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Autore: SmolderDean    29/03/2022    0 recensioni
[Antica Roma - Real]
Una delle coppie più note e discusse della storia, sullo sfondo della potenza più grande del mondo antico al suo massimo splendore, raccontata attraverso gli occhi nuovi di un ragazzo legato a entrambi, l'unico che abbia potuto capire davvero cosa quell'amore significasse.
Un imperatore, un giovane greco ed un ragazzo romano, uniti nella storia e nelle stelle.
Genere: Angst, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nihil minus occupati est quam vivere (De brevitate vitae, Seneca)

(niente è meno proprio d'un affaccendato che vivere)

 

 

N.A. Il personaggio di Gaio Pompeo Lucilio è totalmente inventato, Pompeo deriva da Pompeo Paolino, mentre il riferimento del Lucilio di Seneca è delle Epistulae ad Lucilium. Ho creato questa figura per dare un taglio diverso alla storia, renderla più complessa grazie a un intreccio più fitto di punti di vista pur mantenendo la terza persona sui due protagonisti. Non è un racconto cronachistico, sarebbe stato tedioso e difficilissimo prendere in esame tutti i provvedimenti statali e le cariche rivestite da Adriano, ma gli eventi che nomino sono reali, così come lo sono, in linea di massima, le date (va aggiunto +753).

 

 

 

 

I

 

 

Mi chiamo Gaio Pompeo Lucilio e sono nato a Roma nell'anno 856 ab urbe condita. La mia è una famiglia importante, nella capitale, lo zio di mio nonno era un caro amico del filosofo Seneca, precettore dell'imperatore Nerone, tanto che la loro corrispondenza è diventata una delle sue opere più famose. Ho una sorella e due fratelli, tutti più grandi di me, con i quali non è sempre stato facilissimo convivere, e nel complesso la mia vita, ora che ho la bellezza di 65 anni, ha contato più bassi che alti, anche a causa loro e della loro avversione nei miei confronti. Mi hanno sempre visto come l'ultima ruota del carro, il membro inutile della squadra... Ma quello che mi presuppongo di fare è un resoconto del mio rapporto con qualcun altro, non la mia. Voglio che i posteri siano a conoscenza di ciò che albergava nell'animo di colui che ha regnato sulla potenza più grande della storia subito dopo il raggiungimento del suo massimo splendore, perché nessuno, lo affermo con certezza, potrebbe farsi carico di quest'onere, proprio perché nessuno l'ha amato più di me.

Adriano è venuto al mondo in un uggioso mercoledì di fine gennaio del 829, il 24 per la precisione, alcuni dicono nella provincia di Ispania altri qui, a Roma. Nemmeno lui lo sa con assoluta precisione, perché i suoi genitori l'hanno lasciato all'età di soli 9 anni. Da allora è cresciuto sotto la guida del suo predecessore Traiano e la moglie Plotina, che sono stati per lui il miglior padre e la migliore madre che un giovane potesse desiderare. Fu così che, dopo aver ricevuto un'educazione esemplare e aver ricoperto tutti gli incarichi esistenti nella complessa gerarchia burocratica romana, nel 870, già trentunenne, si vide nominato come erede imperiale.

Fu allora che entrai in gioco io. Non per mio volere, in verità, bensì per obbligo di mio padre. “Tu non brilli in nulla, figlio mio” mi aveva detto “vedi almeno di stare simpatico all'imperatore, chissà che non ne venga qualcosa anche a noi”. Con questo lusinghiero e altamente qualificato compito, mi presentai, indossando la mia più bella toga, profumato e pettinato secondo la moda che ancora vigeva sotto Traiano, alla residenza imperiale per essere ricevuto. Per farmi conoscere avrei dovuto presentarmi e offrire i miei servigi a nome di tutta la mia famiglia al nuovo sovrano, nel giorno della sua incoronazione, in cui sarebbe diventato Pontifex Maximus e avrebbe goduto della carica legislativa più importante di tutte, la tribunicia potestas.

Era mattino presto quando mi recai a palazzo, ma ricordo faceva già molto caldo. La toga mi opprimeva, e il nervosismo mi stringeva lo stomaco come una morsa, perciò non avevo toccato cibo dalla sera prima. Ero molto giovane e molto insicuro, il mio convulso tremore lo dimostrava fin troppo vistosamente. Mi fecero attendere in un ampio atrio, con le pareti decorate da marmi provenienti da tutto l'impero e mosaici parietali con tessere d'oro agli angoli delle volte, su cui soffermai lo sguardo. Come ho già sottolineato, la mia era una famiglia piuttosto in vista, ma, al contrario di ciò che ripeteva mio padre, i tempi d'oro in cui la nostra vicinanza alla casa imperiale si basava su un solidissimo legame erano ben lontani, oramai non eravamo che una gens fra le tante con un passato glorificato da una sola singola figura, confusa fra le pieghe della storia in appena tre quarti di secolo. Noi quei marmi e quell'oro ce lo sognavamo. Eppure, io ero la possibilità di riscatto, l'eroe che avrebbe restituito lustro al nostro nome, l'anello che...

“Ragazzo” chiamò una voce, svegliandomi dai miei castelli in aria “ragazzo, muoviti”.

Guardai l'entrata che mi indicava lo schiavo e pian piano mi avvicinai.

“Allora posso entrare?” chiesi, con voce incerta. Lui annuì.

“Sei già stato annunciato” confermò.

“Bene” commentai, prendendo un bel respiro “allora entro. Sì, entro. Entro”.

Dopo un po' di tempo passato dicendomi di entrare, riuscii a farlo veramente. O forse fui spinto, sinceramente non me lo ricordo. Quel che ricordo è che l'ambiente in cui mi trovai mi lasciò senza fiato. Era un piccolo giardino di Babilonia, con una fontana che a quel tempo mi parve altissima sormontata da dèi e figure mitologiche di tritoni e mostri marini da cui sgorgava acqua a profusione con un delicato scroscio, acuito dall'eco prodotto dalle volte sopra la mia testa.

“Vedo che abbiamo un altro piccolo appassionato di architettura” disse una donna.

