dei nativi.
   «Fermi tutti!» gridò Cianidrina, irrompendo nel gruppo. «Le condizioni della Reverenda Madre Papalla sono improvvisamente migliorate. Forse non dovrete prendere il suo posto, milady».
   «Ah, davvero? Come sono sollevata!» fece Godiva. In realtà era l’esatto opposto, dato che vedeva sfumare l’occasione di acquisire un rango elevatissimo tra i Femen. «Ma forse la Reverenda Papalla beneficerà delle mie conoscenze mediche. Portatemi da lei, così che possa visitarla e farmi un’idea più precisa delle sue condizioni».
   «Approvo la posizione della missionaria» disse solennemente Sticazz. «Portatela da Papalla, e stabilite come sta realmente».
 
   La Reverenda Papalla era coricata a letto, in una delle piccole case che i Femen avevano scavato come talpe nel sottosuolo. Era vecchia e raggrinzita, infagottata in un abito nero. Il cappuccio rovesciato all’indietro rivelava un viso rugoso e una massa di capelli grigi raccolti in una crocchia. «Sembra un fascio di bastoni, chiusi in un sacco dell’immondizia» pensò cinicamente Godiva. Si avvicinò per osservarla meglio. La sua testa era fasciata; dalla bocca sdentata usciva un incessante borbottio.
   «L’altro giorno è scivolata su un lembo della veste, cadendo giù dalle scale e atterrando di testa» sussurrò Cianidrina. «Da allora delira. Stamane sembrava prossima alla fine, ma ora pare migliorata».
   «Va bene, lasciatemi sola con lei» disse Godiva con decisione.
   «Ne siete certa, milady?» si stupì Cianidrina. «Abbiamo dei guaritori che l’assistono. Io stessa ho un’infarinatura...».
   «Dobbiamo restare sole!» ribadì la Lady, tassativa. «Ci sono segreti che una Mala Gesserit può rivelare solo a una consorella».
   «Come volete» cedette la giovane. «Tutti fuori, gentaglia!» strillò, alla maniera dei Femen. I guaritori abbandonarono la casa, lasciando Papalla sola in compagnia di Godiva.
   «Guarda, guarda, chi mi onora della sua visita!» gracchiò la Reverenda Madre, vagamente beffarda. «La Lady di un altro mondo, l’autoproclamata madre dell’Emo. E ora vorresti pure il mio titolo! Forse lo avrai, ma bada: la Sbronza della Spezia non è per le novelline!» ammonì.
   «Infatti non sono una novellina» chiarì Godiva, chinandosi sull’inferma. «Allora, befana, dimmi la verità: se affronto la Sbronza, mia figlia correrà rischi?».
   «Sei certa che sia femmina?».
   «Sì».
   «Bene. Se fosse un maschio sarebbero guai, ma una femmina ce la farà. Al massimo sarà una secchiona, se acquisirà la memoria genetica» spiegò Papalla.
   «Vuoi dire che mia figlia acquisirà la memoria delle nostre antenate, ancor prima di nascere?» s’inquietò Godiva.
   «Eh sì, cocca. E probabilmente anche quella dei tuoi avi di sesso maschile» confermò la Reverenda Madre. «Che problema c’è? Sei nobile, di certo hai un pedigree irreprensibile!» la sfotté.
   «Io... non sono affatto nobile di nascita» confessò Godiva. «Sono una trovatella del tempio di Can-can, non conosco affatto i miei avi. Beh, ora finalmente farò luce sul mistero» si riscosse.
   «Solo se io schiatto, bellezza! Ma si da il caso che mi senta di nuovo in forze» disse la vecchia, cercando di alzarsi.
   «Davvero? Io invece credo che le tue condizioni siano disperate!» ringhiò Godiva, con un’espressione che non prometteva nulla di buono.
 
   I Femen attesero a lungo nello spiazzo antistante l’ingresso della casa. Non avendo null’altro da fare, spostavano il peso da un piede all’altro, cercando discretamente d’origliare i suoni provenienti dall’interno. Udirono così delle colorite imprecazioni, accompagnate da suoni di colluttazione. Seguirono dei rantoli, sempre più deboli; infine il silenzio. Di lì a poco Lady Godiva uscì dall’abitazione, lievemente ansante. «Ho una triste notizia: la vostra sacerdotessa si è spenta» disse tutta compunta.
   «Davvero? Che strano, pareva sulla via della guarigione» si dispiacque Cianidrina.
   «Poteva sembrare così a chi non sia esperto dell’arte medica!» ammonì Godiva, fulminandola con lo sguardo. «In realtà, ho capito subito che non aveva speranze».
   «Eppure aveva solo un bernoccolo...».
   «Eh, ma è stato proprio quel bernoccolo a costarle la vita» disse tristemente la Lady. «Aveva un edema cerebrale... è stato straziante, non ho potuto salvarla. Beh, pazienza!» disse, battendo le mani con rinnovata allegria. «Qui c’è un posto libero per una Reverenda Madre... e io mi offro volontaria! Allora, quando si comincia?».
 
   Di lì a poco, Paul si accorse che c’era uno strano fermento in città. Un passaparola correva tra i Femen, che interrompevano le loro attività e andavano tutti nella stessa direzione. Incuriosito, il giovane li seguì, fino a raggiungere la Grande Spelonca. La trovò illuminata a giorno da lampade e fiaccole, con un’immensa folla assiepata. Doveva esserci gran parte della popolazione del sietch. Non riuscendo a farsi largo nella calca, Paul salì sul ballatoio, per osservare dall’alto.
