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Autore: Shireith    08/04/2022    3 recensioni
Quante parole non dette schiacciate tra due frasi di pura convenzionalità rese ancora più macchinose da una persona che, come lei, non sa maneggiare i propri sentimenti, figurarsi quelli altrui. Sente di odiarlo. Quanta commiserazione, quanta pietà. Ai Haibara, Shiho Miyano, una bambina mai cresciuta, una bambina che non lo è nemmeno mai stata: ecco chi è per lui. Una parentesi buia in un’esistenza che è un lampo di luce perenne, l’ennesimo paradosso che per Shinichi funziona e per lei no.
Shiho formula due ipotesi, l’ipotesi degli specchi e della macchina fotografica, l’ipotesi dei buchi neri: entrambe sbagliate.
A poter descrivere lei e Shinichi c’è solo un paradosso.
Il paradosso dei buchi neri.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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How did I go from growing up to breaking down?
I wake up in the middle of the night
And I can feel time moving
How can a person know everything 
at eighteen and nothing at twenty-two?
Nothing New (Taylor’s Version) 


Il paradosso dei buchi neri

 
 C’è una villa, da qualche parte tra le campagne inglesi, dove viveva sua madre. Se ne sta a dormire sullo sfondo di un quadrato in cui Elena abbraccia una ragazza e all’obiettivo rivolge un sorriso con le stesse labbra che ora ha anche lei, senza il sorriso perché Elena non le ha mai insegnato come si fa, Akemi è subentrata al suo posto, Shiho ha imparato, Akemi è morta, Shiho ha disimparato.
  Non s’immagina a vivere in quella villa, è troppo grande, troppo vuota. Ha paura che se solo ci mettesse piede ci vedrebbe l’allegoria del suo dentro, troppo grande, troppo vuoto, e scoppierebbe a piangere. Una bambina di cui nessuno si cura, lacrime che rimbalzano tra le pareti come una palla da tennis. Cos’è successo, vieni qua, smetti di piangere, prendi questo fazzoletto, raccontami, intanto asciugati le lacrime, tira pure su col naso se vuoi, raccontami, dai, non giudico, davvero: nessuno glielo direbbe, d’altronde pure se quella casa fosse appartenuta a sua madre e ora a lei, pure se ci andasse a vivere dentro, non inviterebbe nessuno a stare con lei, e nessuno la sentirebbe né vedrebbe piangere.

  C’è Shinichi. Un giorno Shiho si sveglia, sbircia la foto, ripensa alla villa, all’immagine della villa che si è costruita nella sua testa, e le viene naturale accostare il ruolo di padrone di casa a Shinichi. Ci sono ventidue piani, e loro li occupano tutti. Shinichi e i suoi inquilini. Da qualche parte tra questi ventidue piani, al nono o al settimo o magari al diciannovesimo, c’è lo scrittore, il modello di figlio che suo padre si era augurato diventasse. Yukiko invece protendeva per attore o mago – quando Shinichi gliel’aveva detto Shiho si era messa a ridere, aveva riso davvero, e aveva pensato che se pure sua madre non le aveva insegnato a farlo e Akemi se n’era andata prima che sapesse farlo da sola, lei comunque poteva esserne capace – e allora, da qualche parte tra i ventidue piani della villa, vede il mago litigare con lo scienziato perché uno sostiene la fantasia e l’altro la ragione. Shinichi è scrittore, è mago, è attore, è persino scienziato: è perché lui può tutto. Ma ad aver trionfato e ad aver lasciato la villa è il detective, e le ha rovinato la vita. A lei, Shiho. Perché lei l’ha rovinata a lui (Shinichi lo sa), e lui l’ha rovinata a lei (Shinichi non lo sa).