Mi voltai e scoprii di trovarmi di fronte all'imperatrice Plotina. Non l'avevo mai vista a una distanza così ravvicinata, ma la riconobbi subito per gli immensi riccioli scuri a incorniciare il viso niveo, l'azzurro degli occhi ripreso dagli zaffiri dei suoi orecchini, e una lunga veste rosso cremisi come le sue labbra piegate in un sorriso. Chiusi la bocca, che non mi ero reso conto di tenere ancora aperta, e cercai di deglutire. Una, due, tre volte. Poi rinunciai.

“Questo posto è bellissimo” fu tutto ciò che mi riuscii di dire. Lei annuì.

“Hai proprio ragione” concordò, rivolgendo lo sguardo verso la fontana “l'ha progettato Publio, qualche anno fa. È sempre piaciuto molto anche a mio marito, qui trovava...serenità”.

Al nominare l'imperatore mi scese un brivido lungo la schiena. Certo ero lì per lui, certo era il mio unico dovere andare da lui e presentarmi, ma se solamente l'ambiente e la sua madre adottiva mi avevano messo tanto a disagio come mi sarei sentito con lui?

Fortunatamente, però, l'imperatrice mi lesse nel cuore.

“Tra un attimo sarà pronto, ti va di aspettarlo qui? Parlo di Publio, naturalmente” propose. Io annuii e lei mi sorrise. “Come ti chiami, mio caro?” riprese poi.

“Lucilio. Gaio Pompeo Lucilio”

“Oh, tuo nonno era forse...?”

“Suo zio, sì.”

Un uomo giovanile ci raggiunse con passo tranquillo, gli occhi scuri fissi su una spilla della sua preziosissima e complicata toga, e solamente fermandosi presso Plotina notò anche me.

“Gaio Pompeo Lucilio, permettimi di presentarti mio figlio” disse la donna, indicandolo non senza un certo orgoglio “Publio Elio Traiano Adriano Augusto, nostro nuovo imperatore”.

Lui mi sorrise, palesemente in attesa che io dicessi qualcosa, ma io ero paralizzato. Continuavo a fissare il suo viso glabro che stonava così tanto con la corona d'alloro sulla sua testa, senza parole. Quello non era un volto imperiale, era il volto di un uomo buono, meditabondo, cortese, e per quanto mi sforzassi non mi veniva in mente nulla da dirgli. Fu lui, perciò, a fare il primo passo.

“É un piacere conoscerti” disse, con una cadenza che riconobbi come quella iberica.

“Anche per me, tantissimo” biascicai io, in adorazione “un vero onore”.

“Prima Lucilio stava ammirando la tua fontana” aggiunse Plotina “gli piace molto”.

“Non è nulla di che” minimizzò Adriano, arrossendo lievemente “ma grazie, Lucilio”.

Quel grazie mi fece andare in iperventilazione. L'imperatore mi aveva appena ringraziato, aveva ringraziato proprio me, e questo fatto mi fece sentire improvvisamente una confidenza che mi diede, in un certo qual modo, il coraggio per esprimermi un po' più civilmente.

“Sono qui per congratularmi con voi a nome di tutta la mia famiglia” dissi “e per offrirmi come vostro...beh, qualsiasi cosa vogliate. Vi prego di accettarlo, io...”

“Ti ringrazio, Lucilio, ma non mi occorre nessuno al momento” replicò lui. Io non mi arresi.

“Allora sarò il vostro apprendista” tentai “voglio imparare a costruire fontane come questa”.

“Hai trovato il suo punto debole” commentò Plotina sorridendo. Adriano non si pronunciò, ma da come mi guardava capii che mi stava studiando. Feci per aggiungere altro ma mi precedette.

“E quanti anni hai, Lucilio?” domandò.

“Ne ho quattordici, Augusto” risposi. Lui annuì.

“La tua è un'offerta allettante” disse “quando tutti questi cerimoniali saranno finiti ti manderò a chiamare sicuramente. È bello trovare giovani così artisticamente propositivi”.

“Sì sì, sono molto artisticamente propositivo” confermai, senza sapere cosa significasse.

“Dunque ci rivedremo. A presto, mio giovane allievo”.

“Io...io attenderò la vostra chiamata con ansia, mio Augusto, e...e grazie”.

Feci un qualcosa di simile a uno sbrigativo e maldestro inchino, quindi, piano, uscii.

 

 

 

II

 

 

Mio padre fu molto contento. Diceva che forse, finalmente, avrei sorpreso tutti scoprendo di essere in grado di fare qualcosa, se non nella vita almeno per il prestigio familiare. Uno dei miei fratelli, scettico, scommise con l'altro che ero stato giocato, e che Adriano mi avrebbe dimenticato entro quella stessa sera, mia sorella invece rimase neutrale.

I giorni successivi furono atroci. Aspettavo per ore in strada, fuori dalla porta di casa, l'adorato messaggero che avrebbe riscattato il mio onore e dato un senso alle mie preghiere, ma niente. Dopo una settimana di derisioni da parte dei miei fratelli, caddi in uno stato di tristezza devastante, non riuscivo a capacitarmi di come avessi potuto subire una delusione così cocente.

Poi, un giorno, la chiamata giunse sotto forma dello schiavo che mi aveva accolto al palazzo, e in quel momento, non esagero, Mercurio in persona non mi sarebbe risultato più gradito. Corsi per tutta la casa, annunciando trionfante l'evento che, ne ero sicuro, avrebbe cambiato la mia vita, e nonostante l'accoglienza piuttosto tiepida della notizia, nulla scalfì la mia felicità.

Quella sera stessa ero a udienza con l'imperatore. Mi ero prefissato di mantenere contegno, di dimostrarmi calmo, come se fosse una cosa da nulla, ma non appena mi trovai di fronte ad Adriano per poco non mi buttai ai suoi piedi. Fu in quel preciso momento che prese forma nella mia mente l'immagine di lui come mio salvatore, l'eroe che fra tutti aveva scelto me, tirandomi via da quel terribile anonimato in cui ero sempre bollito a fuoco lento, in attesa di consumarmi.