   Al centro della folla c’era uno spazio vuoto, salvo per tre figure. Il corpo della Reverenda Papalla giaceva su un lettino; accanto a lei vi era Godiva, sdraiata a sua volta. Cianidrina le era accanto, e armeggiava con dei contenitori posti su un basso tavolino. «C’è l’acqua?!» chiese la squinzia, con un’insolita voce rimbombante.
   «C’è» disse un incaricato, porgendole una grande coppa.
   Cianidrina la posò davanti a sé. «Benedetta sia l’acqua» disse. «E la Spezia?».
   «Eccola qui» fece l’addetto, porgendole un sacchetto.
   Cianidrina svuotò il sacchetto nel calice, fino all’ultimo granello, e mescolò bene, facendo sciogliere tutto il melange. «E la coca-cola?» chiese.
   «C’è anche quella» assicurò l’uomo, porgendole una bottiglietta.
   «Siano benedetti la Spezia e la coca-cola» disse Cianidrina, versando anche l’ultimo ingrediente. Mescolò bene, perché si amalgamasse; infine avvitò un coperchio con cannuccia sopra il calice. Porse il tutto a Godiva. «Bevi! Se sei degna, questo ti schiuderà le porte dell’universo» annunciò. «Altrimenti ti ridurrà i denti a uno schifo».
   «Insomma, che succede? Che è questa macumba?!» chiese Paul, inquieto.
   «La Sbronza della Spezia» rispose Sticazz, venendogli accanto. «Tua madre ha accettato di sottoporsi alla prova».
   «Non lo credo!» si ribellò il giovane.
   «Sarà la nostra Reverenda Madre, riverita da tutti» obiettò il naib.
   «Ecco, adesso ci credo» si corresse Paul. Tornò a guardare: sua madre stava già bevendo la pozione, ormai era tardi per fermarla. La sorbì tutta in una volta; poi gettò via la coppa, con fare teatrale, e si riadagiò sul lettino. Per lunghi momenti regnò il silenzio: tutti gli occhi erano fissi su di lei.
   «Vorrei sapere se corre qualche rischio» sussurrò Paul, sempre più preoccupato.
   In quella Lady Godiva inarcò la schiena e strillò come se la stessero scannando. Poi rotolò giù dal lettino e si dibatté come un’ossessa, gridando parole incoerenti.
   «Ma no, è tutto a posto!» garantì Sticazz. «Tua madre fa solo un po’ di scena. Vedrai che fra un attimo sarà in piedi, più vispa di prima».
   Godiva gridò ancora più forte e prese a strapparsi i capelli.
   «Ma siete proprio sicuri?» chiese Paul, ancora dubbioso.
   «Al cento per cento!» garantì il naib, con un sorriso così largo da mostrare due denti d’oro. «Non badare agli strilli; fanno parte della sceneggiata».
   D’un tratto Godiva prese a sanguinare copiosamente dal naso. I suoi occhi erano così arrovesciati all’indietro da mostrare solo il bianco.
   «Eppure non mi sembra tanto una sceneggiata...» insisté Paul. «Avete mai visto una reazione simile?».
   «Boh? Nessuno di noi è così vecchio da ricordare l’ultima Sbronza» rispose Sticazz, facendo spallucce.
   Dopo alcuni minuti di pantomima, che divertirono moltissimo i Femen, Godiva cominciò a calmarsi. Dapprima smise di gridare. Poi il suo respiro rallentò, facendosi più profondo, e le convulsioni si acquietarono.
   Ritenendo che fosse il momento opportuno, Paul scese dal ballatoio. Puntò a sua madre, fendendo la calca a spintoni, finché le fu accanto. Allora vide che l’avevano riadagiata sul lettino. Cianidrina le passava una pezza sulla fronte, forse più per recuperare le preziose gocce di sudore che per solerzia nei suoi confronti. Le aveva anche ficcato due pezzetti di cotone idrofilo nelle narici, per arrestare il sanguinamento.
   «Mamma, come stai?!» chiese Paul, inginocchiandosi al suo capezzale.
   «Yu-huuu, una favola!» rispose lei, facendo il segno di vittoria. «È uno sballo, provalo anche tu!».
   «Più avanti, magari» rispose il giovane. Dopo di che sussurrò all’orecchio di Cianidrina: «Allora, me l’hai rimbambita?!».
   «Tranquillo, non si vedrà la differenza» rispose la squinzia, per nulla rassicurante. Stava già riponendo le sue carabattole.
   «La Sbronza... la Sbronza è fenomenale!» ansimò Godiva, afferrando il figlio per un polso con forza incredibile. Spalancò gli occhi... e Paul vide che le iridi un tempo verdi erano diventate blu oltremare. Lo stesso blu che scintillava negli occhi di Cianidrina, di Sticazz e degli altri Femen.
   «Ora possiedo la conoscenza collettiva delle mie antenate, a partire dalla prima che sniffò Spezia, millenni orsono» proseguì la Lady, ancora un po’ affannosa. «Certo, le ultime sono più nitide. Posso vedere attraverso gli occhi di mia madre... era una Mala Gesserit!» si emozionò. «E mio padre, chi...». D’un tratto il suo viso s’impietrì. Dai ricordi della Reverenda Madre Gaia Helen Mangiahuom era affiorato il viso del Barone Scarafonnen. Era giovane e aitante, all’epoca; gli stravizi non lo avevano ancora abbruttito. Ma era lui, indubbiamente. Folgorata dalla scoperta, Godiva fissò il figlio, come se lo vedesse per la prima volta.
   «Allora, chi era?» chiese Paul candidamente.
   «Io... non saprei. Non lo riconosco» mentì Godiva, non osando dirgli la tremenda verità. «Ma sono certa che era un brav’uomo... come potrebbe essere altrimenti?» fece, un po’ stridula.