  Accade un giorno. Effetto farfalla. Una casualità. Fortuna, sfortuna. Dipende da cosa comporta la casualità. Destino, addirittura: favorevole, avverso. Chi ci crede, chi non ci crede. Lei no.
  Pensa: se non fossi stata sua amica non l’avrei mai rivisto. Troppo generico, meglio: se non fossi arrivata tardi, quella mattina della nostra prima lezione nella nostra classe, non si sarebbe seduta alla mia destra, silenziosa e imbarazzata, in fondo all’aula. Se non si fosse seduta alla mia destra, silenziosa e imbarazzata, in fondo all’aula, non mi avrebbe mai rivolto la parola. Se non mi avesse mai rivolto la parola non saremmo diventate amiche. Se non fossimo diventate amiche non avrei un’amica morta. Se non avessi un’amica morta lui non mi avrebbe interrogata.
  E ancora: se non mi avesse interrogata non sarei qui. Di nuovo. Lui e me, io e lui. Noi solo nella grammatica, non nella sostanza.
  Loro solo nella grammatica, non nella sostanza.
  Arriva addirittura a pensare che la morte della sua amica sia causa sua. Possibile che il passato le abbia incollato addosso una sorta di entità maligna e che questa la segua ovunque attirando e inglobando nel suo ammasso informe tutto ciò che vede diverso da sé stesso? Effetto farfalla o destino avverso? Casualità o cattiva sorte?
  La sua amica non è forse rientrata tardi per puro caso? Se non si fosse dimenticata il cellulare da lei, da Shiho, non sarebbe rientrata prima? Se Shiho avesse insistito affinché rimanesse nel suo appartamento e non si fosse piegata di fronte ai no ma avesse piegato la sua amica a un sì, lei sarebbe ancora viva?
  Se, se, se, se.
  Effetto farfalla. Fili che s’intrecciano e s’intersecano e si sfilacciano senza una logica. Chi vuole può chiamarla fortuna, chi vuole può chiamarla sfortuna.
  Se, se, se, se.
  Una sera torna a casa, l’immagine di lui che le dice ‘non è colpa tua, non avresti potuto fare niente’ impressa nella mente, la pelle che ancora brucia dove le ha sfiorato la spalla con una mano, come se le sue dita fossero tizzoni ardenti, e si chiede se la soluzione più semplice non sia eliminare il problema alla radice: estirpare le erbacce, bruciare il campo, uccidere il virus ancor prima che si propaghi e infetti mezzo mondo.
  Se, se, se, se.
  Se lei non fosse mai esistita. Se rimediasse all’errore estirpando le sue radici marce, ancora meglio l’intero albero genealogico, marcio pure quello. I peccati di sua madre erano a loro volta i peccati della madre di sua madre, forse sì forse no, ora sono i suoi, i peccati della madre che diventano della figlia, e i suoi peccati di figlia diventeranno di madre quando non sarà più figlia ma madre.
  Ci pensa, ci ripensa, scoppia a ridere, non come non le ha insegnato Elena, come le hanno insegnato loro: ride perché figlia non lo è mai stata, madre non lo sarà mai, e allora porsi questi dilemmi è inutile. Morirà, e con lei i suoi peccati.

  È una domanda che le pongono spesso alla sua età, se non voglia dei figli, e lei risponde senza rispondere, con la noncuranza di chi fa finta di non sentire con una tale abilità che pare non abbia sentito davvero.
  Perché una figlia?
  Perché pensare a essere due quando non sei nemmeno uno?
  Perché pensare al futuro quando non hai nemmeno il passato?

  Quando l’ha rivisto il mondo si è fermato, o ha ripreso a girare, non saprebbe dirlo con certezza, sa solo che, quale delle due sia la risposta giusta sarebbe comunque sbagliata, perché il mondo non si ferma né riprende a girare per scandire il ritmo dei pensieri di una sola persona. Però qualcosa ha ripreso a girare, che lo si voglia classificare come mondo non fa differenza: ha ripreso a girare e Shiho, che pure se n’è accorta, non è riuscita a fermarlo. Girava e rigirava quando lui si è voltato, l’ha vista, sul volto un lampo di riconoscimento, e si è diretto verso di lei con un sorriso lieve smorzato dalle circostanze. Shiho non sa cosa deve aver pensato, Shinichi è troppo criptico per poter prevedere le sue mosse e lei lo conosce più nella sua testa che nella realtà dei fatti.
  Lei ha pensato: no no no no no no. Non tu, non tu, perché tu? La mia benedizione e maledizione, il mio specchio. Perché tu? Vattene. Non ti avvicinare, non rivolgermi la parola, non guardarmi.
  Sto.
  Bene.
  Così.

