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Autore: Yellow Canadair    08/04/2022    0 recensioni
Il capitano, Jesse McCree, non lo tratta come il reietto che è, come meriterebbe. Non gli fa domande sulla sua fedeltà a Overwatch, non lo chiude in una stanza per interrogarlo.
La prima volta che l'ha visto, ha sorriso e gli ha offerto da bere. E ha parlato... di whiskey?
Hanzo si fida. La vita diventa così dolce.
Ma poi Jesse parte per una missione, sta via dei mesi, e quando torna...
"Molto piacere, mi chiamo Cole. Cole Cassidy."
E il mondo di Hanzo crolla.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanzo Shimada, Jesse Mccree
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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REPLICA

 

 

«Sei davvero abile, con quell’arco

E Hanzo immediatamente dopo aveva mancato un bersaglio rischiando di prendere una dose eccessiva di piombo, tanto lo stupore nel sentire quella frase, detta in maniera così spontanea, gioviale, con l’eco di una risata ammirata nascosta tra le lettere.

 

Essere un membro di Overwatch non voleva dire essere amico dei membri di Overwatch. Hanzo aveva messo piede all’Osservatorio Gibilterra con quella premessa: nessun contatto. Niente che non fosse puro e semplice eseguire gli ordini. E in quello era bravo, oh se era bravo. Era il cecchino perfetto per contrastare i tiratori straordinari che aveva Talon nelle sue file, fatto paradossale considerando che, mentre loro avevano fucili futuristici, lui imbracciava soltanto un arco.

E delle frecce che rivelavano bersagli, che saettavano a zig zag tra i muri, potevano venir scagliate in successione: la tecnologia a volte tornava utile.

Non sembrava nemmeno che i membri di Overwatch volessero avere molto a che fare con lui: era pur sempre l’assassino di Genji. 

Il fratello mostro che l’aveva condannato a morte e che lui stesso aveva eseguito.

Che poi Genji fosse sopravvissuto, era secondario: l’intento era di ucciderlo. E Hanzo aveva avuto quell’intento, e non esistevano psicologiche giustificazioni basate sui racconti che il capo-clan gli aveva messo in testa quando era adolescente.

Lui era un assassino.

E tanto bastava per tenere alla larga tutti i membri di Overwatch, gli eroi, che invece le vite le salvavano. Così come avevano salvato quella di Genji.

«Salveranno anche la tua, fratello.» aveva detto Genji. Erano in Nepal, fuori dalle mura di un santuario, circondati da neve e miseria. Dopo essersi visti ad Hanamura, qualche mese prima, l’arciere era ricomparso tra quelle povere case, e Genji non poteva esserne più felice. 

«Gli errori che hai fatto in passato non devono condizionare il tuo futuro. Quell’Hanzo non esiste più.»

«Sono oltre qualsiasi redenzione.» aveva sentenziato il Drago del Sud. Poi aveva sospirato: «Nemmeno quel Genji esiste più. Ed è solo colpa mia se sei diventato…» la voce si tinse di disgusto «questo… questo…»

La voce di Genji si fece più ferma: «Ho fatto pace con quello che sono. Sono rinato. Forse è ora che anche tu faccia qualcosa per andare avanti.»

Ed era sparito tra i fiocchi di neve, senza lasciare impronte, come un passero nel vento.

Tra le dita dell’arciere brillava un comunicatore con lo stemmino rotondo e dorato dell’organizzazione di eroi.

 

~

 

Non voleva redenzione. 

Non voleva onori e non voleva fare l’eroe.

Voleva morire prima possibile.

Era sera.

Aveva bevuto, ma non era brillo, era lucido e triste.

Premette il tasto sul comunicatore e, quando sentì un rumore di ricezione, esordì: «Genji, ho pensato a lung-»

«Uhm, ehm, pronto. Chi parla?» balbettò una voce profonda.

Ma… non era Genji! Hanzo sapeva che quella era la sua personale chiamata alle armi per Overwatch, ma non si aspettava che avrebbe risposto qualcun altro.