   «Dovete riposare, ora... Reverenda Madre» intervenne Cianidrina, rivolgendosi a Godiva col suo nuovo titolo. «Una buona notte di sonno vi restituirà le forze e vi aiuterà a mettere ordine nella mente affollata».
   «Sì, lo credo anch’io» borbottò la Lady, sfregandosi le tempie. Si chiese che effetto potevano avere quei ricordi sulla mente della figlia non ancora nata; preferì non pensarci. Lasciò che la trasportassero al suo alloggio, su quella specie di lettiga in cui si trovava. Alcuni guaritori sarebbero rimasti con lei per tutta la notte, vegliando sulla sua salute.
   Ora che la cerimonia era terminata, i Femen tornarono alle loro occupazioni, parlottando fra loro. La Grande Spelonca si svuotò con la stessa rapidità con cui si era riempita. Tra i pochi che si attardarono vi fu Paul, che fissava il lago sotterraneo senza realmente vederlo.
   «Tua madre è forte, si riprenderà» disse Cianidrina, accostandosi.
   «Lo spero» sospirò il giovane. «Beh, ora che lei s’è messa in moto, io non posso stare fermo. Domani stesso comincerò il mio addestramento. E al tempo stesso, istruirò i vostri guerrieri sulle nostre tecniche. Chissà che, unendo il meglio dei due mondi, non si combini qualcosa».
 
   Il giorno dopo Paul parlò ai guerrieri del sietch. Si erano radunati in una caverna lunga e stretta, dal soffitto altissimo. Dalla sua posizione soprelevata, il giovane li osservò: erano migliaia, più di quanti avesse previsto. E quello era solo uno dei centri abitati dei Femen, che costellavano Dune. «Il buon Duncan aveva visto giusto... se questo popolo si unisse, sarebbe inarrestabile» si disse Paul.
   «Parla pure, ma sii conciso» raccomandò Sticazz, che gli stava a fianco. «Non siamo avvezzi ai discorsi filosofici».
   «Sarò terra-terra» promise Paul. Si fece avanti, finché fu proprio sul bordo della terrazza. Notò che non c’era alcun microfono sul parapetto. «Ma mi sentiranno, laggiù in fondo?» sussurrò a quanti lo attorniavano.
   «La caverna dovrebbe fare eco» spiegò Cianidrina. «Comunque non importa. Questa gente è così incazzata che, se riesci a infiammare le prime file, le altre le andranno dietro».
   «Okay» fece Paul, schiarendosi la voce. Era buffo, ma non aveva mai parlato a una folla così numerosa. Da dove cominciare? «Sono Paul Formaldeides, ma molti di voi mi conoscono come l’Emo!» esordì con voce stentorea. «La mia Casa era subentrata agli Scarafonnen nell’estrazione della Spezia, e avevamo già stabilito un primo accordo con voi, garantendovi la giusta autonomia e i lassativi gratis. Ma gli Scarafonnen sono tornati in forze, col beneplacito dell’Imperatore. Hanno ucciso mio padre, sterminato la nostra leale guarnigione. Hanno costretto me e mia madre a fuggire nel deserto, sempre braccati, finché il Fato ci ha fatto incontrare la vostra gente. Ora gli Scarafonnen sono di nuovo al potere, liberi di saccheggiare il vostro mondo. Glielo permetterete?!».
   «Nooo!» gridarono i guerrieri all’unisono.
   «Lotterete per riconquistare Dune e cacciarli a pedate?».
   «Sììì!».
   «Unirete il vostro sapere col mio, per diventare ancora più letali?».
   «Sììì!».
   «Bravi ragazzi. Ma non basta infastidire gli invasori, come facevate prima!» li istigò Paul. «Dobbiamo bloccare completamente l’estrazione di Spezia. Così non saranno solo gli Scarafonnen a rimetterci. La Gilda Spaziale, le Male Gesserit... tutti i pilastri dell’Impero dipendono dal melange. Leviamogli la dose quotidiana e li terremo per le palle! L’Imperatore in persona dovrà schiodarsi dal suo trono dorato e accogliere le nostre richieste!».
   «Sììì! Hurrà!» esultarono i guerrieri, così scatenati che l’oratore stesso non avrebbe più saputo calmarli.
   «Quando metteremo a segno i primi colpi, vedrete che gli altri sietch si uniranno a noi, in una valanga inarrestabile» proseguì Paul. «Presto gli occhi di tutto l’Impero saranno puntati su Dune. Questo pianeta sarà davvero il centro dell’Universo! E voi, sarete miei sodali?!».
   A quest’ultima domanda, calò il silenzio. I Femen si guardavano l’un l’altro, cercando di capirne il senso. Infine uno della prima fila alzò la mano. «Ehm, che significa “sodali”?» chiese.
   Paul alzò gli occhi alla volta rocciosa. «Significa alleati. Sarete miei alleati, miei fratelli d’armi... insomma, combatterete con me?!».
   «Ah, ecco! Sììì!!!» ruggirono i nativi, facendo tremare la caverna. Allora Paul e Cianidrina si scambiarono un sorriso di trionfo. Sentivano che era cominciato qualcosa di grandioso.
 
   I preparativi per l’insurrezione cominciarono subito. I guerrieri più abili del sietch si radunarono in un grande salone, per addestrarsi con Paul. Il giovane era un po’ nervoso, perché quasi tutti quegli uomini erano più maturi ed esperti di lui: aveva davvero qualcosa da insegnargli, o piuttosto non sarebbero stati loro a farlo apparire come un novellino? In quella prima lezione decise di concentrarsi sulla strategia bellica, più che sulle tecniche di lotta. Quindi fece predisporre accuratamente la sala d’addestramento.