A poco a poco, una lezione dopo l'altra, mi inserii sempre più nella famiglia imperiale. Plotina rimaneva la nonna che avrei sempre voluto avere, però mi affezionai molto anche a Elia Domizia Paolina, la sorella di Adriano cui questi era legatissimo e che dopo un po' ebbi l'immenso privilegio di chiamare solo Paolina. La famiglia più importante del mondo divenne anche la mia, ma ai miei occhi l'aura imperiale svanì presto, e imparai ad amarla come ne facessi davvero parte.

Scoprii che l'architettura mi piaceva. L'enfasi che poneva Adriano nello spiegarla rendeva ogni dettaglio imperdibile, ogni nozione leggera. Le ore che passavo cullato dal suono della sua voce erano per me le migliori ore del mondo, il tesoro più prezioso che mi potessero invidiare.

L'anno dopo, quando non avevo che quindici anni, si presentò l'occasione della vita.

“Vedi, Gaio, io mi sono affezionato molto a te” iniziò Adriano “questo lo sai”.

“E io a voi, Publio, come non potete immaginare” risposi. Lui sorrise.

“Fare l'imperatore non è un mestiere semplice” continuò “implica conoscere molto le persone, saperle capire e garantire loro il necessario perché abbiano tutto ciò di cui abbisognano”.

“Questo lo fate molto bene”.

“Grazie, ragazzo mio, ma non per provvidenza divina. Ho viaggiato tanto, e prevedo di farlo ancora, a breve. Ciò che volevo è chiederti se ti andrebbe di venire con me”.

“Mi...mi portereste veramente?”

“Nulla mi farebbe più felice, te lo assicuro”.

Io lo abbracciai, incapace di trattenermi, e lui rise, capendo qual era il mio responso.

“Allora inizia a preparare i bagagli” disse “staremo via per un po'”.

 

Sono passati diversi anni, ma ricordo quel periodo come il più felice della mia vita. All'inizio si aggiunse anche Paolina, poi invece, arrivati a Leptis Magna, in Tripolitania, rimanemmo solamente io e lui, inseparabili. Io lo veneravo come fosse già un dio. Tutto ciò che usciva dalla sua bocca arrivava direttamente al mio cuore, e le sue continue attenzioni mi facevano sentire quello accanto al suo fianco il mio posto nel mondo. Era tutto per me, non mi serviva altro.

Tutto cambiò quando arrivammo in Caria. Mi portò a visitare l'acropoli di Atene, si perse a descrivermi le meraviglie architettoniche dell'età dell'oro, quando alla guida della città c'era lo stratega Pericle, e in breve divenne più greco dei greci, con la sua parlantina filosofica, la barba tenuta lunga ma sempre curata, il mantello al posto della toga, tanto che iniziarono a chiamarlo l'imperatore “graecus”. Cominciai a faticare per stargli dietro e questo mi faceva soffrire.

La svolta avvenne durante un banchetto. Non smetteva di fissare un giovane poco più grande di me, con degli intensi occhi neri nei lineamenti delicati, e quando mi resi conto che usava con lui quelle stesse dolci accortezze con cui aveva viziato me, persi la testa e me ne andai. Ero geloso, terribilmente geloso, e non ebbi pace quella notte. Avevo poco meno di diciassette anni, vedermi portare via l'unica persona che avevo mai amato in quel modo quasi mi uccise, perciò il mattino dopo, forte di un'intera nottata di riflessione a riguardo, decisi di affrontare l'insulso ragazzetto che aveva osato frapporsi fra l'ottimo rapporto che sussisteva tra me e Adriano. Fu quindi come essere investiti da una quadriga di elefanti vedere proprio l'imperatore, a petto nudo che tranquillamente compiva le sue abluzioni quotidiane in un lavabo di bronzo, nella stanza di quell'essere. Non mi vide, me ne andai subito, e per un paio di giorni riuscii a fare finta di niente, nonostante tutto.

Durante una silenziosa passeggiata sotto il porticato della stoà di Attalo, però, improvvisamente si fermò. Feci un paio di passi prima di accorgermene, quindi mi voltai verso di lui.

“Che cosa c'è, Gaio caro?” mi domandò. Fu un colpo al cuore.

“Nulla, di che cosa parlate?” replicai. Lui mi raggiunse e mi prese il viso fra le mani.

“Ormai ti conosco, comprendo quando qualche cosa ti turba” disse “non ti piace qui, forse? Ti manca casa? Qualcuno ti ha fatto un torto? Perché devi solamente dirmelo e io...”

“Publio, davvero non c'è niente”.

Avrei voluto togliermi le sue mani dalle guance che sentivo caldissime e scappare nelle mie stanze senza aggiungere una parola, ma non riuscii a farlo, averlo così vicino mi piaceva troppo.

“Facciamo così” propose dopo un momento “domani usciamo tutti insieme, io, te e Loras e...”

“Loras?” ripetei, con voce incrinata “Perché serve anche la sua presenza?”

“Beh perché mi piace, è un caro ragazzo”.

“Mi dispiace, non ci sarò”.

Adriano mi guardò a lungo con i suoi occhi scuri capaci di leggermi l'animo, poi rise.

“Sei geloso di lui, forse?” chiese. La mia faccia prese fuoco.

“No” risposi fin troppo in fretta, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime.

“In questo caso non c'è di che essere gelosi, sai”.

“Non sono geloso”.

“Perché tu sei importante per me”.

“Non sono geloso, ho detto”.

“E ti voglio bene quanto ne voglio a Paolina, tengo tantissimo a te”.

“Non sono geloso!”

“Ti amo”.

Questa volta rimasi zitto, a bocca aperta come la prima volta in cui l'avevo incontrato.

“Come?” sussurrai infine, senza capire “Ma voi vi siete invaghito di quel Loras, io non conto più nulla per voi, lo so bene. Siete tutto per me, tutto il mio mondo, ma io sono unicamente il vostro allievo, un fratellino minore, non potrebbe essere diversamente”.

“Hai mai sentito parlare di Teognide?” chiese lui a voce molto bassa.

“Sì” dissi, confuso. Non sapevo dove volesse arrivare, cosa c'entrava uno scrittore di elegie sul simposio della Grecia arcaica con me e la mia disperazione? Adriano però non poteva aver scelto uno scrittore di elegie a caso, no di certo, perciò cercai di pensare più a fondo al suo personaggio, alle elegie d'amore, a quelle morali e...Cirno. Teognide aveva una storia col suo allievo preferito.