Le parole gli scivolarono lente fuori dalle labbra come una litania funebre: «Sono Shimada Hanzo.»

Dall’altra parte, il silenzio. Qualche voce più sottile in lontananza, forse donne. E poi di nuovo il vocione profondo: «Bene Hanzo Shimada, sei in comunicazione riservata con la sede di Overwatch. In cosa puoi esserci utile?» e una risatina sommessa, sincera, forse compiaciuta per il gioco di ruoli capovolti.

Che diavolo doveva dire? «Shimada Genji mi ha dato questo comunicatore…» cominciò a spiegare.

«Naturalmente, naturalmente. Puoi venire qui dove siamo noi? ti diamo le coordinate.»

 

~

 

Quello con cui aveva parlato era il Dottor Winston, ed era un gorilla gigante.

Tutti erano gentili con lui, come se Genji avesse provveduto a parlargli e a chieder loro di trattarlo bene: Hanzo non aveva dubbi nel pensare che, in realtà, lo odiavano per quello che aveva fatto al fratello, e per le attività illecite della sua famiglia.

Non avevano ingaggiato lui, si convinse. Avevano ingaggiato il suo arco. 

E così Hanzo partecipava alle missioni e obbediva in tutto quello che gli veniva chiesto.

Se la missione era mortale, anche meglio: lui non chiedeva altro che qualche sconosciuto membro di Talon portasse a termine quello che lui non aveva mai avuto il coraggio di fare.

Vigliacco.

 

~

 

«Mi chiamo Jesse McCree.» e si era portato una mano alla tesa del cappello.

Era il capitano di Overwatch: era arrivato alla base per ultimo, perché era impegnato personalmente in giro per il mondo a reclutare nuovi membri, che ora vociavano in giro per la base, cucinavano grosse salsicce in cucina, saltavano sui divani, coccolavano enormi gatti bianchi arrivati in trasportini grandi come forni. 

«Shimada Hanzo.» sussurrò l’arciere, prima di staccare gli occhi da quelli color piombo del capitano, e inchinandosi all’orientale.

Jesse McCree ridacchiò: «Andiamo a prendere un whiskey. Ti va? Ho ancora la polvere del viaggio in gola!»

No, non voglio. Non voglio interazioni, sono qui per lavorare.

«Va bene.» disse invece, formale e duro come al solito.

 

~

 

Tutti erano gentili, in quel gruppo, ma nessuno si era mai avvicinato a lui. Persino il grande Wilhelm Reinhardt, che non aveva paura di niente e raccontava storie meravigliose come suo padre, l’aveva invitato a mangiare qualcosa di incredibilmente tedesco assieme a lui, ma al suo rifiuto non aveva insistito: Hanzo era sicuro che l’avesse fatto solo per una forma di cortesia.

Jesse McCree l’aveva invitato direttamente a bere, invece.

E lui, Hanzo, non aveva saputo non accettare l’invito.

Hanzo si aspettava un’uscita formale, in cui si sarebbe parlato di lavoro, in cui McCree gli avrebbe fatto il terzo grado sulle ragioni del suo arrivo in Overwatch, su cosa avesse fatto negli ultimi dieci anni, se avesse ancora relazioni con il suo clan… e Hanzo era pronto a rispondere. Era pronto a essere trattato come il reietto che era.

E invece quella specie di cowboy parlò di… whiskey. Ordinò una bottiglia intera e spinse Hanzo a fare altrettanto, sfidandolo nel dire che quello non era l’alcol più buono che avesse mai assaggiato.

L’orgoglio aveva tirato una gomitata nello stomaco di Hanzo. L’alcol migliore del mondo? La benzina agricola, migliore del mondo! lui, Hanzo Shimada, aveva gusti ben più raffinati di quella broda primordiale spacciata per whiskey!

Era cominciata una conversazione accesa fatta di gradazioni alcoliche e vecchi aneddoti texani.