  Non sta bene così. Se stare bene significa alzarsi ogni mattina per seguire un copione scritto, diretto e realizzato — secondo direttive preimpostate dall’alba dei tempi — dalla stessa persona che deve seguirlo, allora sta benissimo. Se stare bene significa qualsiasi altra cosa, allora non sta bene.

  Da quando l’ha rivisto è tornata a porsi le stesse domande, ad arrovellarsi sugli stessi dilemmi. Un cane che si morde la coda, un orologio che parte da zero per arrivare a ventiquattro e poi di nuovo a zero, e così all’infinito.
  La sua stessa vita ridotta a un pugno di numeri. Tutto ciò a ruota attorno la sua esistenza, eppure quello che comprende di meno.

  Shiho è un buco nero. Per sé stessa, per Shinichi, per chiunque.
  Shinichi è un buco nero. Solo per lei.
  Si è gettata dentro ancora prima di venir risucchiata, e lì (non) stava bene.

  Shinichi è uno specchio. Shiho si riflette e si vede uguale, ma l’immagine è ingannevole, una verità parziale, una bugia detta a metà.
  Shinichi è una fotografia. La macchina fotografica prende l’immagine, la distorce, la modella sugli occhi degli altri, che ci vedono meglio dei nostri, e ce la sbattono in faccia come uno schiaffo. È la verità di tutti contro la verità di una persona soltanto, e allora quella verità è una bugia. Le piaceva pensare che Shinichi riflettesse il meglio di lei e lo amplificasse oltre ogni perfezione, ora sa che Shinichi di lei ha solo una parte, quella che già c’era prima del suo arrivo mescolata a quella che ha lasciato dopo, ininfluente se paragonata alla parte che lei ha di lui.

  Non sa cosa sia l’amore. Prova a decifrarlo e allora ha già perso in partenza perché quello non va studiato e compreso e sviscerato ma solo capito, vissuto, e Shiho non ha mai vissuto, tanto meno ha vissuto con amore: ha perso in partenza, però ci prova comunque. Sua madre l’ha amata, perché? Perché amare un ammasso di cellule che non è niente eppure abbastanza per succhiarti il sangue, rubarti il respiro, rubarti a te stessa? Come si ama qualcuno che ti gonfia il ventre e ti appesantisce le gambe e ti fa vomitare al mattino e poi, quando nasce, quando apre gli occhi e vede la luce, vede te, piange? Come si può amare chi ancora non esiste, se non proiettando in lei o in lui una versione di te stessa, se non imponendo a lei o a lui un modello comportamentale quanto più simile al nostro, che per egoismo ci sembra il più giusto? Nelle sue registrazioni, sua madre le parlava di come si sarebbero amate lei e Akemi, di come Shiho avrebbe amato questa o quell’altra cosa, le chiedeva dei suoi studi, dei suoi amici, se c’era un ragazzo che le piaceva e come si chiamava. Niente più che supposizioni, speculazioni basate su un modello stereotipato, tanti ‘se’, eppure persino in quelli c’era un’ombra delle aspettative che Elena, e con lei poi pure Atsushi, aveva riposto in lei ancor prima di rendersene conto, quando da una era passata a due.
  Shiho, lei ha più ragioni di amare sua madre. Conosce, per bocca di Akemi – l’unica di cui si fidi, si fidasse – e poi per bocca della stessa madre (un’eco in ritardo di diciotto anni) il suo passato, le sue ansie, le sue paure, le sue speranze. L’Elena Miyano dei racconti di sua sorella e l’Elena Miyano che lei stessa ha lasciato a Shiho hanno una forma, queste due forme coincidono e coincidendo danno prova della veridicità di questa forma, a meno che non si voglia ammettere che sia Akemi che sua madre siano due bugiarde, ma poiché Shiho lo esclude, non può fare che credervi e amarle. Akemi che ha conosciuto, Elena che avrebbe voluto conoscere. Una figlia che abbia conosciuto una madre, sia pure per parti indirette, ha più motivi per amarla di quanto una madre non abbia motivi per amare una figlia che non si è ancora formata.
  Come una madre ama una figlia, non lo sa.
  Come una figlia ama una madre, pensa di saperlo.
  Come una sorella ama una sorella, lo sa.
  (Se una madre è chi ti cresce, non importa l’età, non importa sia poco più grande di te e abbia bisogno a sua volta di una madre, allora come una figlia ama una madre lo sa.)
  Ma come si ama un’altra persona, come una donna ama un uomo e un uomo una donna, come una donna ama un’altra donna e un uomo un altro uomo, questo non lo sa.