“Io sono per voi...” iniziai. Lui annuì.

“Proprio così, Lucilio, tu sei il mio Cirno” ammise. Avvicinò il suo viso al mio e mi baciò.

 

 

 

III

 

 

Dopo quel giorno scoprii di poter amare Adriano in maniera più estroversa rispetto alla sola venerazione platonica, e non esitai mai a farlo. Nelle lettere che spedivo di tanto in tanto alla mia famiglia mi limitai a minimizzare il nostro rapporto come “abbastanza vicino”, nessuno di loro avrebbe mai potuto capire, persino io a volte mi chiedevo se fosse una cosa possibile o solamente uno splendido, duraturo sogno frutto della mia fantasia. Ma non lo era. Ero felice, veramente e assolutamente felice, e nella rassicurante fiducia della gioventù credevo lo sarei stato per sempre.

Un giorno ricevetti una lettera di mia sorella che mi chiedeva, idea di mio padre, di sfruttare la mia influenza sull'imperatore per proporre un matrimonio tra i due. Alla mia obiezione sul fatto che Adriano fosse già sposato da ormai quasi vent'anni, lei mi rispose che Vibia Sabina era ormai decrepita, avendo solo dieci anni in meno di lui, e che invece lei ne aveva solamente diciannove. Io replicai che secondo me aveva poco senso ripudiare una moglie che conosceva e apprezzava da tempo, nonostante non le facesse da marito, per prenderne una molto più giovane che non avrebbe considerato nemmeno, ma quando lei mi scrisse che se poteva andare a letto con me che di anni ne avevo diciotto lei gli sarebbe andata benissimo, mi arrabbiai così tanto che non risposi più e la volta in cui ripresi i contatti con la mia famiglia fu svariati anni dopo, tornati nella capitale. In quel lasso di tempo non sentii mai la loro mancanza.

Viaggiare fu bellissimo, la mia vita era una perenne vacanza costellata da insegnamenti sempre preziosi e graditi della persona che più amavo e veneravo. Quando compii vent'anni andammo in Asia Minore, prima ad Afrodisia poi in città limitrofe come Efeso o Mileto.

L'anno dopo avrebbe cambiato le sorti mie, di Adriano e in parte di tutto l'impero, ma quando giungemmo a Pergamo, città regalata in eredità a Roma dall'ultimo sovrano ellenistico Attalo III oltre due secoli e mezzo prima del nostro arrivo, nulla mi fece prevedere qualcosa. Si trattava per me dell'ennesimo posto in cui comportarmi da favorito dell'imperatore e fare il turista, di cui ammirare paesaggi e arte, pavoneggiarmi, presenziare a cerimonie e conoscere persone.

Fu durante una visita ufficiosa che incontrammo lui. Adriano, dopo aver ispezionato le sedi della tanto odiata quanto efficiente burocrazia pergamena, nonché centro di tutta l'amministrazione della provincia d'Asia, volle rifarsi gli occhi gironzolando tra le officine di scultura della zona. Lui era lì, bellissimo, indorato come una statua di bronzo, con una corona di spighe di grano sui capelli d'oro, il fisico magro ornato solo da un panneggio che lo lasciava scoperto per metà. Lo scultore, perso nella propria opera, impiegò un momento ad accorgersi di chi avesse davanti, poi, sobbalzando, lasciò cadere gli utensili e si inchinò davanti all'imperatore.

“Non c'è alcun bisogno di prostrarsi” ribatté amabilmente quest'ultimo, sorridendo. Io lo guardai, e notai la meraviglia nei suoi occhi mentre rivolgeva lo sguardo al ragazzo che faceva da modello sopra una scaletta, il quale, sentendosi osservato, cercò di coprirsi un po' di più.

“Saluta l'imperatore, maleducato!” lo apostrofò l'artista a mezza voce. Il giovane, palesemente spiazzato, si inchinò frettolosamente a sua volta, facendo cadere a terra la corona di spighe. Adriano si chinò per raccoglierla e gliela porse. Non mi fece né caldo né freddo, sarò sincero, ma non potrò mai dimenticare il sorriso che il ragazzo gli rivolse quando l'imperatore in persona lo incoronò.

“Come ti chiami?” chiese questi.

“Antinoo” rispose lui, con tono fermo. Ripensai alla timidezza con cui mi ero presentato nella vita di Adriano e fui un po' irritato a quel ricordo così poco temerario.

“E quanti anni hai, Antinoo?”

“Oggi tredici, Augusto”.

“Per Giove, è il tuo compleanno?”

“Sì, signore”.

“Beh, tanti auguri, mio giovane festeggiato. Gaio caro, fagli gli auguri”.

“Tanti auguri” dissi senza troppo entusiasmo. Adriano sembrò non notare la mia impazienza.

“Da dove vieni, mio fortunato giovane?” continuò anzi “Sei di Pergamo?”

“No, signore, sono nato in Bitinia” rispose lui, con sempre maggiore sicurezza.

“La Bitinia! Che posto meraviglioso, ti ci devo proprio portare, Gaio!”

Io annuii, nonostante lui non mi stesse badando assolutamente. Volevo andarmene, smettere di subire l'innocente fascino magnetico di quel ragazzo, e soprattutto privarne Adriano, che invece oramai sembrava come incantato da una qualche fattura.

“Questa sera ti vorrei alla mia cena, Antinoo” disse dopo un attimo “ovviamente con il consenso dei tuoi genitori, posso parlare con loro?”

“Mia madre è rimasta in Bitinia, mio padre è morto tre anni fa” replicò il giovane “ha servito il vostro, l'imperatore Traiano, per combattere i barbari Parti”.

A questa notizia Adriano andò in visibilio, credo l'avesse interpretato come un segno divino, sebbene lui, proprio come il suo predecessore, agli dèi credesse relativamente poco. Posò una mano sull'esile braccio di Antinoo, sporcandosi di polvere dorata,

“Perciò sarà un vero onore averti stasera” ripropose “verrai?”

Lui annuì e sorrise senza scoprire i denti, ma di un sorriso che brillò nei suoi occhi verdi e di cui tuttavia non capii la portata, almeno non subito. Mi schiarii la voce, per richiamare l'attenzione.