Si erano salutati nel buio di un corridoio nella base di Gibilterra, e Hanzo, alticcio ma con ancora pieno controllo di sé, ebbe il coraggio di chiedere: «Perché mi hai invitato a bere?»

«Beh…» strascicò McCree. «Volevo vedere che tipo eri. Mi piaci.»

E se ne andò.

 

Athena osservò con curiosità Hanzo Shimada piantato in mezzo a un corridoio nel mezzo della notte, e stava quasi per avvertire la dottoressa Ziegler, quando, un’oretta più tardi, lo Shimada sembrò riaversi e tornò sulle proprie gambe alla sua stanza.

 

~

 

Hanzo si era sentito spensierato, quella seconda sera insieme, ma sicuramente erano stati i fumi dell’alcol. Quindi decise di ritentare, quando Jesse gli chiese di andare a provare insieme un localino al centro storico di Gibilterra: sì, erano decisamente i fumi dell’alcol, a sciorgliergli la lingua e a fargli desiderare un altro incontro con quell’uomo rude, dall’aria malinconica e gli occhi svelti da bandito. 

«Che ne dici di Algesiras? Stasera c’è una band western che fa musica dal vivo.» gli propose un pomeriggio.

Hanzo scosse la testa: Algesiras era lontana mezz’ora di auto da Gibilterra, e lui non aveva mezzi propri, né voleva chiedere passaggi a Genji. «Stasera non posso.» chinò la testa compito. «Devo… occuparmi dei rapporti dell’ultima missione.»

«…voi Shimada non siete in grado di mentire.» ridacchiò Jesse, mettendosi un sigaro spento in bocca. «Solo di nascondere: sputa il rospo, amigo, qual è il problema?»

«Non c’è nessun problema. Ho solo da fare.» rispose Hanzo, dando alla voce una sfumatura imprevista di dispiacere.

«Guarda che non andiamo con il pullman!» 

Il rumore inconfondibile di oggetti di metallo fece sollevare lo sguardo ad Hanzo, e vide che alle dita di Jesse c’era appesa una chiave, con la targhetta di cuoio su cui c’era inciso “a.s.h.e”.

«Un’amica mi ha prestato la sua moto.» spiegò Jesse togliendo gli stivali sul tavolo e alzandosi. «Se per te va bene, possiamo usare quella.»

 

~

 

Genji era tranquillo sul divano, giocava con la sua Nintendo AlphaSwitch e si godeva la calma della base: tra chi era in missione, e chi in palestra, c’era una calma a cui non era abituato. Il posto si era popolato di volti, di risate e di storie: anche di pericoli mortali e missioni in posti dove non era una festa andare, ma il cyborg aveva visto peggiori retri di medaglie.

Hanzo entrò tranquillo nel salone, passandogli davanti diretto al cucinotto, aprì una lattina di birra e si apprestò a godersela seduto al tavolo, a poca distanza dal fratello.

Genji buttò lì, calmissimo, mentre combatteva faceva saltare in aria un Rattata: «Allora… Da quanto tempo è che ti piace Jesse?»

Un getto di birra spillò fuori dalle narici dell’arciere.

«Ehi, Hanzo!» Genji saltò giù dal divano e batté una mano sulle possenti spalle del fratello che si stava strozzando.

Hanzo fu un fulmine, gli sfilò la katana, rovesciò il tavolo, lo inchiodò al muro, e tenendogli la lama pressata sulla gola sibilò: «Chi ha cantato? È stata la dottoressa, vero?»

«Cosa?! No!»

«Sapevo di non potermi fidare di lei… è austriaca.» ringhiò con disprezzo.

Genji sollevò un dito e lo corresse: «Veramente è svizz-»

Echo entrò, attratta dai rumori strani.

«Allora è stata la scimmia!» accusò l’arciere.

«Lo sa anche Winston?!»

«L’ha saputo dal robot...» sibilò minaccioso Hanzo.

Echo uscì in punta di piedi, con un bel sorriso.