  Le manca qualcosa, e questo pure lo sa, se n’è resa conto con la stessa facilità con cui ha imparato a camminare e a masticare le prime sillabe, Akemi, non mamma non papà, solo Akemi, solo lei che c’è stata, non mamma e papà che non ci sono mai stati. Le mancano troppe cose, e questo l’ha capito dopo: ogni esperienza è un tassello che si aggiunge ma che a sua volta la porta a rendersi conto che ne manca un altro. Se i suoi veri primi amici li ha avuti dopo diciotto anni di vita, per diciotto anni non ha avuto amici. Se nel dottor Agasa ha visto un padre, un padre non ce l’ha mai avuto. Se si chiede se l’abbia mai amato, non l’ha mai amato davvero.

  Shinichi. È lui che si era chiesta se amava, è lui che torna a chiedersi se lo ama quando lo rivede. Ha tante testimonianze su cui basarsi – sua madre nelle registrazioni, sua sorella nei ricordi, le altre in televisione, nei libri, su internet – e ogni singola di queste le sembra fasulla, l’ennesima bugia cucita sulla realtà. Se davvero è una grande, immensa bugia, un piacere temporaneo per distrarsi dall’inevitabile, vorrebbe essere brava a crederci quanto lo sono gli altri.

  Si era abituata a guardarlo in segreto, loro due bambini falsi accomunati da un segreto che li separava dai bambini veri, una barriera tra noi e loro. Noi solo nella grammatica, non nella sostanza – loro solo nella grammatica, non nella sostanza. Non c’era mai stato un noi o loro che fosse, una coppia di due che comprendeva solo lei e Shinichi. Ma a questa bugia ci credeva – ah, sì: come l’era piaciuto crederci: lei e lui, io e te, uniti nella stranezza di una condizione che loro due soli al mondo potevano comprendere. Aveva maturato per la prima volta la certezza di aver trovato uno specchio da cui ricavare e cui dare conforto.
  Una bugia cucita sulla realtà.

  Shinichi è solo un uomo. Brillante, sì, intelligente, sì, carismatico, sì: solo un uomo.
  Shinichi è un buco nero.
  Shinichi è uno specchio.
  Shinichi è una macchina fotografica.
  Shinichi è la foto che le scatta e ritrae la bugia di una persona opposta alla verità di tutto il mondo.
  Shiho, lei, io. Sola.

  Si era abituata a guardarlo in segreto, loro due bambini falsi accomunati da un segreto che li separava dai bambini veri, ma ora che sono soli non può nascondersi dietro gli altri, invisibile tra tanti. Spera che Shinichi non si accorga che lo guarda come se da un momento all’altro si aspettasse che le riveli il segreto per la felicità, ma è una preoccupazione inutile, lei per lui non ha mai significato ciò che lui ha significato e significa per lei.
  «Ex fidanzato geloso che si vendica uccidendo la ragazza», lo sente mormorare così piano che per un attimo si chiede se non l’abbia solo immaginato, e potrebbe anche crederci se solo non l’avesse visto muovere le labbra. «Tristemente comune.»
  Shiho annuisce, non risponde. La morte è una cosa che più la conosci e più non sai quali parole usare per descriverla. È merito della morte, se di meriti si può parlare, se Shiho ha capito di essere capace di amare, perché solo amando una persona puoi piangere quando quella se ne va. Come ha pianto per Akemi, e per la sua amica all’università. Ha pianto persino per sua madre e suo padre, da bambina per convenzione, perché le avevano insegnato che una madre e un padre erano fondamentali e allora li piangeva perché non li aveva mai conosciuti, da adulta li ha pianti davvero, o almeno ha pianto l’immagine che ha di loro grazie alle registrazioni di sua madre e altre testimonianze disseminate in giro come gli indizi in un poliziesco.
  Se Shinichi morisse lo piangerebbe. Quindi gli vuole bene, lo ama. Ma pure a guardarlo, non capisce come, ed è nel come che si perde, che si dispera alla ricerca di una risposta che se si facesse trovare potrebbe restituirle la vita o dargliene una se è vero, come sospetta, che non ce l’ha mai avuta.

