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Autore: holls    04/04/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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31. La prima volta

 

 

Jimmy era molto silenzioso. Eravamo entrambi seduti su un muretto adiacente a un cancello, lui accoccolato sulle mie gambe, intento a farle ondeggiare senza dire una parola. Era pomeriggio inoltrato e stavamo aspettando che nostra madre venisse a prenderlo, per riportarlo a casa dopo la scampagnata di tre giorni che avevamo fatto insieme.

            Erano stati giorni piuttosto allegri, che avevamo passato come due veri fratelli. L’esperienza che più era piaciuta a Jimmy era stata quando eravamo andati allo stagno delle rane, dove, con grande sorpresa di entrambi, avevamo trovato un’enorme quantità di girini con la testa ancora tonda e nessun segno di zampette nascenti. Jimmy aveva allora preso un ramoscello trovato nei paraggi, aveva smosso l’acqua e si era divertito a vedere il gruppo di girini fuggire via.

            Senza preavviso, poggiò le mani sul muretto e con una spinta saltò giù sul marciapiede. Mosse qualche passo e poi si fermò davanti al cancello, intento a guardare qualcosa. Scesi anch’io dal muretto e lo raggiunsi.

            Jimmy era intento a osservare una lunga catena di formiche che faceva avanti e indietro su per il muro ai lati del cancello. Seguii con lo sguardo il loro percorso, dall’alto al basso, finché non le vidi scomparire in una crepa sul muro, per poi uscire dallo stesso punto. Mi accovacciai all’altezza di Jimmy e notai che seguiva il flusso di formiche con molto interesse.

            «Ehi, vuoi vedere una cosa?»

            Si voltò verso di me e annuì. Alzai un dito e rimasi in attesa di un momento in cui il percorso delle formiche rimaneva libero per qualche secondo. Posai rapidamente il dito sulla porzione di muro individuata e cominciai a strofinare.

            «Che stai facendo?»

            Indicai il muro col mento.

«Guarda.»

Il flusso di formiche si divise in due proprio nel punto in cui avevo strofinato. Quelle che arrivavano nella zona tornavano indietro, come se non fosse mai esistito un collegamento tra i due gruppi. Bastarono pochi secondi per far sì però che una formica tentasse di attraversare la zona strofinata e si ricongiungesse all’altro gruppo, poi due, poi tre, finché il flusso di formiche non tornò continuo, dall’alto al basso e viceversa.

Jimmy non disse niente; alzò il dito, aspettò di trovare un punto libero sul muro percorso dalle formiche e strofinò. Lo spettacolo si ripeté e il viso di Jimmy si aprì in un sorriso. Poi si voltò verso di me per assicurarsi che avessi visto tutto.

«Guarda! Non riescono più a trovare la strada!»

L’idea di avere potere sul tragitto delle formiche sembrava eccitarlo, così glielo guardai fare altre tre o quattro volte, finché non si fu stancato. Io nel frattempo mi ero rimesso in piedi accanto a lui.

«Ma perché poi le formiche non sanno più dove andare?»

«Be’, è un po’ come Hansel e Gretel, hai presente?» Jimmy annuì. «Loro lasciavano sassolini ovunque andavano in modo da ritrovare la via di casa, e le formiche in un certo senso fanno lo stesso, lasciando feromoni sul muro.»

«Cosa vuol dire ‘feromoni’?»

«Sono tipo delle tracce invisibili lasciate da alcuni animali e seguite da altri della stessa specie per ritrovare la via. Quindi se tu fai così...» e avvicinai il dito al muro, per poi strofinare poco dopo, «… cancelli la traccia di feromoni e le formiche non sanno più dove andare. Un po’ come se qualcuno rubasse i sassolini di Hansel e Gretel.»

Dall’espressione che Jimmy aveva sul volto ritenni che la spiegazione lo aveva affascinato, pertanto lo guardai osservare a bocca aperta la scia di formiche che andava e veniva.

A distrarmi fu un rombo di motore che ritenni familiare; e infatti mi bastò alzare lo sguardo per notare la Ford Focus rossa bordeaux di mia madre. Parcheggiò davanti al muretto alla bell’e meglio, senza troppe manovre e col muso di sbieco verso il marciapiede. Scese dall’auto e qualcosa dentro di me si mosse. Spostai lo sguardo verso Jimmy, che corse subito verso nostra madre non appena si fu voltato.

«Mamma, guarda!», esclamò, per poi tirarla per un braccio verso il muretto. «Guarda, guarda!»

Jimmy si divertì nuovamente a strusciare il dito sul muretto. Io sorrisi e alzai lo sguardo verso mia madre, e lei fece altrettanto; in sottofondo c’era solo il fruscio del dito di mio fratello che scorreva e qualche suo risolino eccitato.

La stretta che mi aveva colto poco prima divenne chiara e il senso di colpa mi divorò. Avrei lasciato mia madre, ma soprattutto mio fratello. Forse poteva essere l’ultima volta che davamo fastidio alle formiche insieme, perché mio fratello sarebbe cresciuto e io non avrei potuto riportare indietro le lancette del tempo. Probabilmente avrei fatto ritorno prima o poi, ma lui sarebbe stato lì ad aspettarmi?

Mi tornò in mente Ryan, quello che avevo fatto con lui… e che stavo facendo, senza volere, anche in quel momento.

E nel vedere mia madre e mio fratello insieme mi resi conto che non era solo quello, no; sarebbero diventati realmente la famiglia di tre persone che avevo sempre visto, e stavolta per causa mia.

«Quando lo rifacciamo, Naty?»

I suoi occhioni mi fissavano, con un sorriso sulle labbra che temevo sarebbe sfiorito di lì a poco. E quindi, mentii.

«Presto, Jimmy, presto.»

Gli scompigliai i capelli e lui strizzò gli occhi, contento; e io mi sentii un verme nel sapere che gli stavo dicendo una bugia, perché quel momento non sarebbe arrivato.

 

Avevo lasciato che mia madre riportasse a casa Jimmy senza dire più del necessario. Non appena la Ford Focus fu ripartita, provai a resistere all’impulso di guardare l’ora. Tentai di fare due passi, ma la verità è che non riuscivo a distogliere lo sguardo da quelle formiche. Mentre le guardavo immaginavo Jimmy ancora lì, accanto a me; e quando non ce la feci più e guardai l’ora, mi dissi che sarei potuto rimanere con lui ancora un po’, perché erano giusto le cinque passate, e che avevo mai di così importante da fare per non stare ancora con lui?

            Ma sapevo che era ingiusto pensarla così, ingiusto nei miei stessi confronti. Avevo l’opportunità di ricominciare e di rimettere a posto i tasselli della mia vita, per una volta di incastrarli come dicevo io. Non potevo perdere un’opportunità del genere, e me lo ripetei per altri cinque minuti prima di trovare una sorta di equilibrio che non mi facesse riannegare nei sensi di colpa.

            E inevitabilmente il mio pensiero volò ad Alan e mi domandai cosa stesse facendo in quel momento. Negli ultimi giorni avevo pensato molto a cosa fosse più giusto nei suoi confronti; avevo voglia di passare del tempo con lui prima della festa ufficiale, ma non ero sicuro che lui volesse altrettanto. Così mi ritrovai a ciondolare in giro per la città, a passare accanto alle persone e alle vetrine, a guardare tutto e niente.

 

Arrivai al Royale, il locale che avevo scelto per un aperitivo, verso le diciotto, mezz’ora prima dell’appuntamento ufficiale con gli altri. Non sapevo perché fossi arrivato così presto, o forse sì; sotto sotto speravo di trovare Alan ad aspettarmi, magari perché dispiaciuto della mia partenza e desideroso a tutti i costi di passare con me più tempo del previsto.

            Forse per quel motivo avevo scelto un abbigliamento che non avrei definito “da appuntamento”, ma che era un pochino sopra a quello che avrei indossato per un’uscita informale tra amici. Quindi avevo tirato fuori dall’armadio un pullover bianco leggero, che avevo messo sopra a una maglietta, e i pantaloni a sigaretta, quelli che mi avevano fatto guadagnare a suo tempo una sbirciata al fondoschiena da parte di Alan. Sperai che non si notasse troppo che mi ero, per così dire, infiocchettato più del solito, anche se con ogni probabilità nessuno ci avrebbe fatto troppo caso.