«Non… non c’è niente tra di noi.» si affrettò a chiarire Hanzo. «Siamo solo usciti a bere. Da amici.» lasciò andare il fratello, e tossì di nuovo per liberarsi il naso dalla birra.

Genji piegò la testa di lato e mormorò: «Non pensavo che fosse un segreto… c’è qualcosa che non va, fratello?»

Hanzo riacquistò un tono. «Amarezza e rammarico.» affermò. «Non c’è posto per altro per me, in lui… siamo solo...» cercò un termine. «Andiamo a bere insieme.»

«Oh.» disse deluso Genji. «Mi realtà ha chiesto se sei impegnato con qualcuno… qualcuna… beh, non ha detto proprio così, ma…»

 

Sì sì, Athena l’avrebbe detto, questa volta, alla dottoressa Ziegler, che Hanzo Shimada era seduto in cucina, solo, a fissare il vuoto da due ore.

 

~

 

Il letto era così caldo.

Le persiane socchiuse lasciavano penetrare lunghe strisce di sole arancione nella stanza, rischiarando la parete accanto al letto, le lenzuola sfatte, i piedi che si muovevano con lentezza.

Su una sedia c’era il cappello polveroso, le pistole appese allo schienale, l’arco posato sulla seduta, i vestiti erano tutti a terra, tra le bottiglie.

Il serape rosso, sporco, strappato, bucato dalle pallottole, era sopra le coperte, sui loro corpi nudi.

Hanzo sapeva di non meritarselo.

Aveva ucciso, aveva distrutto famiglie intere. Compresa la sua.

Non meritava quell’appartamento in affitto per una settimana a Casares solo per loro, lontani da tutti, sperduti tra i monti, e non meritava quell’abbraccio rovente e familiare, quelle carezze solo per lui, quei momenti da chiamare “casa”. 

«Ehi, Hanzo.» sussurrò Jesse. 

Hanzo alzò la testa dal suo petto, si concessero un bacio.

Jesse ridacchiò: «Tornerò presto, te lo prometto.» disse.

«Una missione come le altre.» recitò il Drago del Sud.

Altri due giorni insieme, e poi Jesse sarebbe partito. Destinazione sconosciuta.

Una missione top secret per Overwatch, si sarebbe avvicinato pericolosamente a uno degli obiettivi: non dire niente a nessuno, nemmeno ai partner, era una condizione ovvia per la sicurezza di tutti, Hanzo lo sapeva.

«E io ti aspetterò, Jesse McCree» promise al cowboy, guardandolo negli occhi illuminati dalla luce arancione del pomeriggio andaluso.

Non meritava quell’uomo.

Ma sapeva di non ne avrebbe mai più potuto fare a meno.


 

~

 

Due mesi dopo, un aeromobile attraccò a Gibilterra, il portello si aprì. 

Missione compiuta, zero vittime, un graffietto per Reinhardt, ma era il minimo se continuava a caricare i nemici e finire giù dai burroni. 

«Fatemi passare, fatemi passare.» ripeteva la dottoressa Ziegler cercando di superare il gruppo, finché non decollò con la sua tuta facendo un voletto appena accennato, per poi atterrare accanto al voluminoso Reinhardt trasportato in barella che rideva come un dannato e prendeva in giro Brigitte, che era vicino a lui.

E poi, all’ultimo, eccolo: Jesse McCree.

Hanzo cercò di simulare indifferenza, vide Genji correre avanti e andare verso Jesse. Con la coda nell’occhio vide i due parlare, Jesse illuminarsi, cercarlo tra la folla.

Solo allora Hanzo sollevò una mano, in lontananza, in un gesto morigerato di saluto.

Genji si trascinò dietro Jesse.

Hanzo allargò le braccia, e Jesse disse, sfiorandosi il cappello con le dita: «Hanzo Shimada? che piacere conoscerti! Genji mi ha parlato tanto di te. Io sono Cole Cassidy.»

 

~

 

Hanzo non capì. L’uomo che gli stava davanti era Jesse McCree, non poteva essere altrimenti, non esistevano due Jesse al mondo, neanche vivendo cinquecento anni. 

