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Autore: udeis    27/03/2022    0 recensioni
La storia del destino di un regno e di chi ne è stato artefice e compartecipe.
1. Re -Io, che preferii l'azione a un'immobile sconfitta, misi in moto gli ingranaggi del fato di mia spontanea volontà.
2. Figlia dell'inverno - Nessuno sembrava amare l’inverno, così iniziai a detestarlo anche io perchè mi aveva fatto diversa da tutti gli altri.
3. Strega - I suoi occhi neri come la notte come fuoco consumano il mio animo.
4. Fame - Avevo fame e mi sarei nutrita ad ogni costo.
5. Quello che ho perso - in poche e semplici parole avevano negato il mio sacrificio, non gliel'avrei permesso.
6. Appartengo alla terra - appartengo alla terra e alla terra tornai tra pianti e maledizioni.
7. Il principe che venne da lontano - C’era una volta un principe in cerca di una terra da poter chiamare sua
8. Dea - io ricordo solo le donne che mi videro
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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La strega

“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.”

È una certezza pericolosa, la mia, ma accompagna ogni mio risveglio. Sono mesi ormai che faccio sempre lo stesso sogno: un uomo bruno e vestito di stracci arriva al villaggio in groppa a un cavallo. È giovane, ma la preoccupazione ha scavato rughe profonde sul suo volto e ingrigito i capelli alla radice. La sua bellezza è infranta, rovinata, ma a lui non sembra importare. Ha mani grandi, delicate, e la carnagione è più scura della mia.
La prima cosa che noto, però, sono sempre i suoi occhi neri come la notte: si allacciano ai miei e come fuoco consumano il mio animo.

A volte, nel mio sogno, il cielo è terso e luminoso.
Il cavallo è in salute e l’uomo mi sorride, grato.

Scende da cavallo, viene verso di me e ad ogni suo passo sbocciano fiori ed erbe, ad ogni suo passo l’aria si fa leggera e estiva. Si inchina, mi chiama “Mia signora”, mi tende la mano ed io mi sveglio, un’istante prima di afferrarla, pervasa da un’immensa pace.

Altre volte, le nuvole si addensano scure e sembra arrivata d’improvviso la mezzanotte.
Il cavallo è scheletrico e l’uomo ghigna.

Non scende da cavallo, ma mi porge una mano che rifiuto sdegnosamente. È allora il che il vento si alza e frusta la terra sollevando volute di polvere che mi brucia gli occhi. La pioggia, ci raggiunge poco dopo, impietosa, fitta come erbacce, e porta con sé la grandine: i suoi chicchi lacerano la mia pelle, facendomi sanguinare.

Io non mi muovo. Subisco la tempesta e lo guardo, mentre lui fa altrettanto: la mano ancora tesa e, sul volto, una smorfia che non so identificare. Mi sveglio tra le coperte fradicie di sudore alle prime luci dell’alba.

La mia pancia cresce, la gravidanza procede e al mio sogno si aggiungono dettagli: il cavallo è di un bianco splendente e la sella è rovinata, ma di ottima fattura, i fiori che sbocciano sono viole, il luogo in cui siamo è la piazza del Zalis, il mio villaggio. Inizio persino a distinguere sullo sfondo alcuni degli abitanti del mio stesso paese e le loro espressioni diventano sempre più definite ogni notte che passa.

Il viso dell’uomo, però, non lo ricordo mai.
Lo vedo chiaramente nei sogni e ogni notte lo riconosco, ma al risveglio non mi resta niente di più che l’impressione di due occhi neri come la pece.

La gravidanza indebolisce la mia seconda vista: desidero scavare più a fondo, interrogare gli astri e il vento stesso, come ho sempre fatto quando volevo risposte, ma ogni tentativo in tal senso mi spossa tremendamente. Così ci ho rinunciato dopo i primi dolorosi fallimenti, troppo spaventata di morire o perdere il bambino.
Posso solo cercare di dormire il più possibile, sperando che i sogni si spieghino da sé: un uso così primitivo del mio potere che persino da apprendista avrei saputo fare di meglio.

Il battito del cuore di mio figlio si fa ogni giorno più assordante, mentre la matassa di pensieri, sensazioni e premonizioni, diventa sempre più sfuggente e io sono sempre più lenta a riordinarla. Persino delle cose di tutti i giorni mi sfuggono i dettagli e i contorni: un tempo avrei saputo d’istinto a quale erba affidarmi per il malessere della vicina, oggi devo affidarmi alla mia esperienza di levatrice. Mesi fa non sarei rimasta sorpresa della gravidanza della più piccola delle figlie del fornaio. Nè sarei rimasta sconvolta alla vista della mano troncata del macellaio, ma mi sarei diretta da lui con il necessario per ricucire e medicare, prima ancora che la mannaia gli sfuggisse di mano.