   Quando i guerrieri entrarono, videro che al centro del salone svettava un grande monolito. Aveva forma rettangolare, con gli spigoli nettissimi, ed era di un nero intenso, senza riflessi. Incuriositi e un po’ timorosi, i nativi gli si accostarono e lo toccarono ripetutamente, cercando di capire che cosa fosse.
   «Beh, che fate tutti lì appiccicati, razza di scimmioni?! Mettetevi in riga!» abbaiò Sticazz, entrando nel salone. I guerrieri obbedirono, allineandosi su più file. Cadde il completo silenzio. Allora Paul entrò a sua volta e li passò in rassegna.
   «Benvenuti, fratelli miei. Oggi siete qui per la prima lezione del corso Uccidi gli Scarafonnen» annunciò il giovane Duca, fregandosi le mani. «Vedete quel monolito? Non chiedetemi cos’è, non lo sa nessuno. L’abbiamo appena tirato fuori dalla cantina. Vi basti sapere che è fatto di roccia durissima. Sarà questo il vostro primo avversario».
   Tra i Femen corsero sguardi perplessi, ma nessuno osò commentare quel singolare metodo d’istruzione scelto dall’Emo. Questi, dal canto suo, esaminò i guerrieri della prima fila, finché si fermò davanti a quello che gli parve più adatto. «Tu, fatti avanti!» ordinò con voce stentorea, cercando d’imitare i suoi maestri d’armi. Il guerriero eseguì e rimase sull’attenti. Intanto alcuni inservienti posero davanti al monolito due file di pali: ciascuna fila era unita da corde, andando quindi a formare un corridoio molto stretto. Il monolito lo bloccava interamente, impedendo il passaggio. I Femen osservarono tutto senza fiatare.
   A questo punto Paul prese una tazza di caffè e la tenne alta, per farla vedere a tutti. Poi la nascose dietro al monolito. Infine si rivolse al guerriero che aveva selezionato: «Per prendere quella tazza, dovrai oltrepassare l’ostacolo. Come conti di fare?».
   Il guerriero percorse la sottile strada che gli altri avevano tracciato, constatando che il monolito la bloccava del tutto. Lo osservò con attenzione: era troppo alto per scavalcarlo e così liscio da non potersi arrampicare. «Potrei ribaltarlo» rispose allora.
   «Provaci».
   Il guerriero spinse con tutte le sue forze, ma il pietrone era troppo pesante: un solo uomo non poteva farlo cadere. Dopo circa un minuto dovette desistere. Allora fissò Paul, in attesa dell’imbeccata.
   «Come dicevo, questo è il vostro primo avversario. Su, dagli un calcio, più forte che puoi» lo invitò il giovane.
   Il Femen esitò, sapendo che era inutile; ma non poteva esimersi davanti agli altri che lo fissavano. Così prese lo slancio e sferrò un energico calcio.
   Thud.
   «Ahi! Porca Gesserit! Mi devo essere fratturato l’alluce!» si lamentò il disgraziato, saltellando sull’altro piede.
   «Bene, ora dagli un pugno» ordinò Paul, tranquillissimo. «Sempre con tutte le tue forze».
   Il guerriero lo guardò come se fosse impazzito, ma di nuovo non osò contraddirlo davanti a tutti. Così respirò a fondo, caricò il destro e colpì con tutta la forza che aveva.
   Thud.
   «Uhi! La mia mano, la mia povera mano!» gemette il Femen, massaggiandosi l’estremità contusa. Le nocche avevano già preso a illividirsi.
   «Ottimo. Adesso urlagli contro» lo istruì Paul.
   Il nativo smise di lagnarsi e lo guardò truce. «Cos’è, mi prendi per i fondelli?!» protestò, mentre i compagni ridevano di lui.
   «Urlagli contro, ti dico» insisté il giovane Duca.
   Il guerriero si disse che forse quel particolare tipo di roccia era sensibile alle onde sonore... anche se in tal caso era improbabile che lui potesse vocalizzare quelle giuste. In ogni caso, decise di provare; almeno stavolta non si sarebbe rotto nulla. «SPEZZATI!» gridò, con quanto fiato aveva in gola. Il monolito, manco a dirlo, restò tutto d’un pezzo.
   «Eccellente. Ora non resta che dargli una testata» annunciò Paul.
   «Ah, no! Quella proprio no!» protestò il Femen, indietreggiando mentre si copriva il cocuzzolo in via cautelativa.
   «Dagli una testata, ho detto! Più forte che puoi!» esclamò l’Emo, infondendo tutto il potere della Voce in quell’ordine.
   Sopraffatto dalla volontà del suo istruttore, il guerriero si accostò irresistibilmente al monolito. Aveva gli occhi spiritati e si muoveva un po’ a scatti. Quando gli fu appresso, prese lo slancio e gli dette una tremenda craniata.
   Thud!
   Il guerriero stramazzò al suolo, privo di sensi. Due Femen accorsero prontamente, lo caricarono in barella e lo portarono chissà dove.
   «Ebbene!» fece Paul con voce stentorea, rivolgendosi al resto dell’uditorio. «Avete compreso la lezione di oggi?».
   I Femen si guardarono l’un l’altro, borbottando le loro impressioni. Finalmente un guerriero si rivolse al Duca. «Ehm... la lezione è che le pietre sono più dure delle nostre teste?» suggerì. «Del resto lo sapevamo già. Non c’era bisogno di rompere la testa al povero Phil».
   «Non hai capito una cippa! Cos’è, devo ripetere la lezione?!» chiese il giovane Duca, deciso a mostrarsi severo.
   «No, per carità! Una testa rotta basta e avanza» rispose il Femen. «Più che ripeterla, dovresti spiegarla».