            Mi guardai intorno, poi buttai un’occhiata all’altro lato della strada, ma niente: ero solo. Per scrupolo controllai ancora, a destra e a sinistra; e siccome il locale faceva angolo con la Decima, mi affacciai per vedere se per caso Alan stesse per arrivare dall’altra strada. Un sospiro deluso mi svuotò di ogni aspettativa, così tornai indietro e mi fermai davanti a una vetrina di liquori accanto al locale. Diedi una sbirciata al tizio dietro al bancone e non mi ispirò tanta più fiducia di Winston delle sigarette, quindi mi infilai le mani nelle tasche del giacchetto e pensai che fare su e giù davanti al locale fosse il modo migliore per ingannare l’attesa.

A ogni passo sbuffavo e a ogni dietrofront guardavo l’ora; poi cominciai a farlo tutte le volte che passavo dal negozio di liquori, per resistere a quella tentazione di guardare dentro che suscita ogni vetrina. E dopo che ebbi fatto avanti e indietro almeno una ventina di volte, mi infilai la mano nella tasca dei pantaloni e sfilai una Marlboro. Non appena l’accesi e aspirai, mi fermai all’improvviso e fui invaso da una sensazione di pace interiore, e sperai che i dieci minuti successivi fossero migliori di quelli appena passati.

Nel frattempo continuavo a sbirciare, talvolta in punta di piedi e con la testa allungata, ma non c’era traccia, ancora, dei quattro invitati. Feci un altro tiro e buttai fuori il fumo, poi osservai la strada in cerca di un’auto o una targa familiare, ma tutto ciò che vedevo era l’ammasso informe di persone che andava e veniva a suon di “Permesso” e “Mi scusi”.

Aspirai ancora la sigaretta e notai che era già consumata a metà - erano passati altri cinque minuti -, e intanto cominciai a molleggiarmi su una gamba perché stavo diventando impaziente. Pensieri catastrofici cominciarono a sfrecciarmi nella mente: forse se ne erano dimenticati? Avevano sbagliato giorno? Sbagliato l’ora?

Rizzai il mento al cielo e sospirai, perché sapevo che almeno Alan se ne sarebbe ricordato. Giusto? A meno che non fosse stato catturato da un momento di sconforto e avesse deciso di non presentarsi, forse per evitare lo strazio di salutarci prima della mia partenza.

Già.

In effetti era un’ipotesi che aveva il suo perché. E senza Alan probabilmente non sarebbe arrivato neanche Ash; giusto giusto Nelly e Molly perché con loro c’era un legame diverso, senza quelle stupide frasi non dette e sentimenti lasciati a metà. Ah!

Altro tiro di sigaretta e altro minuto passato, e tutta la speranza che avevo riposto in un incontro anticipato con Alan cominciò a dissolversi più velocemente del fumo nell’aria, insieme a una serie di fantasie su un suo atteggiamento più rilassato e spontaneo per via della fine delle indagini.

A quel punto la diedi vinta all’ansia e feci un altro tiro; espirai con un soffio secco, mentre ancora una volta allungai il collo in cerca di qualcuno e–

«Bu.»

Sobbalzai e mi girai di scatto. Ci mancò poco che non mi mettessi a gridare, ma per fortuna mi trattenni. Lì davanti a me c’era l’ultima persona da cui mi sarei aspettato uno scherzo così tanto simpatico.

«Scemo! Mi hai fatto prendere un colpo.»

Alan. Sempre con la camicia nei pantaloni e i polsini chiusi, con quel tocco di formalità che si portava sempre appresso, eppure emanava una strana aura, a cominciare da quello scherzetto che non era proprio da lui, quantomeno per l’Alan che avevo conosciuto fino a quel momento. Feci l’ultimo tiro a quella sigaretta ormai consumata e notai che mi stava guardando; ma non appena incrociai il suo sguardo, lui ritirò subito il suo e lo spostò altrove. Schiacciai la sigaretta sul posacenere accanto al locale, poi tornai da lui, che mi seguì con gli occhi finché non gli fui proprio davanti.

C’era qualcosa di diverso nel suo sguardo, una sorta di rilassamento che non gli avevo mai visto, preso com’era sempre da Oliver o dall’indagine o da chicchessia. Sembrava sereno e quell’impressione fu confermata quando le sue labbra si piegarono in un sorriso accennato.

«Scusa, mi sarebbe piaciuto arrivare un po’ prima, ma…», e con la coda dell’occhio lo vidi giocare con le dita, «… ho fatto tardi. Mi dispiace.»

Rimandai indietro nella testa la scena appena vissuta. Era imbarazzo quello che scorgevo nei suoi occhi e in quel suo giocherellare? E non l’imbarazzo di chi non sa cosa dire, ma quello di chi vorrebbe dire troppo ma si trattiene. Era strano vederlo senza la sua maschera professionale, forse l’unica cosa che lo aveva aiutato, in quei due mesi, a mantenere una certa distanza con me. E in quel momento c’era qualcosa che lo rendeva nervoso e non ero sicuro che fosse il fatto che stessi per partire.

Forse voleva solo rompere il ghiaccio e non sapeva come farlo, quindi provai a fare di testa mia per risolvere la situazione. Mi sporsi verso di lui e gli misi le braccia intorno al collo, un abbraccio che lui ricambiò subito avvolgendo tutto il mio corpo con le sue braccia e tirandomi a sé stringendo appena.

Non era la prima volta che ci abbracciavamo, ma era senz’altro la prima volta che sentivo il suo corpo così aderente al mio, e la mia testa appoggiata tra il collo e la spalla mi fece intuire che il suo cuore stava battendo a un ritmo irregolare e rapido.

Senza dubbio quello non era l’abbraccio tra due amici, non quando piegò appena la sua testa per sfiorare la mia guancia col naso, che muoveva appena come ad accarezzarmi. Sentii il suo accenno di barba sulla mia pelle e il suo respiro mi sfiorò il collo; prima che mi si mozzasse il fiato feci in tempo a respirare odore di…

… colonia?

Ero proprio sicuro che la persona davanti a me fosse l’Alan che avevo conosciuto fino a quel momento? Perché quello era un profumo talmente delicato che si poteva sentire solo avvicinandosi così tanto; e lui l’aveva messo pensando che lo avrei fatto?

Mi strinse ancora un altro po’, mentre con una mano mi accarezzava piano la schiena, ma non avevo più voglia di pensare e decisi di perdermi in quell’abbraccio. Sembrava quasi che avesse abbassato ogni difesa e che mi stesse permettendo di essere una parte di lui, di accedere a quel pezzettino del suo cuore che forse pensava che sarebbe rimasto vacante per sempre.

Quel pensiero, unito a quell’odore di colonia che avvertivo a ogni respiro, mi fece salire in corpo un calore diffuso e un guizzo di eccitazione che invece virò verso il basso. A quanto pareva non ero l’unico a essersi infiocchettato più del solito, e l’idea che lo avesse fatto per passare una serata speciale con me mi provocò un brivido. La sua fronte si posò sulla mia tempia e il mio battito si sincronizzò con il suo, consapevole che se mi fossi voltato, anche di poco, le nostre labbra si sarebbero di certo incontrate.

Poi all’improvviso mi ricordai che insieme ad Alan avevo invitato anche Ash e fu palese che quella della colonia era stata una sua idea. Ash aveva sempre avuto, anche se non me l’aveva mai detto, un’idea molto precisa per me e Alan, solo che trovavo alquanto strano che lui l’avesse colta.

Eppure, quando oltre al suo naso anche le sue labbra mi sfiorarono la guancia con quella discrezione che lo aveva sempre contraddistinto, capii che forse c’era un po’ di volontà anche da parte sua, un desiderio di fisicità che a malapena controllava. Ed era un desiderio che non mi dispiaceva affatto. Stare tra le sue braccia era rassicurante e sentire le sue labbra sulla mia pelle, labbra che faticavano a non schiudersi per posare un bacio, era ciò di cui avevo sempre avuto bisogno senza mai essermene reso conto.