“Forse dovremmo andare, ora” dissi “vi staranno aspettando a palazzo, mio Augusto”.

Il mio adorato imperatore sospirò piano, dunque si voltò verso di me.

“Hai ragione, andiamo” concordò con voce piatta. Gli sorrisi, ma lui non ricambiò. Anzi, mi passò accanto come non ci fossi, per voltarsi un'ultima volta a salutare con la mano prima di uscire.

 

Sottovalutai molto quel ragazzo, lo ammetto, ma non ci misi troppo a comprendere che stava a me ricordare al mio amato quale fosse la cosa più importante che aveva, cioè io. Avevo nemmeno ventuno anni, allora, ero nel fiore della vita, e quella sera, lo dico senza modestia alcuna, nessuno poteva pareggiare la mia bellezza. Ero un dio.

Mi presentai volutamente in ritardo, così che la mia entrata in scena fosse notata davvero da tutti quanti, ma ignorai i commenti e le lusinghe di chi mi si avvicinava andando diretto verso il mio obiettivo, sdraiato comodamente accanto a... Per Ercole! Lui era lì, e, per quanto sul momento, dopo essermelo ripetuto innumerevoli volte, riuscii a convincermi del contrario, era più bello di me. Senza quella pesante coltre d'oro a nasconderla, la sua pelle bianchissima riluceva alla tremula luce delle varie torce, risaltata dalla tunica verde come i suoi occhi, grandissimi, contornati da lunghe e voluttuose ciglia di un castano chiaro come i suoi folti capelli ricci. In lui si percepiva la perfetta sintesi fra la più tenera e limpida giovinezza, benché di anni ne dimostrasse di più, e un atteggiamento computo di chi è ben consapevole del proprio valore e dell'ascendente che si possa esercitare.

Rimasi un bel po' a guardare lo scambio di battute tra Antinoo e Adriano, prima di essere a mia volta notato. L'imperatore si alzò e venne ad abbracciarmi.

“Una stella in cielo non avrebbe potuto risultare più fulgida, mio caro” mi disse.

“Parlate di me o di lui?” sibilai. Lui si incupì.

“Non osare troppo, Lucilio” mi avvertì. Il non avermi chiamato Gaio mi ferì tremendamente.

“Venite a sedervi con noi” propose Antinoo, indicando un posto vicino a sé.

Annuii e fece come mi aveva detto. Adriano ci guardò quasi commosso.

“Le mie due gioie assieme” commentò “potrei mai desiderare di più dalla vita?”

Quella frase iniziò a tormentarmi nel mentre stesso in cui veniva pronunciata e non mi lasciò andare per il resto della serata. Partecipai passivamente al discorso intavolato fra loro due, non ricordo neppure l'argomento, pensando e ripensando invece a quell'appellativo, gioie, che ora mi trovavo a condividere con Antinoo. Adriano mi conosceva da anni, mi aveva cresciuto lui, poteva capitare che scordasse quanto fossi importante e passasse del tempo con qualcun altro, ma tornava sempre da me, io ero ed ero sempre stato la sua unica e più grande gioia. Che cosa aveva lui? Non lo conosceva che da un giorno, avrebbe potuto essere chiunque. Mi maledissi per essere arrivato tardi, avevo voluto strafare e quel ragazzetto, sveglio com'era, ne aveva approfittato.

Bevvi molto, quella sera, moltissimo. Il vino e l'amarezza mi spinsero a cercare consolazione in uno schiavo qualunque, non credo di avergli neanche chiesto il suo nome, che portai nelle mie stanze e con il quale passai la notte. Il mattino dopo ero a pezzi. Rimasi a letto per tutta la mattinata, nudo com'ero, mentre la stanza si inondava di luce, a pensare. Pensavo a cos'era accaduto la sera prima, ma soprattutto a cosa stava accadendo in quel preciso istante, chissà dove, in mia assenza. Quel subdolo Antinoo si stava lavorando l'imperatore, era chiaro, e solamente io potevo impedirlo, ciò mi era ancora più chiaro, ma già la semplice idea di doverlo fare mi faceva male. E mi faceva male perché in lui vedevo il ragazzo che ero stato io, e negli occhi di Adriano quell'affetto che aveva da anni rivolto soltanto a me e che non sopportavo di dover condividere.

Alla fine, non sapendo che fare, non feci nulla. Restai l'intero giorno per conto mio, vagando senza meta nella villa, finché, ormai a sera tarda, non incontrai proprio lui, Antinoo.

“Ciao” salutò cordiale.

“Ciao” risposi con uno sbuffo, passando avanti.

“L'imperatore ha chiesto di voi, oggi” disse lui. Io mi fermai.

“Di me?” ripetei “Davvero?”

“Era preoccupato, pensava steste male”.

Mi voltai lentamente, un po' meno scontroso.

“Tu che ci fai qui?” chiesi “Lui dov'è?”

“Non so dove sia lui, ma io...beh, ha detto che non potevo continuare a dormire nella bottega dello scultore, con tutta quella polvere di gesso, e allora...”

“Veramente dormi lì dentro? Non ce l'hai una casa?”

“Io...no, signore.”

“Un parente che ti possa ospitare?”

“Nemmeno, signore. Mia madre è tutto ciò che ho”.

“Puoi chiamarmi Lucilio, signore risparmialo per Adriano”.

“Sì, va bene, grazie sign...Lucilio”.

Gli sorrisi e lui rispose allo stesso modo. Avevo speculato per ore su quel ragazzo e i suoi piani malvagi per sottrarmi l'uomo che amavo, ma una volta lì, davanti a me, ogni congettura cadde. Fu come guardarmi in uno specchio, solo di diversi anni prima, e fu devastante. Perché compresi che il punto forte di Antinoo non erano i raggiri o la civetteria, ma era lui.

“Allora speriamo tu ti possa trovare bene, qui” ripresi, lui annuì.

“L'imperatore è molto buono, mi ha detto che d'ora in poi non dovrò preoccuparmi di nulla, che penserà lui a me. Vedete, mia madre mi ha mandato qui perché a casa, con lei, non avrei avuto futuro, nessuna prospettiva di vita onesta. Ma l'imperatore dice che a Roma...”