  «Potresti tornare.»
  «Tornare?»
  «Dal dottor Agasa. Mi ha detto di dirtelo.»
  Quante parole non dette schiacciate tra due frasi di pura convenzionalità rese ancora più macchinose da una persona che, come lei, non sa maneggiare i propri sentimenti, figurarsi quelli altrui. Sente di odiarlo. Quanta commiserazione, quanta pietà. Ai Haibara, Shiho Miyano, una bambina mai cresciuta, una bambina che non lo è nemmeno mai stata: ecco chi è per lui. Una parentesi buia in un’esistenza che è un lampo di luce perenne, l’ennesimo paradosso che per Shinichi funziona e per lei no.
  «Perché?»
  «Non dovresti stare sola in una situazione simile.»
  «Non sarebbe la prima volta.»
  Shinichi si ammutolisce e Shiho si sente in colpa. Pensava di uscirsene da stronza e invece per sé stessa prova solo pietà, è così ovvio che sta cercando di mascherare il dolore con la strafottenza, quasi mascherarlo bastasse a tramutarlo in strafottenza vera e non piangere. Per Akemi, per sua madre e suo padre, per la sua amica. Per sé stessa, la donna che è, la donna che non sarà mai.

  Esiste solo nella fantasia, l’altra Shiho. Esistono solo nella fantasia, le altre Shiho. Non nella villa a ventidue piani, quella è riservata a Shinichi. Tutte le sue versioni alternative si basano su un solo modello, un punto di inizio da cui si diramano mille strade, tante equazioni accomunate da una costante: loro, l’Organizzazione, non esistono. Nemmeno lui c’è. Una vita senza Organizzazione è una vita in cui Elena e Atsushi non muoiono, una vita in cui Elena e Atsushi non muoiono è una vita in cui Akemi non muore, una vita in cui Akemi non muore è una vita in cui non c’è nessun veleno, una vita in cui non c’è nessun veleno è una vita in cui non c’è nessuno Conan Edogawa, una vita in cui non c’è nessun Conan Edogawa è una vita in cui non c’è nessuna Ai Haibara. Nessun noi, nessun loro. E se anche lo incontrasse in una realtà alternativa, in questa fase della sua vita felice sarebbe troppo diversa, troppo mutata nella sua stessa essenza, uguale a sé stessa solo nella forma. A formarti sono gli altri, tu puoi solo cercare di dare un senso a quello che creano, e senza il caos che la sforma dentro Shiho non avrebbe bisogno di specchi né di buchi neri. Li cerca solo perché le manca qualcosa, le manca qualcosa solo perché le è sempre mancato tutto.

  Le fa male la testa. Non ha senso interrogarsi su una realtà alternativa che, se esistesse, annullerebbe le domande che si pone ogni giorno, domande che la Shiho dall’altra parte non si porrebbe mai perché non ha bisogno di cercare negli altri il rovescio del proprio vuoto.

  Shinichi è un buco nero.
  Shinichi è uno specchio.
  Shinichi è una macchina fotografica.
  Shinichi è la foto che le scatta e ritrae la bugia di una persona opposta alla verità di tutto il mondo.
  Shinichi è il rovescio del suo vuoto.
  Shinichi è una bugia cucita sulla realtà. La più bella a cui credere, la più dolorosa da lasciar andare.