Agli occhi del mondo chino il capo con grazia a questa prepotenza - nove mesi passano in fretta, dopotutto - ma in realtà l’accetto con irritazione: oggi posso solo rimediare a ciò che un tempo potevo prevenire.

Magia e gravidanza sono un binomio complesso ed è sempre meglio che non interferiscano. Per questo quelle come noi evitano di restare incinta. “Se dovesse capitare, però,” diceva la mia vecchia maestra “la natura saprà prendersi cura di te come ha sempre fatto”.

Ricordo con nostalgia e indulgenza un passato lontano in cui avrei accolto con gioia la mia attuale cecità, anzi, se avessi saputo che era così facile ottenerla, sarei rimasta incinta molto prima, infischiandomene delle chiacchiere della gente. Non desidero una vita normale, da troppo tempo ormai, e vedermela servire tutt’un tratto su un piatto d’argento è fastidioso come indossare scarpe rotte durante un temporale. La musica delle stagioni tace, le visioni sono oltre la mia portata, sono sollevata dai miei doveri e l’intera comunità mi si stringe attorno, solidale, invece di mantenere il suo solito distaccato rispetto. I vicini mi cucinano, cibi che non voglio, portano per me i pesi peggiori senza che glielo chieda, mi fanno visita quando desidero il silenzio, parlano del mio futuro e non mi lasciano aggiustare il loro presente.

Si chiedono come farò al momento del parto: la vecchia levatrice ha smesso di esercitare la sua arte da quando ho preso il suo posto e non ci vede più tanto bene. Alcune voci dicono che mi farò da levatrice io stessa o che i miei strilli richiameranno la Dea in persona. Si guardano bene a dirmele in faccia queste cose, ma anche se non riesco più a sentire i sussurri dei loro pensieri così distintamente come un tempo, non c’è un solo modo per sapere le cose e io non mi faccio scrupoli ad origliare.

“Non hai pensato alle erbe?” mi ha chiesto, invece, mia sorella che di scrupoli non se ne fa affatto e che alla sua quarta gravidanza, ci ha pensato eccome e più di una volta. Io alle erbe ci ho pensato, ma non me la sono sentita: ho avuto paura o forse un presentimento. Potrebbe non risuccedere, ho considerato.“Questo figlio è mio” mi sono detta ed era come un ringhio.
Quella ferocia mi ha sorpreso: ho smesso di pensare alle erbe e iniziato a sopportare con pazienza le nausee, le fitte, i piedi gonfi, la vescica sempre piena e l’umore altalenante.

“Fa parte dell’esperienza, ma poi passa” dice mia madre, che nella mia gravidanza non ci sperava più. Negli occhi lo sguardo della sacerdotessa che condivide i misteri con la sua giovane iniziata, un segreto che da levatrice ho sempre e solo sfiorato, ma finalmente ora assaporo.
Mi riempie di attenzioni, mia madre: ha già mille nipoti eppure questo in qualche modo è diverso. Ha già assistito più di una figlia in gravidanza eppure con nessuna di loro è stata così soffocante. “È la tua prima” dice, se le chiedo spiegazioni, "Niente di più". Sospetto che non sappia bene neanche lei perchè si dedichi con tale solerzia alla figlia che ha da tempo affidato alle cure della Dea.

Dopo un risveglio particolarmente brusco non sono riuscita a scrollarmi di dosso quello sguardo di tenebra per tutta la giornata, così l’ho confidato a una mia cara zia, madre di troppi figli. “Ogni notte sogno un uomo con gli occhi neri, cara zia. Non mi lascia in pace.” Non le ho detto più di così - se è un presagio non posso rivelarlo con leggerezza- e lei si è messa a ridere: “Affrontare una gravidanza da sola non è facile”, ha detto, “a volte si sente la mancanza di uomo”.
Nello stesso modo mi hanno rassicurata le altre mie parenti che hanno già avuto figli. Hanno riso con me, complici, come non lo sarebbero normalmente, hanno comparato i loro mariti, hanno fatto battute salaci e mi hanno rivelato cose, che non mi avevano mai confessato prima.