La sua espressione era così desolata e persa che Genji chiese: «Hanzo, ti senti bene?»

«È uno scherzo, vero? Jesse! stai scherzando?»

Cole Cassidy si allontanò di un passo, togliendosi il sigaro di bocca. «Cole Cassidy.» ripetè, togliendosi il cappello. «Forse mi hai scambiato per qualcun altro.»

Hanzo scosse la testa, guardò Genji. «State scherzando. È uno scherzo…»

Genji e Cole si guardarono, Cole in imbarazzo e Genji confuso. «Hanzo, lui è il capitano Cassidy. Ti ho parlato di lui, non vedeva l’ora di tornare dalla missione per conoscerti.»

Hanzo cercò la parete per sorreggersi. Non stavano scherzando. Genji era serio.

«Tu sei Jesse McCree.» sussurrò al nuovo arrivato. «Il pub a Gibraltar. La casa a Casares…»

Cole Cassidy si rimise il cappello e disse a Genji: «Penso che tuo fratello abbia bisogno di riposare.» disse facendo per andarsene.

«No, no, Jesse! Aspetta!» gridò disperato Hanzo cercando di trattenere l’uomo.

«Hanzo, che diavolo ti prende?» lo rimproverò Genji trattenendolo. «Che stai dicendo? chi è questo Jesse??»

La testa di Hanzo cominciò a girare. «Uscivamo insieme… andavamo al bar, la sera… Genji, ne abbiamo parlato, eri seduto su quel divano quando ne abbiamo parlato!!» mormorò confuso l’arciere.

Genji si stranì: «Sono tre mesi che sei chiuso nel tuo appartamento, esci solo per distruggerti in palestra o per andare in missione. Non sei mai uscito da qui.»

«Ma…»

Genji scosse la testa e mise le mani sulle spalle del fratello, comprensivo e protettivo: «Ti ho pregato di fare amicizia, qui a Gibilterra. Capisco che Lena non sia nelle tue corde, ma almeno con Angela potevi fare un tentativo… so che è difficile, però avere amici immaginari…»

«NON È UN AMICO IMMAGINARIO!» tuonò Hanzo, facendo girare tutti i presenti verso di loro. «Era…»

Era Jesse.

 

~

 

«Ciao Hanzo.»

Angela Ziegler era un angelo. Era paziente, attenta, gentile. Un’amica, oltre che la dottoressa più brillante del loro tempo. Una vera fortuna averla in squadra.

Hanzo non era mai riuscito ad avere chissà che legame, però era sempre cordiale e allegra, era piacevole parlare con lei.

Tranne quando ti convocava nel suo studio con urgenza.

«Come stai? ormai è qualche tempo che sei qui con noi… come ti stai trovando?» chiese con un sorriso.

Hanzo non dormiva da due giorni. Era stato in tre biblioteche, due archivi e tre studi legali, ma del nome Jesse McCree non c’era nessuna traccia: i giornali, anche quelli di dieci anni prima, parlavano del fuorilegge “Cole Cassidy”, e sembrava che Jesse McCree esistesse solo nella sua testa.

«Per favore, dottoressa Ziegler.» mormorò afflitto. «Mi dica esattamente perché mi ha chiamato.»

Angela Ziegler gli si avvicinò, dispiaciuta. «È per la questione di… Jesse McCree.»

«Lo so che tutti pensate che sia pazzo.»

«No…» lo rassicurò subito la dottoressa. «Vorrei solo farti sapere che è meglio se ti prendi una pausa.»

Hanzo annuì. Forse gli avrebbe fatto bene staccare, andare a farsi un giro fuori da quella maledetta base, dove tutto gli ricordava Jesse e dove, ogni giorno, incontrava quel Cole. La replica.

Gentile, pulito, giovane… somigliava a Jesse, ma non era per niente Jesse. Non aveva nemmeno lo stesso serape, quello che Hanzo amava, sul quale avevano fatto l’amore per la prima volta.