  Una villa di ventidue piani non basterebbe a contenere tutte le versioni alternative di Shinichi Kudo di tutto il mondo, servirebbe una villa infinita perché infinite sono le versioni alternative di Shinichi Kudo. Qualsiasi persona cerchi di scindere sé stessa in più due o sette o trenta entità sbaglia, perché quelle sono in realtà mille e anche di più, sono infinite, racchiuse strette strette in un corpo soltanto, in una coscienza soltanto.
  Shiho non s’immagina a vivere in quella villa, è troppo grande, troppo vuota. Ha paura che se solo ci mettesse piede ci vedrebbe l’allegoria del suo dentro, troppo grande, troppo vuoto, e scoppierebbe a piangere. Non il rovescio del suo vuoto, l’opposto: lo specchio del suo vuoto. Uno specchio molto più fedele di quanto non lo sia Shinichi, per quanto uno specchio possa esserlo, fedele, secondo l’ipotesi dello specchio e della macchina: allora, ancora meglio, la fotografia del suo vuoto.

  Le offre un caffè, lei accetta, le parla del suo lavoro, lei sta a sentire: scherzano pure. Le dice che è bello poter parlare di nuovo, che parlare con lei è persino facile perché queste cose le capisce e, quando lei arriva a indovinare il nome del colpevole ancora prima che Shinichi ne riveli l’identità, sul viso gli lampeggia evidente un senso di approvazione. Dice: sì, esatto, bravissima, proprio lui, il banchiere.
  La stranezza della loro condizione che ritorna. Non è solo l’inconveniente di essere rimasti bloccati entrambi, nello stesso arco di tempo, in un corpo di sei anni che non gli apparteneva, no, è il fatto che quel corpo di sei anni non gli apparteneva nemmeno la prima volta, erano già troppo grandi, ci stavano stretti. Shiho aveva pensato: ecco, sei come me. Un ragazzo estraneo alle convenzioni adolescenziali, un bambino troppo cresciuto, ma come un ologramma che rivela la sua appartenenza all’inganno non appena ci passi una mano attraverso, ora capisce che no, quello non è Shinichi, non quello vero.

  Shinichi è un buco nero.
  Shinichi è uno specchio.
  Shinichi è una macchina fotografica.
  Shinichi è la foto che le scatta e ritrae la bugia di una persona opposta alla verità di tutto il mondo.
  Shinichi è il rovescio del suo vuoto.
  Shinichi, che vuoto non è, è vuoto solo nella sua testa, solo nella villa di ventidue piani che Shiho gli ha arbitrariamente assegnato: lì, involucro (vuoto) da riempire, Shiho vi ha vomitato dentro pensieri e preconcetti che non gli sono mai appartenuti davvero. Shinichi ha detto mamma e ha detto papà; ha amato, ama; ha avuto amici prima di Conan, ne ha ancora, pure di più. Shinichi non la vede come una scheggia di specchio rotto, il suo, il loro, che insieme possono riparare per potersi finalmente guardare e pensare, urlare: ecco, sono io.

  Shiho una mattina si guarda, non si riconosce, non sa nemmeno com’è fatta.
  Pensa: ecco, sono io: nessuno.