Saremmo potuti rimanere in quel modo anche per l’eternità, per quanto mi riguardava. Un abbraccio caldo, sincero… anzi no, onesto. Non c’erano filtri e non c’erano segreti, solo io e lui, persi in quell’attimo di tempo che non avevo alcuna intenzione di far finire per quanto mi faceva stare bene.

Ma Alan si irrigidì all’improvviso e staccò il suo viso dal mio, poi sciolse l’abbraccio e mi allontanò in maniera delicata ma decisa. Il suo sguardo si piantò sul marciapiede opposto, sospirò e mi lanciò un’occhiata fugace.

«Scusa, non avrei dovuto.»

Mi fece sorridere il suo terrore di essere uscito dal protocollo, ma fui quasi confortato dall’aver ritrovato un tratto di lui che avevo imparato a conoscere. Allo stesso tempo, però, non volevo far morire ciò che avevo provato. Feci spallucce e tirai un sorriso.

«Non c’era mica niente di male.»

            Aspettai che si rilassasse, ma al contrario mi sembrò più agitato di prima, con quegli occhietti che vagavano da un punto all’altro, dappertutto tranne che su di me. Sì, si capiva che c’era qualcosa che gli si stava agitando dentro e che non aveva la minima idea di come controllarlo.

            Per un attimo desiderai che gli altri si fossero scordati davvero dell’invito. L’abbraccio che ci eravamo scambiati non era un addio, ma il preludio di un qualcosa a cui talvolta avevo pensato, anche se non troppo, perché non credevo che lui sarebbe mai stato pronto. Ma se quello era un segnale - di fumo e criptico, in pieno “stile Alan” -, allora forse potevo sperare almeno in un bacio.

          Lui incrociò il mio sguardo e io lo catturai. Ero consapevole che con la mia partenza non saremmo andati da nessuna parte, ma nonostante questo lo volevo, lo desideravo. Era il bacio che mi meritavo, che lui si meritava; perché anche se per pochi attimi mi ero sentito amato, e lui forse si era reso conto che poteva amare ancora. Ce lo meritavamo.

          Continuava a guardarmi e ogni tanto sospirava, segno che quell’abbraccio era finito per il suo corpo, ma non per la sua mente. Cominciai a sentirmi suo e a percepire lui come un po’ mio; sapevo che non era giusto, perché in fondo non era il mio ragazzo, ma era proprio così che mi sentivo in quel momento. Suo.

          Forse avremmo potuto, solo per una sera…?

          Ma fu un pensiero che non completai, perché la voce di Ash spezzò ogni incantesimo che si era creato tra noi e un pochino lo maledii. Alan si voltò per salutarlo e lo osservai mentre rimetteva su la maschera dell’uomo professionale e distaccato, col dubbio che forse non se la sarebbe più tolta per tutta la sera. Ero contento di salutare tutti, ma ero stanco di quei momenti a metà con Alan che ogni volta mai si concludevano come immaginavo. Forse l’unica possibilità che avevo era di convincerlo a non andare via subito e a passare il resto della serata insieme.

          Poco dopo arrivarono anche Molly e Nelly, già perse nelle loro chiacchiere pur non conoscendosi così tanto; e poiché eravamo al completo, entrammo nel locale, mentre io ero diviso tra il desiderio di rimanere solo con Alan e la paura che a fine serata se ne andasse poi insieme a tutti gli altri.

 

«Quindi che andrai a fare in California?», domandò Ash, poi prese il suo bicchiere di birra e cominciò a bere.

«Vado a lavorare in un’azienda agricola, mi danno vitto e alloggio in cambio di aiuto nei campi e con gli animali», risposi tutto d’un fiato. Alan era seduto accanto a me, le ragazze di fronte, Ash capotavola. Ci avevano messo a un tavolo nel patio sul retro, su delle sedie di plastica scomodissime che appena le spostavi si bloccavano nelle fughe delle travi in legno del pavimento. L’unica cosa che si salvava era la musica in sottofondo che ogni tanto mi aveva fatto canticchiare.

«Insomma, vai a fare una vita bucolica», proseguì lui, che poi ridacchiò forse per un’immagine che aveva nella sua testa. Gli altri seguirono a ruota, ma con la coda dell’occhio notai che Alan lo aveva fatto molto meno degli altri. A conferma di quell’impressione, lo vidi prendere il suo drink e attaccarsi alla cannuccia, nonostante stesse già cominciando a raschiare il fondo.

«Be’, non che la cosa mi dispiaccia. Ho bisogno di trovare un po’ di tempo per me, quindi una vita lontana dalla città è l’ideale. Sono abbastanza emozionato, a dire il vero.»

Molly ridacchiò.

«Peccato, ho sentito dire che sulle spiagge della California ci sono proprio dei bei maschioni. A rimanere tra le pecore e gli ortaggi mi sa che te li perdi tutti.»

Il risucchio della cannuccia di Alan si fermò. Io avvampai l’attimo dopo e un silenzio generale calò tra tutti i presenti. Mi impegnai a trovare una risposta prima che Molly si accorgesse di aver detto qualcosa di inappropriato.

«Te l’ho detto, sarà un viaggio riflessivo, quindi non penso che mi interesseranno i maschioni della California.»

Provai a farle un sorrisetto d’intesa, ma lei non lo colse e rise ancora.

«Ma dai, conoscendoti avrai la fila pure là e non ci credo che non ne approfitterai neanche una volta!»

Gelo. Calore. Gelo. Panico. Ovviamente non avevo intenzione di approfittarne, certo che no, ma il fatto che avesse rimarcato quell’aspetto non mi avrebbe mai reso credibile agli occhi di Alan. Che imbarazzo. Non sapevo che fare. Sapevo di dover dire qualcosa, ma non avevo in mente niente. Calore. Gelo. Panico. Incrociai lo sguardo di Ash e chiesi aiuto. Lui lo colse, grazie al cielo.

«Che ne dite invece se facciamo un secondo giro di drink? Perché se non si beve, che aperitivo è?»

L’idea piacque a tutti e Ash fece cenno a uno dei camerieri per poter ordinare ancora. Io buttai l’occhio su Alan e pensai che non mi avrebbe mai ricambiato, invece l’attimo dopo mi fissò, con uno sguardo che lasciava poco spazio all’immaginazione: era ferito. Non era il mio ragazzo, no, ma fino a quel momento ci eravamo comportati entrambi come se la situazione fosse stata diversa, e chi non si incazzerebbe a sentire qualcuno parlare così del proprio ragazzo, a immaginarlo mentre se la spassa dall’altra parte degli Stati Uniti?

Abbassai lo sguardo e notai che le sedie mie e di Alan erano piuttosto vicine, molto più di quelle di Molly e Nelly, che invece erano rimaste lì dove le avevano trovate. Era evidente che tra una chiacchiera e l’altra le avevamo avvicinate con la scusa di liberare quelle povere sedie dall’incastro nelle fughe delle assi di legno, ma non era qualcosa che avevo fatto in maniera consapevole. Alan occupò il bracciolo della sua sedia e il mio sguardo fu attirato dalla mano posta lì sopra. Era grande, asciutta e non particolarmente ossuta, all’apparenza piuttosto liscia. Pensai per un attimo di sfiorarla, forte del fatto che la presenza del tavolo avrebbe impedito a chiunque, tranne che a lui, di accorgersene. Sentivo che qualcosa si era incrinato con quei discorsi e non mi venne in mente altro modo per cercare una connessione con lui.

Non ci pensai granché: avvicinai le mie dita e le posai sulle sue. Lo sguardo di Alan divenne vigile, ma continuò a far finta di niente e a osservare gli altri mentre parlavano. Temevo una sua reazione negativa a quel gesto così intimo, perché ci faceva sembrare proprio una coppia in difficoltà che cerca di fare pace, e arrossii per quanto quella definizione fosse calzante per descrivere la situazione tra noi. Invece lui prese il suo bicchiere vuoto e lo squadrò, per poi rendersi conto che lo aveva ripulito ben bene, così lo rimise dov’era. Fu solo in quel momento che, a piccoli scatti, ruotò la testa e poi gli occhi verso di me. Se poco prima mi era sembrato ferito, in quel momento mi apparve anche abbastanza infastidito, quasi irritato. Aveva le labbra tirate e mi studiava più di quanto avesse fatto col suo drink, così le mie dita si irrigidirono e le lasciai sospese poco sopra le sue, pronto a toglierle. Mi sentii in imbarazzo per quel suo rifiuto, e anche per le fantasie di poco prima in cui avevo pensato a me e lui come coppia, fantasie che di sicuro aveva intuito perché stavo cercando di farmi perdonare un torto che avrei potuto fargli solo in qualità di suo ragazzo.