   «E va bene» acconsentì Paul. «Fate conto che quel monolito siano gli Scarafonnen. Voi siete abituati a caricarli a testa bassa. Potrà anche suonare epico, ma... la maggior parte delle volte, le buscate di santa ragione. Avete un modo troppo rigido e codificato di combattere; così il nemico sa cosa aspettarsi. Da oggi bisogna uscire dagli schemi. Ricordate qual è stato il mio primo ordine, in questa prova? Per bere il caffè bisogna oltrepassare l’ostacolo. Chi vuol provarci di nuovo?».
   «Io» disse Cianidrina, facendosi avanti. Tutti la osservarono con ansia, aspettandosi nuove craniate. Ma si sbagliavano di grosso. Invece d’infilarsi nella strettoia che conduceva al monolito, la squinzia camminò all’esterno, girando intorno all’ostacolo. Raccolse la tazza di caffè e lo sorbì davanti al pubblico, senza fretta. «Buono, anche se un po’ freddo» commentò.
   «Ehi, ma così non vale! Hai imbrogliato!» protestò un Femen, dando voce all’opinione di tutti.
   «E allora? È il risultato che conta» la difese Paul. «Il vostro collega non ha superato l’ostacolo; lei sì. Questo è l’importante. Quando saremo tutti polvere nel deserto, e i posteri racconteranno la nostra storia, non conosceranno i dettagli. Non gl’importerà neanche sapere se abbiamo giocato pulito. L’unica cosa importante, per loro, sarà se abbiamo vinto o perso. Con questo, non dico d’abbassarci alla perfidia degli Scarafonnen» chiarì, temendo d’essere male interpretato. «Dico però che, se vogliamo avere una possibilità, dobbiamo farci furbi e tentare cose nuove. La vostra società è retta da rigidi rituali, che non cambiano da millenni. Può darsi che questo vi abbia aiutati a sopravvivere in passato, ma oggi vi ostacola. D’ora in poi, il nostro obiettivo non dev’essere più mantenere lo status quo, ma innovare e perfezionarci costantemente! Se riusciremo a essere creativi, allora sì che saremo inarrestabili!».
   I Femen manifestarono il loro assenso con grandi schiamazzi. Da quel momento in poi, anche i guerrieri più incalliti ebbero l’umiltà necessaria a seguire le lezioni del giovane Duca, imparando ciò che poteva insegnare sia a livello di strategia che di scontro diretto. Anche Paul, peraltro, si era iscritto a una dura scuola. Sticazz e altri Femen gli impartirono le lezioni più dure, focalizzandosi sulle tecniche di sopravvivenza e guerriglia nel deserto. Il giovane imparò a prevedere le tempeste di sabbia, a percepire l’avvicinarsi dei Vermoni, a conservare fino all’ultima goccia d’umidità corporea mentre si addestrava sulle dune roventi. Al tempo stesso apprendeva usi e costumi dei Femen, oltre al loro linguaggio. Era un’esperienza esaltante e al tempo stesso massacrante. Ma erano pur sempre dei preparativi. La guerra, quella vera, doveva ancora cominciare; e Paul sapeva di non poter attendere troppo. Ogni giorno che passava, gli Scarafonnen si facevano più spavaldi. Le loro Mietitrici si addentravano nel territorio dei Femen, i loro porcicotteri sorvegliavano i cieli. Se avessero avuto sentore della rivolta che si preparava, avrebbero colpito per primi; e allora sarebbe stata la fine.
 
   Rientrato dal suo massacrante addestramento nel deserto, Paul lasciò che la frescura della Grande Spelonca lo ritemprasse. Non vedeva l’ora d’incontrare Cianidrina, e chissà che stavolta non riuscisse a combinare qualcosa...
   Come al solito la vide sul ballatoio. Era lì che la figlia di Kinkes lo aspettava, quando non aveva di meglio da fare. Non che incontrarla significasse davvero svagarsi: finito l’addestramento nel deserto, cominciavano le lezioni di storia e usanze Femen. Cianidrina gli aveva insegnato molto, ma c’era così tanto da apprendere... Paul si chiese cosa gli avrebbe raccontato oggi. Salì la scaletta intagliata nella roccia, cercando di apparire scattante, quando invece era spompato. «Ehilà, Ciani!» la salutò quando fu in cima. Solo lui usava quel diminutivo. «Oggi il buon vecchio Sticazz mi ha insegnato a riciclare l’urina e le feci. È stato molto divertente!» mentì. «E tu, che hai fatto di bello? Per caso hai visto mia madre? Ultimamente è molto ritirata...».
   Cianidrina, che fino ad allora aveva fissato il lago sotterraneo, si girò verso di lui. E Paul si bloccò di colpo, perché la squinzia stava facendo qualcosa che non le aveva mai visto fare. Stava piangendo. Se lo faceva lassù, era perché in quel modo le lacrime cadevano nel bacino e non andavano sprecate.
   «Ehi, che ti succede?» si preoccupò il giovane.
   «Mio padre è morto» rispose Cianidrina, semplice e diretta. «Era da tanto che non avevamo sue notizie. Partì dalla stazione ecologica abbandonata per venire qui, dopo aver aiutato te e tua madre. Ormai sarebbe dovuto arrivare, ma non l’ha fatto. Così alcuni dei nostri esploratori più esperti sono andati a cercarlo. Non l’hanno trovato... ma hanno captato una trasmissione degli Scarafonnen da cui si evince che è morto».
   «Non potrebbe essere un inganno?» suggerì Paul.
   «Non credo. Se fosse vivo, a quest’ora sarebbe arrivato. E non penso che lo tengano prigioniero... anche perché non si sarebbe fatto catturare» rispose la squinzia. «Dicono che fu inghiottito da un Vermone. Se è così, è stata una buona morte. Benedetto il creatore, quando viene e quando parte» recitò, come se quel mantra potesse alleggerirla.