  Ripensa spesso alla villa, basta chiudere gli occhi per trasferirsi in qualsiasi punto desideri, unica persona all’apparenza diversa in un mondo di automi tutti uguali, eppure tanto diversi tra loro quanto lo sono da lei. Shinichi è scrittore, è mago, è attore, è persino scienziato: è perché lui può tutto. Ma ad aver trionfato e ad aver lasciato la villa è il detective, è lui che ha vinto, ha vinto perché se l’è meritato. Shinichi Kudo di una realtà alternativa sarebbe spaccone e intelligente tanto quanto il detective, lui così ci è nato, la vita che si è scelto se l’è cucita su quello che è sempre stato.
  Shiho non ha scelto niente. Aveva scelto di morire, e pure quella scelta gliel’hanno strappata dalle braccia. Altro che libero arbitrio: la vita l’hanno scelta gli altri per lei, gliel’hanno cucita addosso, un cammino preciso e solitario da cui è stato impossibile deviare.
  Quella che è adesso è quella che è stata, che l’hanno forzata a essere, ma che comunque lei è stata: ecco che riprende a fantasticare su quella stessa villa di ventidue piani dai coinquilini infiniti, ma questa volta hanno tutti, tutte, la sua faccia, il suo nome. Shiho Miyano, non scienziata. Ma se ha detto mamma e papà, se lei e Akemi sono andate a scuola insieme per anni, se Akemi, spogliata del ruolo di madre, ha vissuto la sua adolescenza secondo le convenzioni e per un breve periodo di quella fase l’ha messa da parte – lei, Shiho – perché le sorelle minori non hanno niente a che spartire con le sorelle maggiori, allora Shiho Miyano è solo un nome da attaccare addosso a una qualsiasi bambina o ragazza o donna che sia, come un adesivo.

  Shinichi è il rovescio del suo vuoto.
  Shinichi è un fantoccio che lei ha riempito di bugie all’apparenza casuali ma che seguono un nesso logico minuzioso. Qualcuno che possa guardarla e dire: ecco, sono io, siamo noi, ti capisco. Qualcuno che lei possa guardare e a cui dire: se non ci fossi tu, uguale a me, mi sentirei pazza (vuota).

  Shinichi, quello vero, è il rovescio del suo vuoto. Due strade in principio simili che deviando diventano l’una l’opposto dell’altra, lo stesso concetto ma applicato al contrario, come una parola che venga letta da destra verso sinistra.

  Shinichi, quello vero, è una macchina fotografica. Si scatta una foto, ne scatta una anche a lei, gliele mostra e dice: ecco chi sono io, chi sei tu; lo vedi come siamo davvero? Più diversi che uguali.

  Lo specchio, il buco nero, se li è inventati lei: non si somigliano, e se Shinichi, quello immaginario, la risucchia è solo perché lei lo lascia fare, anzi, no, lo implora di farlo. Risucchiami, strappami in mille pezzi, assimilali e rendili parte di te, dimostrami che hai bisogno di me come io di te.

  “Ma io non ho bisogno di te.”
  Sono nella villa. Al sesto piano, dove c’è la biblioteca.
  Non c’è nessuno degli Shinichi, solo il detective.
  Deve essere tornato per sfotterla.
  “Non sono qui per sfotterti.”
  Sbuffa, si siede a gambe accavallate e braccia conserte come a volersi schermire da qualcosa, da qualcuno. Da lui, che sa esattamente quanto sa lei.
  “Sei più fastidioso di quello vero.”
  Lui fa spallucce. “Mi hai creato tu. Sai che non esisto davvero, fammi andare via.”
  “È per caso una seduta psichiatrica?”
  “Lo psicologo è al sedicesimo piano”, e indica con un dito il soffitto. “Se vuoi puoi parlare con lui, è indifferente, tanto ti direbbe la stessa cosa.”
  Shiho lo sente prim’ancora che apra bocca: tu non hai bisogno di me più di quanto io – quello vero – non abbia bisogno di te. La persona che compare dal nulla per risolvere tutti i nostri problemi esiste solo nella fantasia, una più ottimista di questa villa. Mi ami, non mi ami, chi se ne frega? Non è questo il punto. Guarda là.
  Le indica uno specchio, lei si guarda dentro: è vuoto.