Il cameriere gli portò di nuovo da bere e lui lo usò come scusa perfetta per distogliere lo sguardo e la mano da me. Le probabilità che rimanesse per il resto della serata mi sembrarono diminuire alla velocità della luce, e la verità era che mi stavo scoraggiando sempre più all’idea di chiederglielo, perché sospettavo che un ulteriore rifiuto fosse dietro l’angolo.

 

Il resto dell’aperitivo continuò in maniera abbastanza tranquilla, con altre domande sull’azienda agricola e chiacchiere sul clima della California, per fortuna senza più commenti sulla fauna maschile del Golden State. Dopo che ebbe buttato giù anche tutto il secondo drink, Alan ricominciò a chiacchierare anche se in maniera molto contenuta, dandomi comunque l’impressione che l’alcool stesse iniziando a fare il suo effetto. Non mi dispiaceva che fosse un po’ più sciolto, ma temevo anche che la sua testa lo dirottasse in quei pensieri che talvolta mi avevano spaventato.

          Quando ormai furono quasi le sette e mezzo, qualcuno cominciò a dire che doveva andare. Mi offrii di pagare per tutti, perché d’altronde erano miei ospiti, e riuscii nel mio intento anche se con qualche lamentela di circostanza. Ci alzammo e rimisi la sedia a posto dove l’avevo trovata, al contrario di Alan che invece si limitò ad avvicinarla al tavolo per poi allontanarsi, come se lì ci fossero stati dei carboni ardenti e avesse sentito il desiderio di scappare un po’ più in là. Ash lo raggiunse l’attimo dopo e cominciarono a parlottare, e Molly li seguì a ruota. Con un pizzico di rassegnazione mi diressi anch’io verso l’uscita, facendo slalom tra gli altri tavoli e i camerieri; e mentre stavamo camminando, mi sentii prendere per un braccio. Era Nelly.

«Allora, tutto bene?»

Rallentammo un po’ il passo per allontanarci dagli altri, quel poco che bastava perché non ci sentissero.

«A parte la figura di merda che mi ha fatto fare Molly, direi di sì.»

«Mi sono sentita così in imbarazzo per te. Anche se è innegabile che avrai una fila di ragazzi, ce l’hai sempre.»

Io feci spallucce perché non si poteva negare l’innegabile, poi lei proseguì.

«Comunque non era questo che ti volevo dire. È che ho saputo che a Central Park c’è musica dal vivo stasera, e ho pensato…»

Decisi di prenderla un po’ in giro.

«Mi stai chiedendo un appuntamento?»

Lei rise e il resto del gruppo si voltò verso di noi con sguardo interrogativo. Io rifilai un sorriso come risposta e sembrò bastare.

«Sei un cretino. Lo sai benissimo a cosa pensavo, sta solo aspettando che tu glielo chieda.»

«Dici?», domandai, ma proprio in quel momento varcammo l’uscita del locale e ci ritrovammo sul marciapiede. Nelly si staccò da me e mi rivolse un sorrisetto d’intesa, facendo iniziare in maniera ufficiale il momento dei saluti.

Eravamo in cerchio, con le ragazze accanto e Alan e Ash di fronte; pensai a qualche frase epica da dire, qualcosa da far rimanere nella memoria per gli anni a venire, ma mi vennero in mente solo banalità. Fu in quel momento che Molly si avvicinò a me e mi abbracciò, gesto che ricambiai con affetto.

«Mi mancherai tanto, Nathan. Sei stato il miglior collega che abbia mai avuto!», e quando ci staccammo l’attimo dopo notai che aveva gli occhi lucidi.

«Anche tu mi mancherai, Molly. Senza di te non penso che sarei sopravvissuto a lungo in quel mini-market del cavolo.»

Quella frase le strappò una risata e i ricordi della mia avventura lavorativa con Molly cominciarono a sfrecciarmi in testa, primo fra tutti il giorno in cui avevo finito il turno, in quel torrido giorno di luglio, ed ero andato all’ufficio postale. Mi tornarono in mente la rapina, le domande degli agenti… Alan.

Subito dopo fu il turno di Nelly che mi augurò di tornare presto e che mi strappò la promessa di tenerla aggiornata sui miei sviluppi. Le volevo bene e adoravo il fatto che, seppure per uno scherzo del destino, avesse conosciuto per lungo tempo sia me che Alan, senza che nessuno di noi ne fosse consapevole.

Fu poi la volta di Ash, che salutai con più distacco rispetto alle ragazze, ma non per questo con meno affetto. Il nostro abbraccio fu più superficiale, ma a ripensarci dovevo tanto anche a lui: se non si fosse messo in testa di fare il dottor Stranamore, di certo io e Alan non avremmo mai cominciato a conoscerci.

I tre si incamminarono e li guardai allontanarsi, fino a che non svoltarono l’angolo, sparendo del tutto dal mio campo visivo. Sospirai con una punta di tristezza, perché sapevo che non sarebbe più stata la stessa cosa, anche se ci fossimo sentiti per telefono.

Be’, era rimasto solo lui, braccia conserte e gambe appena divaricate. Mi avvicinai e mi sembrò che avesse alzato di nuovo le difese, rigido com’era in quella postura.

«Comunque i ragazzi della California non mi interessano», provai a dire per smorzare la tensione.

«Per me puoi fare come meglio credi», rispose lui con una punta di quell’acidità che avevo tanto temuto. Mi sentii avvampare di rabbia e dispiacere, perché non volevo credere che una stupida frase avesse rovinato tutta una serata.

«Ma perché fai così? Quindi mi vuoi dire che se ora infilo la lingua in bocca al primo che passa sei contento?»

Lui non si scompose di un millimetro. Non era la reazione che mi aspettavo. Sentii un paio di mani prendere il mio cuore e cominciare a strapparlo a metà.

«Non è questo che ho detto. Dico solo che non puoi tenere il piede in due scarpe, e che quando sarai in California per me sarai libero.»

«Però ora sono qui. Oppure per te sono già laggiù? Perché se è così allora possiamo anche salutarci qui e tornarcene a casa!»

Il mio corpo si irrigidì tutto. Intanto quelle mani invisibili continuavano a strappare, a piccoli tratti, giusto per far sì che non mi perdessi neanche un attimo del mio cuore che andava in frantumi. Lui sospirò, poi strinse le labbra, quasi indeciso. Io non avevo avuto dubbi sul fatto di voler passare la serata con lui, e il fatto che lui invece ne avesse mi stava annientando secondo dopo secondo.

«No, no. Non voglio che tu vada a casa.»

Lui finalmente mollò quella posa così indisponente e riacquistò il tono dolce che aveva sempre avuto nei miei confronti; fece qualche passo verso di me e posò entrambi i pollici sulle mie guance, poi li mosse verso l’esterno.

«E non voglio nemmeno che tu pianga.»

A malapena me ne ero accorto. Ma bastò quel gesto affettuoso per rendermi subito consapevole di tutte le lacrime che, dopo un primo attimo di incertezza, ora mi stavano rigando il viso, lacrime che lui cercava di spazzare via con le sue dita e di cui all’improvviso si fece carico con dei baci sulla guancia laddove sentiva bagnato. Sentii tremare la terra sotto ai piedi, fino a che non si squarciò, e io finii dentro a quella valle d’amore in cui mi stava avvolgendo, e mi sentii rilassato, protetto, quasi al sicuro da ogni pericolo là fuori, con un gesto che nessuno mi aveva mai riservato, un’attenzione di cui nessuno mi aveva mai ritenuto degno. Le labbra di Alan erano umide e soffici, e nel sentirle posarsi sulla mia pelle capii che quello che avevo sempre voluto da lui non era un bacio e nemmeno il sesso, perché quello era qualcosa che avrei potuto avere con facilità da chiunque. Ciò che desideravo era quel tenero amore che mi aveva sempre trasmesso con gesti come quello, quel suo preoccuparsi per me, quel suo farmi sentire importante. Perché forse per lui un pochino lo ero, e lui lo era per me.