«Penso che una giornata di pausa mi potrebbe fare bene.»

Mercy scosse la testa. «Prenditi due settimane. Il comandante è d’accordo. Puoi andare dove vuoi, puoi anche farti accompagnare da Genji.»

 

~

 

«Il Nepal è la tua risposta a tutto?» ringhiò Hanzo, in piedi nella neve, su un sentiero candido e percorso da persone armate di zaini e animali pelosissimi dal muso simpatico.

«Il Nepal è dove ho ritrovato me stesso.» rispose Genji, inspirando l’aria gelida. Un fiocchino di neve si posò sulla sua armatura, come se volesse scaldarsi sui neon gialli.

 

C’è una persona che potrebbe aiutarti.

 

Sono al di là di qualsiasi aiuto, pensò tristemente Hanzo, varcando la soglia del convento.

 

~

 

Zenyatta aveva ascoltato quel racconto. Il girovagare di Hanzo, l’arrivo ad Overwatch, Jesse McCree, il bar, la casa insieme.

Non c’era ombra di giudizio, nei suoi occhi di vetro. C’era solo un cuore cristallino come l’aria di montagna pieno di pena per quella creatura umana distrutta e in lacrime.

«Credo di aver perso il senno. A volte credo che non sia esistito nessun Jesse…» sussurrò Hanzo, stringendo la tazza di tè che rifletteva la sua disperazione. «Ma io mi ricordo… era reale! abbiamo visitato posti, affittato stanze… era reale.» ruggì alla fine.

«Io ti credo, Hanzo.» disse invece Zenyatta. «Credo nell’esistenza terrena di Jesse e credo nell’amore che provavi per lui.»

Hanzo aprì la bocca, ma il monaco lo precedette: «…ma purtroppo credo anche che Jesse McCree non esista più. Né nelle menti dei suoi amici, né sul piano della realtà. Devi accettarlo.»

«Ma perché… perché io me lo ricordo? perché sono l’unico a ricordarsi di lui…?»

Zenyatta lo guardò tristemente, per quanto potessero trapelare emozioni dal suo volto freddo e liscio. Cercò le parole, ma non era sicuro neppure lui di ciò che stava per dire: «Credo sia perché… perché non eravate previsti.»

«...non eravamo previsti?»

Zenyatta annuì. «Credo che le vostre strade fossero destinate a non incontrarsi mai. O a sfiorarsi a malapena. E invece due anime sole hanno trovato conforto l’una nell’altra, in un modo che non era mai stato previsto. In un modo che non doveva esistere.»

«Ma previsto da chi??»

«Dall’Iride.» rispose semplicemente l’Omnic. «Dalla forza che muove tutto. Chi arriva… e chi va via. E se qualcosa non prosegue sul cammino che era stato tracciato, va corretta.»

Hanzo boccheggiava, disorientato. Tutto sembrava girare, mentre il suo spirito aveva capito quello che la sua mente stentava ad accettare. Con una mano soffocò le lacrime che premevano per uscire. Scosse la testa e si tirò i capelli all’indietro. Aveva rovesciato il té verde speziato, e non aveva neppure sentito la tazza cadere. Perché, perché lui solo sembrava ricordarsi di Jesse McCree? e perché tutto il resto del mondo salutava quel Cole Cassidy come se l’avessero conosciuto da sempre, come se fosse sempre stato in mezzo a loro, come se Jesse McCree non fosse mai esistito??

E perché solo lui ricordava il grigio fucile degli occhi di quell’uomo, il calore della sua mano, la sua voce profonda e arrochita dal tabacco?

«Zenyatta, Jesse è partito per una missione e non è più tornato.» 

«Certo che è tornato. È tornato come Cole Cassidy.»

Cole Cassidy sembrava nato da poco: era privo di quella sfumatura rude e malinconica, e privo di qualsiasi gesto di affezione nei suoi confronti. Più volte Hanzo aveva vacillato, accanto a lui, per poi rendersi conto, affranto, che quell’uomo era un estraneo.