   «Stavolta il creatore del deserto è venuto affamato ed è ripartito sazio» si disse Paul, che malgrado tutto stentava a considerare i Vermoni col sacro rispetto dei Femen. Ma non poteva certo dire questo alla figlia del planetologo. «Tuo padre era un brav’uomo» mormorò. «Ha salvato la vita a me e mia madre... e io mi maledico per non aver saputo ripagare il gesto».
   «Non è stata colpa tua» sospirò Cianidrina. «Mio padre è morto a causa degli Scarafonnen, proprio come il tuo».
   «Allora dobbiamo proseguire la loro lotta, senza per questo perdere di vista i loro ideali. Solo così potremo onorarli» dichiarò il giovane Duca. Sarà stata l’intensa commozione, ma fu allora che si scambiarono il primo bacio. E anche il secondo e il terzo.
   «Calma, non precipitiamo le cose» mormorò Paul, scostandosi un poco. Aveva difficoltà a ragionare, eppure doveva provarci. «Sei in lutto, hai bisogno di tempo per elaborarlo. Ne riparleremo quando ti sentirai pronta».
   «Sì, è meglio così» convenne Cianidrina, ricomponendosi. «Anzi, sai che ti dico? Questo momento fra noi non c’è mai stato. Siamo solo amici».
   «Certo, solo buoni amici» convenne l’Emo.
 
   Girandosi nel letto, Paul vide che Cianidrina era ancora sveglia e lo fissava. «Fortuna che eravamo solo amici» commentò.
   «Beh, adesso siamo qualcosa di più» ammise la squinzia.
   «In tal caso, non vedo motivo di tenerlo per noi» disse Paul. «Da ciò che ho appreso delle vostre usanze, credo che possiamo considerarci... fidanzati?» scherzò, ma la compagna si fece seria.
   «In base alle nostre usanze, io posso essere al massimo la tua concubina».
   «Al diavolo queste usanze preistoriche!» sbottò Paul, infastidito. «Ci sono pianeti in cui si convive, sai? E se la cosa funziona, ci si può anche...».
   «Meglio non guardare così avanti» sospirò Cianidrina. «E poi devi concentrarti sul tuo addestramento. Sei progredito in fretta, la mia gente ti rispetta. Ma se vuoi l’ammirazione e la fiducia incondizionata di tutti, c’è una cosa che devi ancora fare».
   «Che cosa? Dimmi, sono pronto!» si gasò il giovane.
   «Devi cavalcare Shai-Hulud».
   «Come? L’ho già fatto!».
   «Sì, ma c’era un altro guidatore. Tu eri solo un passeggero» puntualizzò la squinzia. «Ciò che devi fare è domarne uno, con le tue sole forze. Ciò significa salirgli in groppa, imbrigliarlo e riuscire più o meno a dirigerlo. Finché non farai questo, il più meschino dei nostri guerrieri potrà vantarsi d’essere più in gamba di te. La tua autorità sarà sempre minacciata e le tue possibilità saranno limitate dall’abilità altrui. È una cosa, questa, che un vero Femen non sopporterebbe mai. Vuoi viaggiare sempre come se fossi un bambino, o un vecchio, o un ammalato?».
   «Certo che no!» fece Paul, sulla difensiva. «Se ci riuscite tutti, ci riuscirò anch’io. Anzi, sai che ti dico? Stasera stessa farò l’annuncio e domani andremo nel deserto in cerca di Vermoni!».
   «Bravo, così si fa» approvò Cianidrina. «E al ritorno t’inviterò a ristorarti da me, così tutti sapranno che siamo... fidanzati».
 
   Era un caldo mattino nel Deserto di Aaargh; il venticello sollevava la sabbia e le particelle di Spezia scintillavano nella luce del sole nascente. Le soffici dune arancioni si stendevano a perdita d’occhio. Usciti dal loro rifugio, i guerrieri Femen – una quarantina in tutto – avanzarono in fila indiana, col tipico Passo Arrancante. Intanto canticchiavano il vecchio ritornello: «Ehi-oh! Ehi-oh! Andiamo a lavorar!». I più stonati si limitarono a fischiettarlo.
   Avendo provato a unirsi al coro, Paul si ritrovò ben presto col naso e la gola pieni di sabbia. «Cough! Cough! Non c’è verso d’aprir bocca, quando siamo fuori!» si lamentò mentre tossiva.
   «Ora sai perché siamo laconici» commentò Sticazz, che procedeva davanti a lui.
   «Senti, capisco il Passo Arrancante... ma perché siamo sempre in fila indiana?» chiese Paul di lì a poco.
   «Per non far sapere quanti siamo, scemo».
   «Non farlo sapere a chi?! Oltre a noi, non c’è anima viva!» protestò il giovane, allargando le braccia.
   «Mai sentito parlare di foto satellitari? Gli Scarafonnen cercano sempre di localizzarci e di censirci. Fossimo tutti come te, lo avrebbero già fatto» lo rampognò Sticazz. «Invece siamo ancora liberi dagli esattori fiscali. E adesso... fermi!» ordinò, alzando una mano. I compari si bloccarono all’istante.
   Il naib si voltò, fissando Paul coi suoi occhi balenghi. «Beh, ragazzo mio, eccoci qui. C’è il deserto, ci sei tu... manca solo il Vermone. Chiamalo, e vediamo che succede».
   «La fai facile» borbottò il giovane, ricordando quello che aveva mandato giù la Mietitrice come una pillola.
   «Questi sono i ferri del mestiere. Fatti onore!» proseguì Sticazz, porgendogli un Martellatore, una fune e un arnese a metà fra una pala e un arpione.
