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Autore: holls    11/04/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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33. Ragazzo americano

 

 

La cioccolata calda fumava. Ci misi la testa sopra e il vapore mi si attaccò sulla pelle, creando uno strato umido sulla fronte e sul naso che asciugai col maglione subito dopo. Il termometro segnava tredici gradi, ma fuori pioveva, così mi ero seduto sulla panca di legno della finestra ad arco che dava sul portico del ranch, con la tazza tra le mani e lo sguardo oltre il vetro.

          Mi strinsi nel maglione e soffiai sulla cioccolata, e intanto ascoltavo la pioggia cadere e la osservavo spiovere dal tetto del portico, ogni tanto chiudendo gli occhi e lasciandomi andare a un sospiro profondo. Soffiai ancora e bevvi un sorso, ma era ancora troppo calda e mi scottai la punta della lingua. Poggiai la testa sul muro e diedi uno sguardo a quella casa che mi aveva dato ospitalità per quasi due mesi e mezzo. L’arredamento era spartano: c’era un grande tavolo di legno in mezzo alla sala, con due panche dello stesso materiale sui due lati più lunghi, e dietro, sulla destra, un cucinino piuttosto essenziale con acquaio e fornelli e un paio di ripiani da lavoro. Non c’era bisogno del camino perché le temperature non erano mai così rigide in quella zona, quindi lo spazio avanzato era stato occupato con delle credenze a vetri e mensole colme di piante e piantine. Il tetto con le travi a vista era la parte che avevo preferito fin da subito, perché contribuiva a creare quell’aria rustica che avevo sognato dal primo momento che avevo messo piede fuori dall’aereo.

          Al piano di sopra c’erano le camere, essenziali pure quelle, ma non mi ero mai potuto lamentare della mia qualità del sonno. A dirla tutta, da quando ero arrivato lì, i ritmi della mia vita erano stati stravolti e se sulle prime mi era sembrato impossibile abituarsi, dopo pochi giorni avevo già trovato il mio equilibrio. Al ranch si lavorava tanto, anche dodici ore al giorno e sotto la pioggia battente, non esistevano sabati e domeniche, eppure non avevo rimpianto quasi niente della mia vita a New York, a parte qualche ovvia comodità, come il poter fare la spesa a qualsiasi ora invece che ogni quindici giorni. L’unico lusso che mi potevo concedere era la pausa sigaretta che non faceva in tempo a durare un quarto d’ora, perché alla stalla c’era sempre da fare, così avevo cominciato a fumare molto meno, anche se non avevo smesso del tutto e non avevo intenzione di farlo.

          Bevvi un altro po’ della mia cioccolata e riuscii a mandarne giù un sorso senza scottarmi. Nel frattempo mi scaldavo le mani, che da quando ero arrivato lì erano in uno stato di perenne gelo.

          Quelle stesse mani avevano però seminato spinaci e barbabietole e trapiantato cime di rape e porri invernali; e quando novembre aveva bussato alla nostra porta portando con sé i primi venti freddi, era stato il momento di coprire le piante o di spostarle in serra, e anche di concimare il terreno per le colture dei mesi a venire. Passavo la maggior parte delle mie giornate con gli indumenti da lavoro, sporchi di fango e terra, la stessa terra che a fine giornata trovavo incastrata sotto alle unghie e incrostata sulle mani. Poi era arrivato dicembre, mese sterile per buona parte delle coltivazioni, ma lo stesso non si poteva dire per il bestiame. Con l’esperienza di Sully, il proprietario del ranch, e Zoe, uno scricciolo di otto anni in salopette da quando era nata, avevo infatti aiutato una manzetta a dare alla luce la sua prima vitellina.

Zoe aveva insistito per chiamarla Betsy, perché secondo lei era un nome carino che stava bene con Daisy, un’altra vitellina partorita a novembre. E quindi, da quando erano nate, mi assicuravo che prendessero il latte di cui avevano bisogno e che le loro gabbiette fossero sempre pulite e piene di paglia asciutta.