Continuò a spazzar via le mie lacrime finché non mi fui calmato e mi spuntò un sorriso, perché le sue mani erano lisce proprio come avevo immaginato poco prima; mi lasciò un bacetto sul naso, poi posò la sua fronte sulla mia.

«Scusa. Va meglio?»

A separarci c’era giusto qualche centimetro, quel misero spazio che, se consumato, ci avrebbe trasformato da amici ad amanti, uno spazio dove c’era soltanto il rumore dei nostri respiri, perché i nostri occhi, quello spazio, se l’erano già mangiato da una vita.

Annuii appena e in quel movimento strusciai il mio naso sul suo, allora mi umettai appena le labbra e presi fiato senza far rumore, col pensiero che quella sarebbe stata finalmente la volta buona, quella che ci avrebbe consacrato come “più che amici”. Lo sentivo respirare, lo sentivo esitare; ascoltavo ogni suo rumore, come l’intensità altalenante del suo espirare o l’impercettibile schiocco di quelle labbra che si aprivano appena. Annusai l’odore della sua pelle e della colonia, mentre percepivo su di me la presenza della sua fronte e il calore delle sue mani su quelle guance che aveva consolato con dolcezza. Chiusi gli occhi pensando che di lì a poco avrei smesso di sentirlo respirare con la bocca, perché sarebbe stata troppo occupata a chiudere la mia, labbra sulle labbra.

Ma le mie aspettative furono tradite di nuovo quando sentii la sua fronte allontanarsi, scatenandomi un tale imbarazzo che riaprii le palpebre alla velocità della luce, dopodiché tornò a guardarmi da una distanza che di intimo non aveva proprio un bel niente. Un’espressione delusa mi si stampò sul volto senza che io potessi fermarla, ma lui ancora una volta non si scompose e, anzi, sorrise.

«Quindi che programmi hai per la serata?»

Fece scivolare le sue mani dietro al mio collo e quel gesto mi provocò un brivido, poi aspettò una mia risposta. Io rimasi interdetto qualche secondo, pensando che fosse uno scherzo. C’era mancato poco così che mi baciasse - come ogni santa volta, tra l’altro - e ora mi chiedeva i programmi per la serata. Cominciai a pensare che avesse bisogno di un disegnino, perché era davvero impossibile che non avesse capito.

Oh. Ma certo. Lui aveva capito, aveva capito benissimo. Ero io quello confuso. Aveva in mente qualcosa? Forse una situazione migliore o più romantica? Oppure era la solita guerra tra cuore e ragione?

Provai a dargli spago per capire dove sarebbe andato a parare.

«Non so, pensavo che potremmo divertirci da qualche parte.»

Mi tornarono in mente le parole di Nelly e la sua proposta mi parve una buona idea. Alan fece finta di pensare un attimo, poi si avvicinò al mio orecchio.

«E in quale modo ti vorresti divertire?», sussurrò, e mi parve di scorgere un pizzico di malizia nei suoi occhi e nel tono della sua voce, malizia che però non lasciò trasparire in altro modo. Me l’ero sognato?

Il suo odore di colonia tornò a stuzzicarmi e fui quasi tentato di mandare all’aria l’idea di Nelly e prendere la strada breve, ma avevo il diritto di tenerlo un po’ sulle spine e provai a stare a quel gioco che sperai di non essermi solo immaginato.

«Guarda che io parlavo di vero divertimento, sai? A Central Park c’è musica dal vivo stasera, se ti interessa possiamo fare un salto lì.»

Ridacchiò piano e abbassò gli occhi, e mi parve di scorgere un lieve rossore sulle sue guance, ma era difficile dirlo. Il suo viso tornò a essere rilassato, come lo era stato prima che arrivassero gli altri. Forse era merito della tensione che avevamo scaricato, forse dell’alcool, ma lui parve soddisfatto di quella risposta.

«Era da un po’ che non ti vedevo questa arietta maliziosa sul viso.»

Mi sentii avvampare e cominciai a pensare che l’alcool gli stesse facendo più effetto del previsto, e che con ogni probabilità quel suo tono ambiguo sulla parola “divertire” me l’ero solo sognato. Poi però si lasciò scappare un sorriso di lato, a cui io risposi facendo altrettanto. L’attimo dopo pensai che Alan, in passato, aveva dispensato sorrisi col contagocce e mi sentii in qualche modo testimone di un miracolo.

«Quindi ti va bene?»

Lui annuì, poi staccò le mani da dietro il mio collo e le fece scendere fino ai miei fianchi.

«Ti seguo.»

 

Saremmo potuti arrivare con la metro fino a Central Park, ma in realtà avevamo deciso di scendere un paio di fermate prima e proseguire a piedi. Nella metro c’era troppo silenzio e io avevo voglia di parlare e lui sembrava voler fare altrettanto. Al momento di uscire dalla stazione, per evitare di perderci nel casino, mi aveva preso per mano e non l’aveva più lasciata, nemmeno quando eravamo rimasti soli a passeggiare sul marciapiede.

          Nel momento in cui le sue dita avevano sfiorato le mie, avevo sentito di nuovo il mio corpo sprofondare in quella valle di amore che era tutta e sola per me. E anche in quel momento, quando aveva deciso di intrecciare le nostre dita, persi un battito e sentii le guance avvampare. Ancora non riuscivo a credere che Alan stesse facendo tutto quello per me, nonostante la partenza, nonostante il ricordo di Oliver che di sicuro non era sparito da un momento all’altro. Si stava lasciando andare e aveva scelto me per farlo; e allo stesso modo io avevo scelto lui, a cui volevo donare il mio cuore, anche se solo per una serata.

          Era già sceso il buio, ma ci pensavano le auto e i ristoranti a non far spegnere le luci di quella città. Camminavamo lenti, come fosse stato uno spettacolo nuovo, e non quello che avevamo visto ogni sera, attenti o distratti, negli ultimi anni delle nostre vite. E in effetti aveva un sapore diverso, o forse avrei potuto dire che aveva una prospettiva diversa, perché mi sorpresi con gli occhi all’insù a notare le luci, le insegne al neon dei negozi o anche solo a delineare con lo sguardo il profilo di Alan. Lui guardava davanti a sé e si godeva lo spettacolo senza dire niente, ma sapevo che anche quel silenzio faceva parte della bellezza di quel momento.

Perché bastavano le nostre mani a unirci, a renderci ora più vicini e ora più lontani, in un allontanarsi per poi ritrovarsi, ma senza mai separarci davvero.

 

Varcammo la soglia di Central Park col sorriso sulle labbra e un’occhiata di troppo che fece ridere entrambi, anche se lui lo faceva sempre in maniera modesta. Alan poi si fermò e fissò il nulla, in cerca forse di quelle parole che non ci eravamo detti durante il tragitto.

«Sai», disse piano, piantando i suoi occhi nei miei, «sono davvero contento per te.»

«Per la partenza, dici?»

Lui annuì e mi lasciò spiazzato. Non mi aspettavo che dicesse qualcosa sulla mia partenza, né tantomeno che si dimostrasse contento in merito.

«Sì. Penso in realtà che possa essere una buona occasione per te, per mettere a posto un po’ di cose. Anche se a mio parere hai già cominciato e stai anche andando bene.»

«In che senso?»

Ci pensò un po’, poi fece spallucce.

«Be’, mi sembri diverso da quando ti ho conosciuto. Ho come l’impressione che tu abbia meno confusione per la testa, che tu abbia più chiaro cosa vuoi e come lo vuoi.»

Mi tornarono in mente tutti gli avvenimenti di quelle ultime settimane: Ryan e i suoi casini, l’aver mandato a fanculo Harvey, quella specie di tregua con mio padre, il rapporto con Jimmy…

«Forse sto solo smettendo di essere il diciottenne che ero.»