   «Okay... allora io vado, eh?» fece Paul, prendendo gli attrezzi. Chissà perché, la sua voglia di cavalcare i Vermoni era andata a farsi friggere. Avrebbe tanto preferito starsene nella città sotterranea, dov’era fresco e la sabbia non s’infilava in ogni orifizio... avrebbe tanto preferito starsene con Cianidrina. Già, ma per tornare da lei doveva prima riuscire; altrimenti la squinzia si sarebbe vergognata di lui.
   «Mi raccomando, mettetevi comodi!» borbottò il giovane, arrancando sotto il sole ormai alto. Già che stava per fare una cosa difficile e rischiosa, avrebbe preferito non avere il pubblico; gli metteva ancora più ansia. «Se faccio cilecca, i Femen si convinceranno che non sono l’Emo» rimuginò. «No, devo farcela al primo tentativo. Del resto, dopo tanti segni premonitori, ormai avranno una discreta fiducia in me...». Si girò e vide che i nativi si erano ritirati su un’altura rocciosa, che li avrebbe protetti nel caso il Vermone si fosse rivelato incontrollabile.
   «Che malfidenti!» brontolò Paul, continuando ad arrancare sulla pericolosa sabbia fine. Quando gli parve d’essere abbastanza lontano, si fermò. Piantò il Martellatore nella sabbia e lo attivò, lasciando che le vibrazioni attirassero i Vermoni.
   Tu-tum, tu-tum,tu-tum...
   Fatto questo, il giovane cercò d’impugnare il rampone, per legarvi la corda. Ma poiché se lo era assicurato dietro la schiena, e doveva andare a tentoni, lo mancò. Finì per girare più volte su se stesso, cercando di guardarsi dietro le spalle per capire com’era messo quell’arnese.
   «Che cosa fa l’Emo?» chiese uno dei Femen, osservando le sue bizzarre piroette.
   «È ancora più coraggioso di quanto credevo. Ci sta mostrando il suo sprezzo del pericolo» disse solennemente Sticazz.
   «Ma Shai-Hulud sta arrivando» avvertì un altro, accennando al rigonfiamento nella sabbia in rapido avvicinamento. Era come una duna, anzi una collina semovente. Fulmini statici se ne levavano, crepitanti.
   «È grosso» riconobbe Sticazz. «Molto più grosso del solito».
   A queste parole, un chiacchiericcio eccitato corse fra i nativi. «Avete visto? L’Emo ha chiamato il più grosso! Anche questo era predetto!» gridò uno di loro.
   Udendo le loro voci, e ormai anche il boato della creatura, Paul desistette dai suoi tentativi. Si girò e vide la montagna di sabbia che gli veniva addosso. «Porca Gesserit! Ma quant’è grande?!» si disperò. Corse lontano dal Martellatore, mentre cercava ancora di afferrare il rampone. Sarà stato il dondolio della corsa, ma finalmente ci riuscì. Allora vi legò in fretta e furia la corda.
   Proprio in quel momento il Vermone uscì dalla sabbia, spalancando le fauci tripartite. Mai, nemmeno nelle precedenti cavalcate, Paul si era trovato così vicino alla bocca irta di denti del mostro. Si sentì rizzare i capelli, mentre le scariche statiche quasi lo friggevano. Con la forza della disperazione, si buttò di lato e rotolò sulla sabbia. Quando si rialzò, si accorse che il corpaccio del Vermone gli scivolava a fianco, travolgendo il Martellatore. Era il momento decisivo.
   Coi Femen che facevano la ola per incoraggiarlo, il giovane corse accanto al Vermone. Doveva osservarne la dura epidermide, formata da anelli sovrapposti, in cerca del punto di contatto fra due segmenti. Una volta lì, vi avrebbe infilato il rampone. In ciò era ostacolato dal fatto che il Vermone, col suo movimento, lo annaffiava costantemente di sabbia smossa.
   «Sputter! Io ODIO la sabbia! Mi s’infila ovunque!» protestò Paul, sputando quella che gli era finita in gola. In qualche modo riuscì ugualmente a raggiungere la giunzione tra due segmenti. Allora v’infilò il rampone e fece forza, sollevandone l’orlo. Era quello il segreto trasmessogli dai Femen: finché l’uncino avesse mantenuto aperto il bordo dell’anello, esponendo all’abrasione della sabbia la sensibile polpa interna, la creatura non sarebbe più sprofondata nel sottosuolo. Il Vermone spalancò la bocca, come per urlare il suo disappunto, e ruotò su se stesso. Naturalmente si girò in modo tale da sollevare la parte irritata, allontanandola dalla sabbia. E così facendo, sollevò il giovane da terra.
   «Urka!» fece Paul, reggendosi a forza di braccia. Si sentiva come una formica aggrappata a un barile che, ruotando, la innalzi sempre più. Lasciò che la corda si sciogliesse dietro di lui, in modo che i Femen ci si potessero aggrappare in seguito. Al termine del movimento, il giovane si ritrovò sulla groppa del Vermone.
   «Però, non è male!» commentò, guardandosi attorno. Lì in cima, a decine di metri sopra il deserto, non gli arrivava così tanta sabbia in faccia. Inoltre poteva vedere tutto dall’alto... non che ci fosse molto da vedere, considerato che le dune si stendevano uniformi in tutte le direzioni. Ma era comunque una bella soddisfazione stare in groppa al Vermone. Ora non gli restava che dirigerlo.