  Si rivedono perché Shinichi voleva farle sapere di persona che ad aver ucciso la sua amica era stato davvero l’ex fidanzato geloso. Mormora mi dispiace, lei annuisce piano, un grazie silenzioso che spera lui riesca ad afferrare come se gli fosse caduto dalle labbra un attimo prima di essere pronunciato.
  «Tornerai a Tokyo?»
  «Devo.»
  Salutami il dottore, pensa di dire. Non aggiunge altro perché sa com’è fatto, come sono fatti – in questo sono davvero uguali, lei e Shinichi, lo specchio l’uno dell’altro – sa che non vuole parlarne, che non è arte di nessuno dei due, poi ci ripensa, dice: spero che tra voi due si risolva tutto.
  Shinichi la osserva come se vi vedesse attraverso e dentro di lei ci fosse un’altra persona.
  «Come l’hai capito?»
  Alza le spalle, cerca di non darvi troppa importanza perché se non lo fa lei sa che non lo farà nemmeno lui, almeno all’apparenza, e potranno parlarne. «Mai nessun messaggio, mai nessuna chiamata. Ho fatto due più due. Ma se vi foste lasciati non avresti ancora una vostra foto come sfondo del telefono.»
  Per un attimo gli legge in faccia lo stesso germoglio di ammirazione che hanno gli altri quando è a lui stenderli con una deduzione e, seppur della durata di un attimo, Shiho si sorprende di trovarne traccia, è un semplice unire i puntini secondo un nesso logico troppo semplice per lui.
  «Hai imparato dal migliore.»
  «Non lo conosco.»
  Ride, poi torna serio.
  «Pensavo fosse più facile.»
  «Che cosa?»
  Alza le mani, come a potersi esprimere a gesti. «Tutto.» Aggiunge: «Tra me e Ran. La amo, non basta questo?»
  Shinichi è scrittore, è mago, è attore, è persino scienziato: è perché lui può tutto. Una cosa che non è, è uomo comune, se con uomo comune s’intende chi ne capisca di esseri umani. Shinichi sarebbe capace di sbrogliare qualsiasi matassa, ma bastano due fili intrecciati in un nodo a gettarlo nel panico se solo quei fili non sono esseri inanimati ma pensano, respirano, hanno coscienza. È persino meno capace di lei, e ce ne vuole.
  «E lo chiedi a me?»
  «A chi altro?»
  Shiho sente le parole non dette schiacciate tra quelle dette: sì, lo chiedo a te, perché tu sei come me, non te ne intendi di queste cose ma te ne intendi abbastanza da dirmi dove sto sbagliando.
  Come se potesse aprirgli il petto, strappargli le viscere e leggendole comprendere quello che Shinichi stesso non vuole raccontargli.
  Lei si stringe nelle spalle, lui unisce le labbra in una linea sottile.
  «Ti accompagno a casa», dice infine.

  L’ha accompagnata fino al supermarket aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, quello di fronte al parco giochi, si è dovuto congedare prima del previsto. Ancora prima che si vedesse il suo appartamento un ragazzino delle superiori l’ha fermata, si è avvicinato timido, ha spostato più volte lo sguardo da lei al terreno come attratto da due magneti, infine ha detto: vi ho scattato una foto, a te e al tuo ragazzo. Gliel’ha data, è corso via imbarazzato.
  L’ha messa in borsa con un gesto veloce, ha pensato: a casa finisce dritta nel fondo del cestino.

  È finita nel fondo di un cassetto.
  Fa finta che non esista, poi quando si stanca di fingere la prende, la rigira tra le mani, la osserva, pensa: è bella.
  Ma anche: una bugia cucita sulla realtà.

  Shinichi, quello vero, è una macchina fotografica? Non n’è più tanto sicura. Anche lui sembra convinto che loro due sono più uguali che diversi, non viceversa. E poi verità, quale verità? Quale verità racconta la macchina fotografica che gli specchi non sono in grado? Un filtro, un ritocco al computer, e le imperfezioni se ne vanno, via, sparite. Nemmeno: basta fotografare una bella villa, mostrarla a tutti e dire: vedete, è casa mia, e ti crederanno. Una bugia cucita sulla raffigurazione della realtà.

  La villa, il rovescio del suo vuoto: i ventidue piani che tra un mese saranno ventitré, e comunque vuota sarà la villa.

  Riprende l’ipotesi degli specchi e della macchina fotografica, l’ha sperimentata, è fallita, ne formula un’altra, l’ipotesi dei buchi neri.

  L’ipotesi dei buchi neri è un paradosso: dovrebbero assorbire tutto ciò che li circonda, invece assorbono prima e solo sé stessi e mai, proprio mai, tutto il resto.  
   
 
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