Lui ridacchiò e io mi domandai come avesse fatto una frase del genere a uscirmi in maniera così spontanea.

«Non lo so, ma io ti trovo maturato.»

Sorrisi con un po’ di imbarazzo, ma dentro di me sentivo di non potergli dare torto. Se mi guardavo indietro, sentivo che quel Nathan diciottenne ormai apparteneva in tutto e per tutto al passato.

«Grazie. Si vede che a forza di stare con te ho imparato qualcosa.»

In quel momento fui colto da un’improvvisa consapevolezza, e cioè che nessuno mi aveva mai osservato così tanto da vicino per rendersi conto, in poco più di due mesi di frequentazione, di quella crescita che avevo avuto e di cui a malapena mi ero accorto io stesso. Alan mi aveva sempre osservato, da lontano per non interferire, ma abbastanza da vicino per essere la mia stampella nei momenti di difficoltà. Appuntai anche quello tra le cose che nessuno aveva mai fatto per me, nemmeno le mie storie-durate-meno-di-un-anno.

Riprendemmo a passeggiare, le dita ancora intrecciate che ci permettevano di ritrovarci in tutto quel marasma di gente. Era affollato, come lo era sempre Central Park, specie in occasione degli eventi, ma in qualche modo sembrava di essere soli io e Alan. Se ripensavo a tutte le esitazioni che avevo avuto con lui, e lui con me, mi veniva quasi da sorridere. Era sembrato così facile abbracciarci e prenderci per mano, come fosse stata la cosa più naturale e ovvia per noi.

Alan continuava a sembrarmi rilassato, lo sguardo alto e curioso verso la strada acciottolata che si addentrava nel parco, verso il mondo che lo circondava. Era bello vederlo così. Forse avrei potuto dire che si sentiva libero. E quella parola mi fece tornare in mente quanto era accaduto pochi giorni prima, a casa dei miei.

«Ah, c’è una cosa che ti volevo raccontare. Riguarda mio padre.»

Con la coda dell’occhio lo vidi voltarsi un attimo verso di me, poi tornò a guardare la strada.

«Ti ascolto.»

«Non so come dire», e mi resi conto che senza volere gli avevo stretto un po’ la mano, «però in tutti questi anni ho sempre pensato che tutto ciò che volevo era che mio padre tornasse a volermi bene.»

Alan mi lanciò un’occhiata e rallentò il passo, poi mi tirò verso un lato del vialetto per far passare due persone, la sua mano sempre salda nella mia. Ci fermammo accanto a una quercia che mi ricordò molto quella fatidica sera. Come un flash, mi passò nella mente il pensiero che, al contrario di quella volta, per arrivare al parco avevamo percorso tutte strade trafficate, anche a costo di allungare il giro. Mi chiesi se fosse stato un gesto intenzionale o meno. Lui intanto mi fece cenno di proseguire col mio racconto.

«L’altro giorno per vari motivi sono rimasto a dormire dai miei», continuai. «E non so come, ma mi sono ritrovato a fare i pancake e mio padre è venuto ad aiutarmi. Non ha detto molto, ma mi ha aiutato.»

Cercai le parole, mentre dentro avvertivo come un peso che stava finalmente spiccando il volo. Lasciai passare un gruppetto di genitori e figli, con uno di loro a cui era sfuggita la palla che teneva in mano e aveva quindi cominciato a rincorrerla, con delle grida che sembravano sovrastare pure i miei pensieri. Non appena furono passati, feci un bel respiro e proseguii.

«Ecco, io ho sempre pensato che mi sarei sentito diverso. Che tutti i pezzi si sarebbero messi a posto, tipo un puzzle, no? Tutti i casini risolti. E invece no. Sono stato contento, mi sono emozionato, però… in un certo senso non è cambiato niente. Ero sempre il solito Nathan. Ha senso quello che dico?»

Alzai gli occhi verso di lui, che aveva la solita aria rassicurante di chi pensa che non potresti mai dire qualcosa di sbagliato o stupido. Era impossibile non amarlo.

«Sì, secondo me ha senso. E molto, anche.»

Ripensai a come ero stato cacciato di casa, all’ostilità che mio padre mi aveva riservato in tutti quegli anni, a come mi ero piccato per cercare vendetta prima e affetto poi. Volevo mio padre nella mia vita e non appena ne avevo avuto un assaggio…

«Non so», proseguii ancora, «forse gli ho dato troppa importanza in questi anni. Secondo te gli ho dato troppa importanza?»

Soffiò via una risata.

«Secondo me non hai dato abbastanza importanza a te stesso.»

La mia mano si gelò nella sua, e di tutta risposta la sua stretta si fece più salda.

Io lo guardai e mi ricordai all’improvviso dell’incontro con Harvey. Lo avevo mandato a fanculo perché avevo pensato ad Alan e l’idea che avesse potuto trovarmi in quel modo mi aveva fatto vergognare, ma forse non era stato l’unico motivo. Avevo sentito qualcos’altro, in quell’occasione… amor proprio?

Mi scappò una risatina.

«Wow.»

Fu l’unica cosa che riuscii a dire.

Le mie sinapsi cominciarono a lavorare a un ritmo frenetico, a unire i puntini e a mettere, ora sì, i tasselli dove dovevano stare. Mi sembrò quasi di aver strusciato il braccio su un vetro pieno di condensa e di riuscire a vedere oltre, chiaro, ciò che prima mi era sembrato solo appannato.

«Wow», dissi di nuovo. «Ok. Ha senso. Mi piace. Lo sapevo che eri tu quello intelligente.»

Alan si avvicinò a me e mi diede un buffetto sul naso. Era l’alcool, sicuro, ma mi chiesi se in realtà, prima di Oliver, non fosse sempre stato in quel modo, un tipo normalissimo che si divertiva a stuzzicare e prendere in giro il ragazzo che gli piaceva.

«Quindi è così che sei veramente?»

La domanda mi uscì da sola, senza averci pensato troppo. Lui mi guardò senza capire e mi osservò per qualche altro istante.

«“Così” come?»

«Nel senso… spiritoso, dolce. Quelle cose là.»

Cercò di nascondere l’imbarazzo dietro un sorriso, ma gli uscì piuttosto impacciato. Rifuggì il mio sguardo e lo posò oltre le mie spalle, poi sentii la sua mano che cercava di districarsi dalla mia, ma la riafferrai subito e la strinsi.

«Non c’è niente di male», ripetei per la seconda volta in quella serata.

«Lo so», rispose, e per un attimo i suoi occhi si posarono sui miei. «È solo che… non ci sono più abituato. Mi sento felice qui con te, ho voglia di ridere, di stare bene, di essere spiritoso e dolce, come dici tu. Solo che è strano, non capisco cosa mi stia succedendo, ed è da quando ti ho visto davanti al locale che mi sembra di non avere più il controllo su nulla.»

Sospirò, poi proseguì.

«Ed è come dici tu. Due mesi fa stavo a pezzi e stasera in qualche modo mi sembra di essere tornato la persona che ero un tempo. Ma è successo tutto così in fretta, e sta succedendo ora tutto così in fretta… e non riesco a capire come sia possibile.»

Ci pensai un attimo e provai a sdrammatizzare.

«Mh, forse anch’io ho una buona influenza su di te, no?»

Alan annuì lento, con una finta espressione pensosa sul viso.

«A volte ho come la sensazione di essere diventato un po’ te. E che tu sia diventato un po’ me», rispose.

«In effetti, sembra una frase che potrei dire io.»

Gli sorrisi e lui replicò con una sorta di faccia rassegnata, come a dire che ormai la frittata era fatta. Ma l’idea che in qualche modo ci fossimo contaminati mi fece perdere un battito e arrossire. Non se ne sarebbe accorto, perché non c’era molta luce a illuminarci, ma mi metteva comunque in imbarazzo il pensiero che avremmo potuto contaminarci in molti altri modi.