Sorrisi ripensando all’emozione che avevo provato nel vedere una nuova vita mettere piede nella stalla, all’aspetto disordinato ma tenero della nuova arrivata. Il miracolo della vita e della nascita aveva davvero un sapore ancestrale, un’attesa che nasce incorporea per diventare sempre più tangibile di mese in mese; e quando quell’attesa si era tramutata in un paio di zoccoli prima e in una testolina curiosa poi, non avevo potuto fare a meno di far scendere una lacrimuccia e di sentirmi un po’ il padre putativo della piccola Betsy - be’, piccola, era pur sempre una vitellina di quaranta chili.

Sorseggiai ancora un po’ della cioccolata calda, mentre lasciavo che i ricordi mi scorressero nella mente, non senza un filo di emozione.

          Zoe e Sully, al piano di sopra, ancora dormivano. Di lì a poco si sarebbero svegliati entrambi pieni di entusiasmo - forse più Zoe, complici i suoi otto anni - per dare il benvenuto alla nuova ragazza che avrebbe dato una mano al ranch. Veniva dal Texas, non aveva grande esperienza con gli animali ma era abituata alla fatica, dettata soprattutto dalle estati torride texane che spesso sfioravano i trentotto gradi.

          Poco alla volta finii di bere la mia cioccolata. Avevo le mani bollenti, uno dei piaceri che più amavo concedermi prima di cominciare una giornata di duro lavoro. A volte le scaldavo davanti alla stufetta elettrica che avevo in camera, ma anche stringerle intorno a una tazza calda non era male.

          Guardai fuori dalla finestra: mancava ancora un po’ al sorgere del sole. Mi alzai dalla panca, mi avvicinai al lavello e misi un po’ di acqua nella tazza, poi mi lasciai andare ai pensieri sulla giornata che mi attendeva.

Mancavano due giorni a Natale ed ero eccitatissimo, per tanti, troppi motivi. Cominciai a fantasticare sui giorni a venire, e anche sulle settimane, sui mesi, chiedendomi se sarebbero stati come li avevo immaginati. Di conseguenza mi domandai quanto mancasse al suono della sveglia di Sully, quella che scandiva le ore di sonno e veglia di tutti e tre, quella che ufficializzava l’inizio di un nuovo giorno; così, quando uno stridio acuto e fastidioso riempì l’aria del piano di sopra, un sorriso da parte a parte mi si aprì sul viso, e cominciai a sperare, con rinnovata eccitazione, che quella giornata passasse più velocemente possibile.

 

«Naty, devi proprio?»

          Zoe mi si era attaccata al maglione e me lo tirava, e intanto mi guardava con quei suoi occhioni azzurri che sarebbero scoppiati a piangere di lì a poco. Mi chinai quel poco che bastò per abbracciarla, poi le arruffai i capelli e lei ridacchiò. Sully ci osservava dalla panca del tavolo, dove aveva apparecchiato per due.

«Mi dispiace, piccola. Però sappi che mi sono divertito un mondo a far nascere Betsy insieme a te.»

Lei finì di asciugarsi le lacrime con la manica del pigiama, poi cominciò a tirare su col naso. Mi dispiaceva davvero vederla piangere senza poter far niente.

«Il prossimo vitellino che nascerà lo chiamerò come te, va bene?»

«Mi sembra un’ottima idea.»

Lei mi abbracciò di nuovo e io la strinsi a mia volta. Mi ricordava Jimmy, a cui avevo telefonato qualche giorno prima per sentire come stava. Ci eravamo sentiti qualche volta durante quei mesi, e ogni volta, puntuale, mi chiedeva quando sarei tornato. Nell’ultimo periodo mi aveva chiesto spesso se mi avrebbe rivisto per le feste, una domanda su cui avevo cominciato a riflettere dopo che avevo cannato in pieno il Ringraziamento.

Jimmy mi stava aspettando da quando avevamo giocato insieme con le formiche sul muretto e giorno dopo giorno, mi ero reso conto, avevo cominciato a chiedermi se ci fossero altre persone in attesa del mio ritorno. Una in particolare, a dire la verità.