“Roma? Cosa c'entra Roma?”

“È lì che vivete, no? Il mio latino non è fortissimo, ma me la cavo e...”

“Ma noi non stiamo tornando a Roma”.

Fu un duro colpo per Antinoo, che ci rimase vistosamente male, eppure mai quanto lo fu per me la frase che lui pronunciò subito dopo:

“Però me l'ha promesso”.

Cercai di prendere un profondo respiro, senza riuscirci bene.

“Ora andrò a chiedergli come stanno le cose” stabilii, lapidario “e poi vedremo”.

Quindi mi incamminai verso le stanze di Adriano, lasciando lì impalato in mezzo al corridoio lastricato di marmo il confuso Antinoo.

 

 

 

IV

 

 

Trovai Adriano intento a scrivere, tanto che quando feci per parlare mi zittì con un gesto. Così attesi che finisse, mentre il ribollire della collera aumentava, finché non mi guardò.

“Va tutto bene, mio caro?” chiese “Non ti ho visto, oggi, pensavo...”

“Da quando torniamo a Roma?” lo interruppi. Lui alzò gli occhi al cielo e si alzò.

“Non è una cosa che ho deciso all'improvviso” si giustificò.

“Ah, certo, la pensavate da così a lungo che la prima persona cui l'avete detto è un ragazzo che conoscete da appena un giorno. E dovrei credervi? É perché lo volete portare a Roma con voi?”

“Paolina sta male, Gaio”.

L'ira evaporò tutta insieme, sopraffatta dalla sorpresa.

“Che cos'ha?”

“I medici non lo sanno, ma la sua salute è instabile. Dobbiamo tornare”.

“Sì, ma...perché non me l'avete detto?”

“Ho ricevuto stamane una sua lettera, tu non c'eri. Si può sapere dov'eri?”

“Nelle mie stanze, non mi sentivo troppo bene”.

“Beh allora non osare farmi queste scenate”.

Fui sul punto di andarmene, ma qualcosa mi spinse a continuare.

“Una volta a Roma lo lascerete per la sua strada, vero?” chiesi. Lui capì cosa intendevo.

“É solamente un giovane che ha bisogno di aiuto, Gaio” disse.

“Non avete risposto alla mia domanda”.

“Allora chiediti per quale motivo”.

Rimasi senza parole. Era sempre così, fra noi, bastava un commento a pugnalarmi al cuore.

“Vi siete stancato di me? Sono troppo vecchio?”

“Gaio, non dire fesserie, sei un carissimo ragazzo, il mio carissimo ragazzo e...”

“Capisco che Antinoo abbia bisogno del vostro aiuto, ma non siete in obbligo. Potreste sempre aiutarlo qui, con sua madre, ricucire quel che rimane della sua famiglia, non è pronto per...”

“Quello che dici ha senso, ma non posso ascoltarti oltre”.

“Perché no? Perché ho ragione?”

“Ora basta, non costringermi a farti buttare fuori di qui”.

“In effetti gli spazi si restringono, visto che adesso abita anche lui con noi”.

“Lucilio, vattene”.

Cercai di sostenere il suo sguardo offeso e fermo, ma ben presto abbassai gli occhi e annuii. Mi aspettavo si scusasse, come sempre, poi mi resi conto che quella volta non l'avrebbe fatto.

“Non vi merita, non è nessuno” conclusi “io sì”.

Quindi uscii.

 

Fu un dicembre mite, ma lo ricordo come il primo dei mesi peggiori della mia vita. Sapevo che stare solo mi avrebbe ucciso, perciò mi costringevo a fare il terzo incomodo tra l'uomo che amavo e la sua giovanissima fiamma pressoché tutti i giorni. Non sapevo bene cosa sarebbe stato peggio, se rimanere lì ad avvelenarmi l'anima di gelosia o tornare a casa, da quei parenti con cui avevo già da tempo tagliato tutti i ponti e che certo non morivano dalla voglia di riabbracciarmi.

La cosa peggiore di tutte, però, fu che anch'io mi affezionai ad Antinoo. Era un ragazzo in cui la sensibilità e il giudizio greci si univano armoniosamente con la raffinatezza e l'eccesso asiatici, e Adriano lo adorava. Lo guardava come a suo tempo io avevo guardato lui, ammirava la sua non ordinaria bellezza come non potesse farne a meno, e non riusciva a staccarglisi di dosso nemmeno un momento, sentiva il bisogno di toccargli il braccio, sistemargli i capelli. Stargli lontano era per lui un qualcosa di estremamente doloroso, quasi mancasse una parte di sé cui nel profondo bramava di ricongiungersi, anche solo sfiorandolo con un dito. E tutto questo lo capivo, perché era ciò che provavo, e avevo sempre provato, io per lui.

Per fortuna ci giunse notizia che le condizioni di Paolina si erano stabilizzate, per cui fu deciso di partire alcuni mesi dopo, sfruttando un periodo di mare tranquillo. Una sera di qualche giorno prima la fatidica partenza, però, Adriano mi convocò da lui.

“Sei pronto per tornare?” mi chiese, con un sorriso. Sentii gli occhi diventare lucidi.

“Perché me lo chiedete?” mormorai mesto. Lui mi si avvicinò.

“É per la tua famiglia, vero?”

“Lasciate stare, non potrete salvarmi da loro per tutta la vita”.

Adriano mi prese il viso fra le mani, come non faceva che con il solo Antinoo, ormai.

“Mi ferirebbe moltissimo perderti, ma se vuoi restare non mi opporrò” disse.

Il mio già debole autocontrollo cedette.

“Vi state liberando di me!” gridai, impazzito, staccandomi le sue mani di dosso.

“Cosa? No no, certo che no” rispose lui, riuscendo a sembrare addirittura sorpreso.

“Io, che vi ho sempre considerato alla stregua del sole, per me” continuai, con voce rotta.

“Non voglio liberarmi di te, Gaio, cosa stai dicendo?”

“Tutta la mia vita l'ho dedicata a voi, e ora mi state rimpiazzando e volete abbandonarmi come fece Teseo con Arianna. Ma non ci sarà nessun Bacco a salvarmi, io ne morirei!”