Persino l’odore era diverso.

Non c’era differenza tra lo sguardo che quel Cole usava per lui, e le occhiate rapide, distanti, che usava per le torrette dei Lindolm. 

«Non mi interessa cosa pensa il resto del mondo.» disse stentoreo l’arciere. «Aiutami a ritrovare Jesse» lo pregò Hanzo, prendendolo per le vesti.

Zenyatta non si scompose. Accolse in un abbraccio quel fratello umano distrutto dall’amore per un uomo che non esisteva più.

«Nessuno può modificare quello che è stato, Hanzo Shimada. Dobbiamo essere felici, però, che questa persona sia esistita, e abbia lasciato tutto questo amore dentro di te.»

Genji sentì le urla del fratello dal cortile del monastero.

 

~

 

Cole Cassidy chiamò Genji nel suo ufficio.

«Non può più rimanere.» disse al cyborg.

Genji si prese la testa tra le mani. «Lo so…»

«Mi sento in colpa perché è una cosa che ha a che fare con me…» disse Cole portandosi una mano aperta al petto. «Ma non posso permettere a quell’uomo di andare in missione per Overwatch, capisci? Può essere pericoloso per lui e per gli altri…»

«Devo aver sottovalutato la sua depressione…» si macerò Genji. «Ma non tu non c’entri, Cole. Non eri nemmeno alla base! Questa cosa…» sospirò. «Questa cosa è successa nella testa di mio fratello.»

«Non hai nulla di cui rimproverarti.» lo rassicurò Cole. «Non si è fatto visitare, non parla con nessuno, e in missione sta diventando un problema… non possiamo più rischiare come l’altra...»

All’improvviso si sentì un bussare energico e frenetico alla porta, e Cole esclamò: «Avanti!»

La porta si spalancò e Fareeha Amari si affacciò all’uscio, dritta in un saluto militare, ma con il volto scomposto dalla tristezza e dall’emozione.

«Cole… non c'è più. Hanzo Shimada non si trova nella base.»

Genji saltò in piedi, pronto a uscire dalla stanza, ma Phara ne arrestò la corsa con gentilezza, posandogli le mani sulle spalle e scuotendo la testa. 

«Ha lasciato questo. Penso sia indirizzato a te.» 

Un biglietto, vergato con delicatezza con ideogrammi nipponici. 

 

~

 

C’era la neve, era una gelida notte stellata, ma Hanzo Shimada non sentiva più niente.

Non sentiva più nemmeno il freddo.

Tendeva solo il suo arco con precisione e mirava, senza sbagliare mai.

Meglio di ogni cecchino, meglio di qualsiasi tiratore.

Non tremava, non esitava. Sembrava che non respirasse, né che avesse un cuore da far battere.

Aveva ucciso ancora, e ancora.

Sordo a ogni grido di pietà, a braccia sollevate, fedele solo agli ordini.

Nessun sentimento trapassava i suoi occhi freddi, lontani, apatici.

Talon aveva acquistato la sua pedina migliore.

Senza più l’ombra dell’anima che aveva.

Disintegrata come quella di Amélie Lacroix. Per sua stessa richiesta.

La avverto solo per dovere, signor Shimada… non percepirà più nulla. Non sopravvivranno nemmeno i ricordi, della sua vita precedente.”

Fallo, dunque. Uccidimi.

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Jesse McCree è scomparso. Non esiste più da nessuna parte, né nei dialoghi, né negli spray, né da nessun'altra parte se non nella nostra testa.

E nella testa di Hanzo, che si vede strappare dalle braccia l'uomo che amava, fino all'ultima tragica decisione per non soffrire più, per non sentire altro, per non ricordare.

Spero che la storia vi sia piaciuta, l'ho scritta di getto nell'ultimo mese. 

Grazie per aver letto, lasciate una recensione se volete piangere insieme a me o chiacchierare di questo clamoroso retcon.

Un abbraccio,

 

Yellow Canadair

 

  
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