«Zoe, lascialo andare, altrimenti farà tardi!»

Sully si alzò dalla panca e camminò verso di noi, con quella sua andatura che non di rado faceva vibrare le assi del pavimento. Le strinse piano una mano sul braccio e tentò di trascinarla via da me perché a volte era peggio di un’adorabile sanguisuga, ma alla fine smise di opporre resistenza e ci separammo.

Sully mi guardò con occhi riconoscenti ed ero certo che anche nel mio sguardo ci fosse lo stesso sentimento. Lui mi sorrise e mi porse la mano, così io feci altrettanto.

«È stato un piacere averti qui, Nathan. Buon ritorno a casa.»

«Ti ringrazio, Sully. E grazie per l’ospitalità, per questo posto, per… tutto.»

Le nostre mani ondeggiarono un paio di volte e poi la stretta terminò. Afferrai la valigia e nello stesso istante Zoe prese la mano di suo padre, gli occhi di nuovo lucidi. Li salutai ancora, poi aprii la porta e, valigia alla mano, diedi il mio addio a quel piccolo ranch e alla California.

 

All’aeroporto mi ci aveva portato un amico di Sully, che ringraziai a non finire perché il ranch era un po’ fuori città e il viaggio di certo non dei più brevi. Arrivai in perfetto orario per le operazioni di check-in e controllo bagagli, e quando mi misi seduto al mio posto sentii di nuovo quel pizzico di eccitazione attraversare tutto il mio corpo. Quando l’aereo cominciò le operazioni di decollo, mi fu inevitabile pensare a quello che gli avrei detto una volta sbarcato. Volevo telefonargli con la scusa degli auguri di Natale, perché morivo dalla voglia di risentire la sua voce e guardai fuori dal finestrino perché mi sentii arrossire di colpo. Nella mia testa poco era cambiato dal giorno in cui ci eravamo salutati, a cominciare dal fatto che in quei due mesi avevo continuato a sentirmi un pochino il suo ragazzo. In realtà alla fattoria non c’erano state tutte quelle occasioni di cui avevano parlato gli altri, ma anche se ci fossero state non ne avrei proprio approfittato, perché con Alan avevo solo messo in pausa il tempo per rimettere un po’ di ordine, quell’ordine che aveva dato di nuovo un senso alle mie priorità, e dove in cima c’erano sempre lui e Jimmy.

          Cercai qualcosa da fare in quelle ore che mi separavano da New York, durante le quali il mio entusiasmo non faceva che aumentare, e sentivo dentro di me un sorriso crescente mano a mano che ci avvicinavamo all’altra costa.

In mezzo a quella gioia, però, c’era anche un pizzico di preoccupazione - in fondo ci aveva messo poco a prendersi una sbandata per me, e chi mi diceva che in quei due mesi e mezzo non gli fosse ricapitato?

Era uno scenario per cui dovevo comunque prepararmi e cercai di farlo, ma l’attimo dopo la realtà cominciò a mischiarsi ancora con la fantasia e quindi ripensai a ciò che era successo dopo il Royale e a quello che sarebbe potuto succedere ancora. Il cuore palpitava da morire e non riuscivo a farlo stare calmo, e quell’irrequietezza mi circolava in tutto il corpo, così tanto che ero incapace di stare fermo. Dovevo muovere qualcosa, che fosse un piede o l’accavallare le gambe ora di qua e ora di là, o in maniera più banale anche solo muovere la testa e guardarmi intorno, trovando interessante pure la spia della cintura di sicurezza.

Alla fine chiusi gli occhi e mi venne l’acquolina all’idea di come sarebbero andate le cose. Mi chiesi quanti secondi lo avrei lasciato in silenzio di fronte alla mia chiamata, immaginai la sua espressione sorpresa, quasi pietrificata di fronte al mio nome sullo schermo del cellulare, e poi un suo “Ciao” a metà tra l’incredulo e lo stupito… Sì, già pregustavo quella scena dal sapore romantico, e quella parola mi fece immaginare noi due coi cappellini di Natale a darci un bacio sotto al vischio, quello che di sicuro aveva messo in casa sua perché era troppo preciso per non rispettare le tradizioni.