   Guardandosi attorno, Paul localizzò uno degli sfiatatoi. Vi corse appresso, per agganciarvi l’estremità della corda con un morsetto. Era appena arrivato che la sabbia surriscaldata uscì dallo sfiatatoio, finendogli dritta in faccia. «Ancora sabbia! Allora ce l’hai con me... ma vedremo chi ride ultimo!» ansimò, sputacchiando. Tese la corda dallo sfiatatoio a quello adiacente, agganciandola anche lì con un secondo morsetto, e beccandosi un secondo sbuffo di sabbia calda. Lasciato pendere ciò che rimaneva della fune, andò a metà strada tra gli sfiatatoi. Afferrò la corda tesa, a mo’ di briglia, cercando di rallentare il Vermone.
   «Oh-ohhh! Frena, bello!».
   E incredibilmente il Vermone rallentò. Non si fermò del tutto, ma passò accanto ai Femen alla velocità di un calesse. Allora i nativi esultarono e si lanciarono in avanti, sulla sabbia. Il primo ad afferrare la corda e a issarsi fu Sticazz, seguito da molti dei suoi. Si ritrovarono sull’ampio dorso del Vermone e si accostarono a Paul, vincendo la resistenza del vento.
   «Ullallà! Congratulazioni, figliolo! L’ho sempre detto che ce l’avresti fatta!» gongolò Sticazz, sebbene il giovane Duca non se lo ricordasse così ottimista. «Ora prova a dirigerlo verso il sietch. Seconda duna a destra e poi dritto!».
   Quella era la parte peggiore, Paul lo sapeva. Montare in groppa al Vermone era normale per i Femen; il difficile stava nel dirigere la rotta. Eppure, quale che ne fosse la ragione, il Duca scoprì che la creatura era sorprendentemente docile. Tirando le briglie, quella rallentava; allentandole riprendeva velocità. Tirandole solo da un lato, il Vermone virava in quella direzione. E non è che le onnipresenti dune lo rallentassero, perché la creatura le aggirava istintivamente. In quel modo bastarono pochissimi minuti per tornare al sietch. E Cianidrina, che attendeva di vedetta su un cocuzzolo roccioso, vide Paul tornare da trionfatore.
   «Yu-huuu! Ce l’ho fatta!» ululò il giovane, salutandola con un ampio gesto che quasi gli fece perdere il controllo. Dovette tornare a concentrarsi sulla guida per non essere sbalzato con gli altri. Rallentò il Vermone finché riuscì ad arrestarlo del tutto; ma anche allora la creatura restò in emersione. «Ben fatto, vecchio mio» disse Paul, grattandolo sul dorso. «Ti serve un nome... ti chiamerò Torpedone».
   «Ah, che corsa! Tu hai un talento naturale, figliolo!» si complimentò Sticazz, dandogli una sonora pacca sulla spalla. «D’ora in poi non dubiteremo più del fatto che tu sei davvero l’Emo, giunto a guidarci verso la vittoria».
 
   Di tutte le emozioni di quel giorno, Paul agognava soprattutto ciò che avrebbe provato nel riabbracciare Cianidrina. Così discese nel sietch tutto baldanzoso, a stento consapevole della scia di sabbia che si lasciava dietro. Ma quando fu nella Grande Spelonca e se la trovò di fronte, la squinzia aveva una strana espressione. «Bentornato Paul, Cavaliere delle Sabbie» lo accolse con esagerata formalità.
   «Credevo fossimo più intimi di così» mormorò Paul, un po’ deluso. «Che ti succede? È accaduto qualcosa in mia assenza?».
   «Direi proprio di sì. Tua madre...».
   «... ne ha combinata un’altra delle sue. Lo immaginavo» sospirò l’Emo. «Avanti, spara: che ha fatto?».
   «Ha dato alla luce tua sorella».
   Per qualche momento cadde un silenzio così completo che Paul poteva sentire i battiti del proprio cuore che risuonavano nelle orecchie. «Mi prendi in giro? Non è ancora tempo...» obiettò.
   «Il tempo è giunto e la bambina è nata» ribadì Cianidrina. «Credo che la Sbronza della Spezia abbia accelerato i tempi della gravidanza».
   «Ma mia madre sta bene? E la mia sorellina?» annaspò il giovane, assalito da mille preoccupazioni.
   «Per quel che possiamo vedere, madre e figlia stanno bene» assicurò la squinzia. «Ora stanno riposando, ma tua madre ha detto che potevi passare da lei appena tornato...».
   «Vengo subito» annuì Paul. Seguì Cianidrina in una zona della città sotterranea un po’ discosta dai quartieri abitativi, in quanto era la zona ospedale. Non c’erano molti degenti, in quel momento. Sua madre, in quanto Reverenda del sietch, aveva una camera tutta per sé. Era ancora coricata e cullava un minuscolo fagottino, canticchiando dolcemente. All’ingresso del figlio alzò gli occhi raggianti su di lui.
   «Bentornato, Paul. È andata bene col Vermone?» volle sapere.
   «Liscio come l’olio. E tu?» chiese il giovane.
   «Una faticaccia, come con te. Ma ora stiamo bene» assicurò Godiva. «Vieni avanti, su... vieni a vedere la tua sorellina».
   Paul si avvicinò, osservando l’involto di coperte con circospezione, come se da un momento all’altro potesse saltarne fuori un gremlin. Ricordava che la Sbronza di Spezia aveva strani effetti sul nascituro, e uno di questi – la nascita precoce – s’era già verificato. Chissà quante altre sorprese aveva in serbo la creatura. «Allora, hai scelto il nome?» chiese. Sapeva che, presso i Femen, era imperativo dare un nome ai propri figli prima che nascessero.
   «Oh, sì!» trillò Godiva. «Di’ ciao al tuo fratellone, mia piccola Aliena!».
   Il giovane Duca si accostò ulteriormente, chinandosi sull’involto. Con estrema attenzione, scostò l’orlo della soffice copertina. E si trovò a fissare due insondabili occhioni color blu oltremare. 
 
   
 
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