“Gaio, non ti sto abbandonando, nessuno vuole vederti felice più di me, credimi”.

Mi abbracciò e, dopo aver tentato una blanda resistenza, lasciai che la sua spalla accogliesse le mie lacrime. Mi accarezzò i capelli e mi tenne stretto a sé finché non mi calmai.

“Sei l'unica cosa buona che Roma abbia mai prodotto, Gaio caro” disse allora “tu e Paolina ora siete la mia famiglia, non potrei vivere senza di voi. Non voglio perderti, se è questo che temi, ma c'è una cosa che devo chiederti, una cosa che non ti farà piacere”.

Con il dorso della mano mi asciugai gli occhi e feci un passo indietro per guardarlo dritto negli occhi. Non serviva specificare, sapevo già quale fosse l'argomento che gli premeva.

“Forse è davvero meglio abbandonarmi qui, piuttosto che farmi questo” biascicai, tetro.

Lui ebbe il cuore di lasciarmi riprendere prima di rispondere.

“Non ti sto rimpiazzando, Gaio” disse infine “e soprattutto voglio che tu non dia la colpa a te stesso. Ti amo ancora, continuerò sempre a farlo, ma in un modo diverso. Non mi aspetto che tu capisca la differenza, né tanto meno che tu capisca me, perché sei giovane e...”

“Esatto, io sono giovane. Sono il vostro giovane allievo, il vostro adepto. Lui invece che cos'è, Publio? E che cosa può sembrare da fuori, secondo voi?”

“Quello che si pensa su di me non ha valore”.

“Invece sì, e tanto. Siete la persona più importante dell'impero, gli occhi del mondo sono puntati costantemente su di voi e chi vi circonda. Hanno accusato me di voler essere il vostro successore, scavalcare i diritti di nascita e ingannarvi, pensate che cosa ne sarà di lui. È piccolo, questo non lo potete negare, e se difficilmente hanno accettato me per il mio basso profilo figuratevi che cosa potrebbero riversare su di lui. Lo faranno a pezzi. È carino, ma ha appena tredici anni...”

“Ossia quanti ne avevi tu, Gaio!”

“Veramente ne avevo quindici, e voi meno di ora”.

“La cosa non mi interessa, Antinoo per me è...”

“Potreste essere suo padre, accidenti, perché non lo capite?!”

Adriano non replicò alla mia accusa sbottata con foga, si sedette sul bordo del proprio tavolo e si coprì gli occhi con una mano, riflettendo. L'avevo colpito dove faceva più male, e non era stata una scelta casuale. È questo il problema di un amore tradito, il nostro nemico ha nel proprio arsenale le armi peggiori che possa usare contro di noi, e più lo facciamo soffrire più sarà terribile la punizione che vorrà infliggerci. Ma io lo amavo, lo amavo con tutto l'ardore di cui un ventenne dispone, e mi resi subito conto di quanto a fondo mi fossi spinto.

“Ci tenete davvero a lui” realizzai. Lui annuì piano.

“Gaio, io ti vorrò sempre bene, e so quanto me ne vuoi tu” disse “per questo ti chiedo di essere sincero e obiettivo con me. Io non voglio separarmi da lui, non posso, ma se mi dirai che questo comporterà mettere a rischio la sicurezza mia, dei miei cari o del mio ruolo, lo lascerò andare. Gli dirò che non posso mantenere la mia promessa, e lui rimarrà qui”.

Mi rivolse i suoi occhi scuri velati di lacrime, in cui lessi la risposta che dovevo dare.

“Una volta vi ho detto che non vi meritava” iniziai.

“Perciò dovrei dimenticarlo” concluse lui frettolosamente. Scossi piano la testa.

“Non vi merita, certo” ripetei “è un ragazzino, il suo latino ha una cadenza terribile, ma vi rende felice. E non c'è miglior imperatore di un uomo felice. Fate di lui il vostro Cirno”.

Lui asciugò una lacrima caduta dai miei occhi e senza dire nulla mi abbracciò forte.

 

 

 

V

 

 

Sono fiero di quella conversazione. Era la cosa giusta da fare, in fondo, e anche se in seguito ci furono momenti in cui me ne pentii molto, credo lo rifarei ancora. Ho plasmato la storia, nonostante non lo sappia nessuno, e l'ho fatto tenendo conto della felicità di altri a discapito della mia.

Era l’878 quando arrivammo a Roma. Antinoo era estasiato, e Adriano, non appena risolse le faccende sospese in senato e a corte, lo scarrozzò ovunque per mostrargli la città.

Andai a trovare Paolina, che mi salutò con gran calore.

“Ti trovo bene, Gaio, sei cresciuto talmente tanto!” commentò vedendomi.

“Beh sì, in effetti è passato un bel po' di tempo” concordai. Lei mi fece cenno di sedermi al suo fianco ed io feci come mi aveva suggerito. Una schiava mi offrì del vino.

“Com'è viaggiare? Ti è piaciuto?” riprese Paolina, bevendo a piccoli sorsi dal suo calice.

“Moltissimo, non vedo l'ora di rifarlo. Anzi, se potessi ripartirei anche subito”.

L'ultima parte non era affatto vera, sapevo che qualunque viaggio, in quel periodo, non avrebbe fatto che acuire il dolore che l'essere dimenticato mi provocava, perché mi avrebbe ricordato ogni momento del passato, quel passato che ancora non riuscivo ad accettare fosse perduto.

“Quanto ti capisco” disse Paolina “è forse l'unico modo per sfuggire ai problemi”.

“Già. Ma voi come state? Meglio, vedo”.

“Sì sì, grazie caro. Mi è bastato allontanarmi un po' dal caos della capitale e riposare”.

Rimanemmo in silenzio per un lasso di tempo che mi parve infinito, poi lei sospirò.

“Dove l'ha trovato?” chiese. Non domandai di chi parlasse.

“A Pergamo” risposi. Lei annuì come le fosse tutto chiaro.

“Ed è greco, però”.

“Viene dalla Bitinia”.

“Capisco. È molto bello, ma...giovane”.

“Lo so, lo so perfettamente”.