Era bello e altrettanto incredibile poter scherzare così con lui e mi domandai cos’è che lo avesse spinto ad aprirsi un po’ di più con me. Da quel punto di vista, forse la mia partenza era stata una molla per lui, qualcosa che lo aveva costretto a tentare il tutto per tutto. Ero quasi certo infatti che, se non avessi deciso di andarmene, saremmo stati ancora a rincorrerci con gli sguardi e con le mezze frasi. Non mi dispiaceva che avesse messo il piede sull’acceleratore, e soprattutto non mi dispiaceva affatto vederlo in quella modalità quasi umana, senza più quella pesantezza con cui conviveva suo malgrado.

«Quindi chi devo ringraziare per questa trasformazione?»

«Sicuramente i due drink del Royale», rispose con una mezza risata, e fece divertire anche me. «Poi forse Ash potrebbe avermi rifilato un sermone sul fatto di lasciarmi andare e sul cogliere le opportunità.»

«Ah! Lo sapevo che c’era lo zampino di Ash.»

«Mi chiedo a cosa serva parlare, se tanto sai già tutto…»

Mi liberai della stretta della sua mano, che era rimasta unita alla mia per tutto quel tempo, e lo afferrai per i fianchi. Lui al mio tocco sobbalzò appena, poi fece altrettanto e mi tirò a sé, ma volevo essere io a condurre il gioco. Avvicinai la mia testa alla sua e lui mi lasciò fare, senza staccarmi gli occhi di dosso, quasi a studiarmi, fino a che le nostre fronti non si toccarono, proprio come era successo poco prima.

«In effetti è bello anche quando non parliamo», sussurrai.

Avevo una voglia incredibile di afferrarlo e di baciarlo a dovere, ma volevo che fosse suo il privilegio di farlo per primo, e non solo perché rendeva il tutto più eccitante. Ci eravamo ripromessi che sarebbe stato così, perché non volevo correre il rischio di forzarlo a fare qualcosa che non voleva - anche se in quel momento mi dava tutt’altra impressione.

Schiusi le labbra e me le leccai, e a quel gesto seguì un suo sospiro ingrossato, segno che avevo fatto centro. Sentivo che di lì a poco sarebbe successo, che avrebbe deciso di diminuire in maniera drastica il numero di parole per il resto della serata, ma non si decideva. Mi allontanai quel poco che bastava per fissarlo negli occhi e ci rimasi di sasso quando notai una smorfia soddisfatta sul suo viso.

Con una mano lo spintonai leggero sul petto e misi su una faccia offesa, mi divincolai dalla sua presa e continuai a camminare sul vialetto che stavamo percorrendo prima di quella sosta. Lui mi seguì e in pochi passi fu accanto a me.

«Nathan, c’è modo e tempo per ogni cosa.»

«Sì, ma possibilmente in questa vita…»

Ridemmo entrambi - io in maniera molto più rumorosa di lui - e mi diede una piccola spinta sul braccio, per la quale finsi di barcollare. Tra una risata e l’altra i nostri sguardi si incrociarono, e mi bastò quell’attimo per capire che avevo ragione, che era proprio vero che i nostri silenzi erano molto più belli delle nostre parole.

 

Percorremmo diversi sentieri prima di giungere a una piazza circolare, dove era stato allestito un piccolo palco con musica dal vivo. Forse era quello di cui parlava Nelly, non ne avevo idea, ma facevano musica carina. La band aveva una formazione abbastanza classica: una vocalist e tre ragazzi rispettivamente alla chitarra, al basso e alla batteria.

Ci sedemmo in una delle panchine ai bordi della piazza e fui subito rapito dalla bella voce della cantante, che stava intonando Turn back time degli Aqua. Mi tornò subito alla mente il film Sliding doors uscito qualche anno prima, dove alla protagonista era bastato prendere - o perdere - la metro per vedere la sua vita sconvolta completamente. Un dettaglio piccolo e insignificante, ma che aveva avuto un effetto farfalla incredibile. E il pensiero volò a me e ad Alan, alla rapina di quel trenta luglio, al mio turno di mattina, alla commissione che dovevo fare alle poste.

Mi voltai verso di lui, che si era messo comodo, appoggiato sullo schienale, per condividere quelle mie riflessioni.

«Sai, stavo pensando… se io non fossi capitato all’ufficio postale proprio quel giorno, in quel momento, se non avessi staccato proprio in quel minuto esatto, a quest’ora io e te non ci saremmo mai conosciuti. Oppure se fossi stato un buon amico per Ryan forse lui non si sarebbe mai infilato nei suoi casini e non avrebbe mai compiuto una rapina. Quello che voglio dire è… ti rendi conto di quanti piccoli dettagli, tutti all’apparenza poco importanti, hanno portato al momento in cui ci siamo conosciuti?»

Lui mi fissò per un attimo, stordito da quel fiume di parole, poi vidi i suoi occhi riaccendersi.

«Ah, stai pensando al film. Sì… è vero.»

Abbassò lo sguardo e non disse altro. Tutto l’alone di leggerezza che aveva avuto fino a quel momento scomparve in un battito di ciglia e mi bastò un attimo per rendermi conto della cavolata che avevo detto. Perché se da una parte era vero che io ero lì con lui per via della rapina, dell’ufficio postale e via discorrendo, lui era lì con me perché Oliver era morto. Se fosse stato vivo, infatti, Ash non gli avrebbe mai combinato quella specie di appuntamento per il concerto dei Wit Matrix e io sarei rimasto niente più che un semplice testimone troppo sfacciato. Mi domandai come si sentisse in quel momento nei confronti della morte di Oliver, ma l’attimo dopo mi rimproverai per aver pensato una cosa simile, forse perché avevo sperato che mi considerasse importante almeno quanto lo era stato l’amore della sua vita.

Mi sentii insignificante tutto insieme e anche un po’ ridicolo per quel discorso che avevo fatto, come se per lui incontrarmi fosse stato l’evento del secolo e l’universo avesse fatto di tutto per farlo accadere. E invece con ogni probabilità gli sarebbero state sufficienti un paio di settimane per dimenticarmi dopo la mia partenza, altro che incontro del destino.

Tornai a guardare il concerto, con i gomiti piantati nelle cosce e il mento appoggiato sui palmi delle mani, imbarazzato e pentito di aver tirato fuori quel discorso. Sapevo che gli stavo dando la schiena, ma non mi veniva un’espressione intelligente da fare, né qualcosa di intelligente da dire. Avevo ammazzato tutta quella chimica che si era creata tra noi con una frase. Un vero record.

La canzone finì e mi domandai se non fosse finito anche quell’appuntamento. Da un momento all’altro mi aspettavo una frase di Alan che mi annunciava un improbabile impegno alle nove e mezzo di sera, e nella testa contavo i secondi che mancavano a quel fatidico momento. Contavo e contavo, ma Alan non disse niente. Forse gli facevo davvero tanta pena o forse gli dispiaceva constatare che sarebbe stato l’ennesimo appuntamento tra noi finito in maniera anomala.

La cantante bevve un po’ d’acqua, poi tornò davanti al microfono. Mi bastarono poche note per riconoscere Kiss me dei Sixpence None The Richer.

Una mano mi sfiorò la testa con una carezza per richiamare la mia attenzione, così mi girai e trovai il volto sorridente di Alan e un suo “Ehi” appena sussurrato; bastò quella parola per capire che voleva sapere come stavo anche se la cazzata l’avevo fatta io, e mi chiesi ancora una volta come si potesse non amarlo. Mossi appena il capo per dargli una tacita conferma del fatto che stavo bene, e l’istante dopo tornò a concentrarsi sulla canzone. Io feci altrettanto con rinnovato entusiasmo - sì, insomma, non mi odiava per quello che avevo detto -, felice di essere stato perdonato per quella mia leggerezza di poco prima.

Kiss me era una delle mie canzoni preferite, romantica e a tratti ingenua, mi faceva immaginare due amanti al chiaro di luna in attesa di un bacio. Che, non senza una certa ironia, era un po’ quello che eravamo io e Alan.

Cominciai a intonare la prima strofa e mi tornarono alla mente le immagini del videoclip: i ragazzi seduti sulla panchina, la lieve brezza a scompigliare i loro capelli, l’aria sognante di Leigh Nash con quel suo taglio sbarazzino, gli eterni e indecisi amori di Joey Potter.