È stato strano. Le donne si sono fatte più sollecite, più vicine per sostenere la gravidanza solitaria della levatrice: più si avvicinano più sarà doloroso quando, dopo il parto, si allontaneranno di nuovo per tributarmi il rispetto dovuto.

Forse lo fanno per ripagare il bene che ho fatto loro in tutti questi anni: tutti i neonati salvati, tutti i bambini mai dati alla luce, tutti i matrimoni aggiustati e le ferite risanate. O forse non si tirano indietro perchè non porta bene lasciare sola una donna incinta e nessuna di loro osa immaginare quale potrebbe essere la punizione della Dea, se lasciassero sola una sua iniziata.

Non penso che l’uomo dagli occhi color della notte sia davvero la rappresentazione del marito che non ho mai avuto e che non voglio. Non penso di esserne innamorata, nè lo desidero nel mio letto. È un presagio, anche se non ne capisco il significato. So solo che la prima volta che ebbi questo sogno al risveglio seppi che dentro di me c’era vita. Da allora mi fa visita tutte le notti: è l’unica compagnia che che non mi stufa, l’unica che è benvenuta anche quando è angosciante. Non riesco ad abbandonarla così come non posso farlo con questo bambino.

La vecchia levatrice, a cui devo ogni cosa, ha detto che sogno il mio bambino e la sua nascita. Temo e desidero il parto, come tutte le donne, alla prima esperienza, solo che, per forza di cose, i miei sogni sono molto più intensi. È la mia paura a generare la bufera e il mio sollievo a far fiorire la terra. Il cavallo rappresenta l’amore che provo per il mio bambino: tutte le madri si chiedono se possono amare quella creatura che cresce dentro di loro, tutte loro si trovano ad odiarla rabbiosamente e amarla furiosamente. Per questo il cavallo passa dall’essere rachitico all’essere in salute. Infine, non ricordo il volto dell’uomo perchè ancora non posso vedere quello del mio bambino: è un privilegio che non viene concesso nemmeno a quelle come me.
“La gravidanza sta andando bene” ha detto, confermando la mia diagnosi, “non preoccuparti”.

La sua interpretazione mi rassicura, anche se non mi convince del tutto.

Malgrado le tisane calmanti, le lunghe passeggiate, le chiacchiere e la routine, niente è riuscito ad avere la meglio sul mio sogno. Mi visita ancora e diventa ogni notte più angoscioso: la pace che mi fa provare è pericolosa, tossica, come un’ubriacatura, il dolore così pungente da farmi controllare affannosamente se la grandine mi abbia lasciato lividi reali. Ci vogliono trenta affannosi secondi, al risveglio, per rendermi conto che i nostri cuori battono ancora e che siamo a casa.
Se, all’inizio, quegli occhi scuri mi avevano consolato della mia solitudine, oggi non sono più così benvenuti: ho paura che se continuerò a sognare con la stessa intensità finirò per perdere il bambino e morire io stessa con lui, dissanguata e sola.

Per questo ho preso ad andare nella foresta sempre più frequentemente, lontano dalle case e dalla gente, dove la magia si rafforza. Mi ostino a pensare che il lieve pizzicore che sento sulla pelle, non sia il freddo, ma la natura che prova a parlarmi dopo mesi di dolorosa assenza. Lontano da Zalis, penso, l’uomo dagli occhi di tenebra non ha poteri e così mi addormento tra foglie cadute, al tiepido sole di mezzogiorno, risvegliandomi infreddolita, ma serena come non lo ero più da mesi.
Medito gioiosamente e raccolgo legna e bacche di agrifoglio da donare ai contadini, quando accenderanno i fuochi per celebrare il solstizio. Mi prendo cura delle bestie malate e regalo ai bambini qualche castagna da mangiare. Le mogli dei contadini accettano il dono, ma mi raccomandano, spaventate, ma premurose, di non sforzarmi così tanto al termine della gravidanza. "Rischi di perdere il bambino, signora" dicono, "dovresti saperlo bene", aggiungono le più coraggiose anche se loro hanno sempre lavorato fino alle prime doglie.

La natura mi dà pace: non intendo rinunciarvi ora che ne ho più bisogno. I doni che ricevo in cambio dei miei servigi, invece, mi fanno sentire la donna che ero fino a pochi mesi fa: temuta, apprezzata, necessaria.

Poi un giorno, tornando dai campi carica di frutta, lo vedo: gli occhi, così scuri da darmi i brividi.

Accomodo il cesto sul fianco: "Ti aspettavo", dico.
  
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