Soffiai una risata perché nessuno mi aveva mai fatto sentire in quel modo, e la distanza aveva solo rafforzato i miei sentimenti invece di spegnerli del tutto. E se un amore aveva resistito a due mesi e mezzo di no-contact spietato, allora ne valeva proprio la pena.

Erano ormai le sette passate quando cominciai a intravedere le luci di New York nel buio della sera. A stento trattenni un sorriso che si tradusse in un risolino di gioia - ero tornato a casa.

Divenni impaziente all’idea di atterrare e quasi volevo urlare quando le ruote toccarono l’asfalto della pista, segno che di lì a poco sarei potuto tornare alla mia vita. Osservai dal finestrino l’aereo che atterrava ed ebbi un tuffo al cuore quando i miei occhi si riempirono con gli edifici del JFK. Ero davvero tornato.

I portelloni si aprirono e saltai su dal sedile come una scimmia. Mi feci largo per recuperare la prima parte dei miei bagagli - per il resto avrei dovuto aspettare lo scarico delle valigie - e mi misi in fila nella maniera più ordinata possibile, anche se ogni tanto allungavo il collo per vedere a che punto fossero e a sperare che si dessero una mossa. L’aria frizzantina di dicembre alla fine mi colpì, ed era più fredda di quella della California, ma il mio giubbotto resse il colpo, forse grazie anche all’euforia che provavo. Feci una corsetta per accaparrarmi un posto nel bussino e intanto guardavo l’ora, mentre pensavo che con ogni probabilità Alan aveva già finito di mangiare da un pezzo e ora si stava godendo la serata seduto di tutto punto sul divano. Sentii all’improvviso la mancanza dei suoi polsini chiusi e della sua camicia nei pantaloni e desiderai teletrasportarmi a casa sua con un battito di ciglia, per poi maledire la tecnologia perché ancora non aveva inventato una cosa simile.

Le porte degli arrivi si aprirono così come il sorriso sulla mia faccia. Mi brillavano gli occhi e avrei potuto anche baciare il pavimento dell’aeroporto se non fosse stato sconveniente e anche un po’ schifoso. Quindi il pavimento dovette accontentarsi di un bacio virtuale, ma dato con tutti i sentimenti, giuro e spergiuro.

Mi misi in un angolo e tirai fuori il cellulare, che finalmente aveva campo. Le mani mi tremavano un po’ mentre cercavo il numero di Alan e schiacciavo il pulsante per avviare la chiamata - no, no, macché, ero tutto un fremito. Mancava poco che piangessi dall’emozione e quando agganciò la linea…

«Il numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La preghiamo di riprovare più tardi.»

… il sorriso mi morì in faccia. Aveva spento il telefono? Lui? Quello che risultava raggiungibile anche agli orari più improbabili della notte?

Rifeci la chiamata forse aspettandomi un risultato diverso, ma l’esito fu lo stesso. Il suo telefono non era raggiungibile. Poteva anche essere che fosse scarico, per carità. E in mezzo a quei pensieri si intrufolò anche qualche catastrofismo e il senso di colpa cominciò a risalirmi su per la gola. Magari aveva voluto far perdere ogni traccia di sé e aveva cambiato numero, perché mi odiava e non voleva più che lo raggiungessi in alcun modo. Potevano esserci un miliardo di possibilità, ma dovevano verificarsi proprio in quel momento? Non potevano aspettare, che so, dieci minuti?

Ecco, pensai, quello era un segno del destino. Tutti i film che mi ero fatto sull’aereo svanirono in un soffio e rimasi solo con la mia realtà. A farmi compagnia, però, spuntò anche un lampo di genio e mi affrettai a cercare un altro numero in rubrica. La linea squillava.

«Nathan?»

Sì cazzo.