“Tu come stai? Immagino non sia stato facile...lasciarlo andare”.

“Io sto bene, davvero”.

“Se dovessi avere bisogno di qualcosa...”

“Paolina, sto bene”.

“D'accordo. E la tua famiglia?”

“Non l'ho ancora incontrata. Dormo da un amico”.

“Oh. Pensi di farlo a breve oppure...?”

“Fosse per me li eviterei per sempre, ma so che non è possibile. Vedrò”.

Seguirono alcuni temi di convenzione, qualche battuta, quindi salutai e me ne andai.

 

Cercai di evitare la vita per mesi, fuggendo tutte le cerimonie pubbliche per non incontrare l'imperatore, sua sorella e il suo nuovo favorito, e i luoghi pubblici per non rischiare di incappare in un membro della mia famiglia, ma alla fine fu la vita a trovare me. Vivevo da un ragazzo che avevo conosciuto per caso e che dicevo di amare pur senza convinzione, e un brutto giorno, uscendo da casa, trovai mio padre. Il quale, dandomi nemmeno il tempo di pensare a qualcosa da dire, mi stese con un pugno in pieno volto e mi fece portare a casa una volta svenuto. Aveva fatto la guerra, lui, sapeva come stendere un uomo. Specie se quell'uomo era suo figlio.

“Ti abbiamo cercato ovunque” mi abbaiò quando mi svegliai “sapevamo che eri qui, era logico che saresti tornato una volta tornato l'imperatore. Perché non sei con lui? Ti ha scaricato perché sei troppo vecchio? Non vai più bene, ora che ha cinquant’anni?”

“Mi dispiace per Pompea, se è questo che vuoi sentirti dire” biascicai “Adriano non l'avrebbe sposata mai nella vita. Anche perché, a quanto so, Vibia è una meraviglia di moglie”.

“Sei la cosa peggiore che mi sia mai capitata nella vita, Gaio, la peggiore!”

“Allora perché non fai finta di niente e non mi lasci vivere? Fingi che io non faccia parte di questa famiglia, anzi che non sia mai esistito, giuro che manterrò un basso profilo”.

“Non posso, purtroppo, l’ho promesso a tua madre. Ma ho un'idea migliore”.

“Che cosa intendi?”

“Ho trovato uno scopo alla tua futile esistenza”.

“Io non farò nulla per voi, ti conviene stendermi di nuovo e vendermi a qualche lanista”.

“Giove, perché devi fare una tragedia per tutto? Rilassati e ringraziami per averti combinato un bel matrimonio, piuttosto, anche se forse l’idea del lanista non era poi tanto male”.

“Un...come? No, io non sposerò proprio nessuno”.

“E invece sì, ho già firmato. Ora che sei qui e non scapperai da nessuna parte possiamo decidere per la data, direi che la settimana prossima può andare bene”.

“Padre, ascoltami, io non...”

“Adesso ti ricordi chi sono? Bravo, ti servirà durante la cerimonia”.

Detto ciò se ne andò e solamente allora, quando lo vidi chiudere la porta a chiave, mi resi conto che mi avevano segregato nella dispensa, svuotata ad hoc per divenire la mia prigione.

 

Così mi sposai. Lei non era troppo male, col tempo imparai ad apprezzarla, ma non la amai mai, ancora oggi il nostro rimane un rapporto più tra vicini di casa che fra due coniugi. Eppure, dopo un paio d'anni mi diede un figlio e poi un altro, figli che riconobbi come miei nonostante avessi compiuto il mio dovere di marito solamente una volta, la notte delle nozze, e mai in seguito.

Rimasi vicino Roma per volere di lei, e feci della mia casa una fortezza da cui non uscire per nessuna ragione al mondo e, soprattutto, in cui non potesse entrare nulla di sgradito. Invece, come sempre succede quando la si vuole evitare, la vita mi raggiunse ugualmente e nel modo peggiore di tutte, ovvero tramite la persona che, subito dopo mio padre, volevo vedere di meno.

Bussò alla mia porta in un modo anonimo che non mi fece presagire nulla, e quando fu dinanzi a me sfoggiò un sorriso che i cinque anni passati non avevano che migliorato.

“Antinoo” dissi, con voce appena udibile “come hai fatto a trovarmi?”

“Ho chiesto ai tuoi familiari” rispose lui con semplicità “ti trovo bene”.

Lo guardai e non potei non paragonarlo a me. La gioia brillava nel suo gioioso viso di diciottenne sapientemente rasato, nei suoi occhi di smeraldo, nei suoi capelli che il sole faceva sembrare quasi ramati, in cui ogni singolo riccio era studiato ma non lo dava a vedere, proprio come io alla sua età avevo saputo essere. La perfezione, ecco cosa ci trovava in lui Adriano.

“E perché avresti chiesto ai miei familiari di me?” insistetti.

“Sono qui per conto di Publio” rispose lui, soppesando ogni parola “sarebbe voluto venire di persona, te lo assicuro, ma affari alla villa lo trattenevano”.

“Villa? Quale villa?”

“Qui sta il punto, caro Gaio. Sta costruendo una villa poco lontano da Roma, ed è un autentico splendore. Voleva assolutamente che tu la vedessi e gli dessi alcuni suggerimenti o almeno un tuo parere perché si fida solo di te, manda via metà architetti ogni giorno”.

“Non posso, mi dispiace”.

“Perché no? Se è per me non c'è problema, davvero”.

“Che cosa vuoi dire”.

“Io non capisco niente di tutto questo, per lui sono un modello per le statue con cui abbellire i giardini, ma non gli servo a nulla. Tu, invece, tu puoi fare la differenza”.

Le sue parole mi andarono dritte al cuore, e acquisirono una valenza particolare proprio perché era stato lui a pronunciarle. Lui chiedeva a me di tornare da Adriano. Disse anche qualcos'altro, mi pare, ma non stavo più ascoltando, non avrebbe potuto aggiungere cose più importanti.

“D'accordo” accettai finalmente. Lui lasciò a metà la frase che stava pronunciando.

“Ottimo, allora domani può andare?”

“No, partiamo subito”.

“Subito? Ma sei pronto, vieni via così?”

“Tu non preoccuparti, andiamo e basta”.

  
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