E poi eccolo là, quel ritornello che mi aveva fatto desiderare più di una volta uno scenario del genere.

 

Kiss me, beneath the milky twilight

Lead me out on the moonlit floor

Lift your open hand

Strike up the band and make the fireflies dance

Silver moon's sparkling

 

Mi sentii cingere per la vita e mi voltai.

Il tempo che lui tirasse il mio corpo a sé, e le labbra di Alan furono sulle mie.

 

So kiss me

 

Persi un battito.

Aveva aspettato…

(e assaporai le sue labbra morbide)

… il ritornello della canzone.

(e un leggero pizzicore di barba)

          Alan mi stava baciando.

          Si era davvero deciso.

          (e si era deciso anche a contaminarci)

          Baciava bene. Ma forse lo avrei pensato comunque.

          (e anche l’odore di colonia era tornato)

Quindi mi aveva dato una possibilità.

(stava conducendo lui)

(quello era il suo bacio)

Non ero più solo il ragazzo carino con cui passare una serata…

(come mi faceva accelerare i battiti il fatto che mi desiderasse così tanto)

… ero qualcosa di più per lui.

Si era innamorato di me?

Di me?

(mi lasciò condurre un pochino)

(un po’ di più)

(metà e metà)

Ero suo. Lui era mio.

Sentire il tocco della sua lingua mi faceva ogni volta sussultare. Non c’era incertezza nelle sue azioni. Era un bacio deciso, e lo era anche da parte mia. E forse sì, voleva me. Sembrava davvero che qualcuno si fosse innamorato di quello spiantato di Nathan Hayworth.

Lui rallentò e rallentai io. Le nostre labbra si separarono dopo un ultimo bacio. Aprii gli occhi senza ricordarmi quando li avevo chiusi, Kiss me ancora in sottofondo in una parte strumentale.

Ci guardammo senza dire niente, o forse dicendo tutto con quello sguardo complice. Era stato… incredibile. Mi aveva baciato. Alan mi aveva baciato. Quella bocca, quella che vedevo lì di fronte a me, aveva davvero trovato il coraggio di unirsi alla mia - e anche con un certo trasporto. Lui spostava rapido il suo sguardo tra me e le mie labbra, forse indeciso se baciarle ancora, ma non fece altro. Mi accarezzò la testa con movimenti lenti e mi sentii il suo tesoro prezioso, anche se solo per una sera. Non riuscivo ancora a credere di aver sfondato quel muro con lui, che mi avesse considerato degno di occupare il posto del “più che amici”. Avrebbe potuto scegliere tra migliaia di persone… e aveva scelto me.

Con la sua mano ancora sulla testa, mi avvicinai per dargli un bacio a stampo, più lungo del primo, ma con lo stesso sapore. Sentii di nuovo quel brivido di eccitazione farmi vibrare dentro, per poi fermarsi giù, tra le gambe. Volevo essere suo. Suo. Suo. Suo.

Lui tolse la mano e io mi allontanai quel poco che bastava per vederlo meglio, ma mi bastò un attimo per scorgere qualcosa nei suoi occhi, quasi una sorta di disagio. La sua bocca abbandonò quell’accenno di sorriso perenne che aveva avuto per tutta la sera, e me ne rendevo conto solo in quel momento che tornò serio. Aggrottò appena la fronte per un attimo, poi si mordicchiò il labbro inferiore. Il suo sguardo cominciò a vagare, ancora una volta, ovunque tranne che su di me, e mi domandai cos’era che lo spaventava così tanto. Forse avevo sbagliato qualcosa, o forse…?  Guardai le mie dita intrecciarsi, poi presi coraggio per porre una domanda che pesava come un macigno.

«Ti sei pentito?»

La canzone finì proprio in quel momento. Ci fu uno scroscio di applausi e un ringraziamento da parte della cantante, che aveva una bella voce anche quando non cantava.

Dentro, tremavo.

«No, no, non mi sono pentito. Stavo solo pensando che…»

Tirai un sospiro di sollievo. E pensai che era la mia occasione. Dovevo provarci, dovevo rischiare, non potevo permettere che Alan si richiudesse a riccio proprio in quel momento.

«… che da te va benissimo perché da me è tutto in valigia?»

Lui aprì appena la bocca per dire qualcosa, ma non uscì niente. Ci riprovò un’altra volta, ma le parole gli morirono in gola. Era stata una mossa azzardata e ancora una volta, in quella serata, sentii il battito schizzarmi alle stelle, perché la mia proposta non lasciava molto spazio alle interpretazioni, e mi chiesi se non fosse stato troppo audace da parte mia.

Dopo l’ennesimo tentativo fallito, soffiò secco.

«Qualcosa del genere, sì.»

Lui continuava a guardare oltre, e smise di farlo solo quando gli presi entrambe le mani. Non ero sicuro che fosse realmente quella la conclusione che voleva dare alla sua frase, ma non si stava tirando indietro. Immaginai il seguito di quella serata e sentii qualcosa rimescolarsi nello stomaco.

«Guarda che io sono più spaventato di te», sussurrai. «E non c’è niente di male.»

Lui annuì, e per un piccolo istante mi sembrò di vederlo commosso. In effetti ero abbastanza convinto che non avesse più fatto l’amore con nessun altro dopo Oliver, e in generale - mi resi conto in quel momento -, con nessun altro in generale, visto che per lui era stato il primo. E forse per quella sera aveva già fatto tanto baciandomi con così tanto trasporto; con ogni probabilità, fare l’amore con me era troppo.

«Ma se preferisci», aggiunsi quindi per tranquillizzarlo, «possiamo anche passeggiare un altro po’.»

Lui continuò a mordersi il labbro e a lasciarsi andare a rumorosi sospiri. Non era in quel modo che avevo immaginato la fine di quella serata, ma andava bene così; non avevo voluto forzarlo per un bacio, di certo non lo avrei fatto per quello. Lo osservai seguire una linea di pensieri tutta nella sua testa, in quel monologo silenzioso che mi sarebbe tanto piaciuto ascoltare.

E dopo un tempo che mi parve interminabile, schiuse le labbra per dire qualcosa.

«Davvero sei spaventato?»

Avevo il battito a mille. Era tutta la sera che correva e rallentava, un po’ più forte e un po’ più piano, mi sentivo impazzire. Ripensai al sesso che avevo fatto con Harvey e di come non avessi la minima idea di come compiacere l’altro più nello spirito che nella carne; sapevo dare piacere, ma era sempre stata una cosa meccanica. E non ne avevo davvero mai parlato con nessuno.

«Be’, vedi…», risposi, e indugiai un attimo. «Ho fatto sesso tante volte, ma non credo di aver mai fatto l’amore con qualcuno. In un certo senso sarebbe la prima volta e ho un po’ paura di fare casino.»

Da uno dei suoi sospiri uscì una risata abbozzata.

«Anch’io ho un po’ paura di fare casino. Oltre a Oliver non ho mai avuto nessun altro, quindi non so–»

«Senti», lo interruppi, «facciamo così: se deve succedere, succederà. Altrimenti vorrà dire che ci metteremo distesi sul letto a ripensare a questa bellissima serata finché non ci addormentiamo.»

Sorrisi e gli lasciai un altro bacio. Quando feci per staccarmi, lui rincorse le mie labbra per darmene un altro, rapido. Poi mi guardò dritto negli occhi.

«Andata.»

 

 

Angolo autrice

Allora, li sentite pure voi i cori dell’alleluja? XD

Ebbene sì: CE L’ABBIAMO FATTA! Yuhuuuuu XD Siete contenti? Ahahahah :D

Be’, arrivati a questo punto non penso di avere molto altro da dire, mancano due capitoli e non vedo l’ora di pubblicarli! Nel frattempo la mia ricerca di un editor prosegue, forse ho trovato qualcuno ma ancora non c’è niente di certo. Spero per giovedì di potervi dare ulteriori info <3

Nel prossimo capitolo vedremo se questi due riusciranno a compicciare qualcosa di più, ma ricordatevi che vivo di angst :P


Ah, quasi dimenticavo: vi lascio il link di Kiss me, nel caso qualcuno di voi non la conoscesse!

 

A giovedì! <3

Simona

   
 
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