«Ehilà, ciao Ash.»

Ci fu un momento di silenzio durante il quale mi venne in mente una cosa intelligente da dire.

«Non preoccuparti, sono tornato, non ti sto spennando con questa chiamata.»

Lo sentii sospirare, anche se era difficile dirlo con tutto quel casino.

«Sei tornato? Da quanto?»

Guardai l’orologio e feci un rapido calcolo.

«Più o meno venti minuti.»

«Oh», disse soltanto, con tono sorpreso. «Sei tornato per le vacanze?»

«In realtà sono tornato per restare.»

«Oh», disse di nuovo, stavolta più stupito.

Feci un bel respiro e mi decisi a sganciare la bomba.

«A questo proposito volevo chiederti…», tre, due, uno, «sai per caso dov’è Alan? Ho provato a chiamarlo ma ha il telefono spento.»

Seguirono degli attimi di silenzio e il mutismo di Ash cominciò a non piacermi. Era stupido fasciarsi la testa in quel modo, ma… no, non mi piaceva per niente.

«Ash?»

«Alan sta bene», rispose dopo un’eternità. «È andato dai suoi per passare il Natale.»

Cosa?!, avrei voluto gridare, ma mi trattenni. Non era possibile. Di sicuro non era partito da molto se era tornato là per le feste e nove su dieci ci eravamo mancati per pochissimo. Provai a pensare.

«Ma in Inghilterra, dici?»

«Sì. So che ha un’altra SIM per quando sta laggiù, ma non ho il numero.»

Una fitta di delusione si impossessò di me. Alzai gli occhi al cielo. Da quanti giorni poteva essere partito? Uno? Due? Mi maledii per aver ritardato la mia partenza, anche se era stato per una giusta causa.

«Ma non ti ha lasciato nessun recapito per le emergenze? Nemmeno un numero di casa, qualcosa?»

Mi sembrò di sentirlo sospirare di nuovo ed ebbi la sensazione, piuttosto spiacevole a dire il vero, che non mi stesse raccontando proprio tutto.

«No, niente di niente.»

Quello fu il mio turno per sospirare perché non era proprio possibile quella situazione. Certo, ripensandoci forse avrei dovuto aspettarmelo, perché d’altronde che ci rimaneva a fare qui da solo se aveva tutta la famiglia da un’altra parte? Forse mi ero lasciato ingannare perché qualche volta i suoi erano venuti a trovarlo e avevo dato per scontato che lo avrebbero fatto anche quella volta. Ero stato proprio un cretino.

«Nathan? Ci sei ancora?»

«Sì, sì, ci sono.»

«Senti un po’», e il suo tono si fece più duro, «sei davvero tornato per restare? Davvero davvero?»

No, non era un’impressione: aveva realmente un tono inquisitorio nel farmi quella domanda. Ma a che pro?

«Davvero davvero», ripetei. «Sono venuto qui con un biglietto di sola andata, se è questo che chiedi. E non ho intenzione di ripartire.»

Lui stette zitto un attimo, poi udii uno schiocco di labbra e un lungo sospiro.

«Va bene, senti, ora devo andare. Ti mando una cosa per messaggio, vedi tu cosa farne.»

«Ok», risposi poco convinto e un filo infastidito dal suo tono. Mi aveva messo un po’ a disagio ed ebbi l’impressione, per la prima volta da quando lo conoscevo, di non piacergli poi così tanto. Forse era incazzato con me perché me ne ero andato e avevo lasciato Alan da solo? Possibile. Forse gli aveva reso la vita impossibile come quando lo avevo conosciuto? Probabile pure quello.

«Bene, vado. Bentornato, comunque.»

«Grazie mille. E grazie anche per le informazioni», risposi, ma non mi fece nemmeno finire la frase che aveva già riattaccato.

A quel punto ero molto, molto curioso di sapere cosa mi avrebbe mandato e sperai che non fosse una sequenza di insulti, che in fondo sentivo di non meritare. Quello che era successo tra me e Alan era una cosa nostra e di nessun altro, nel bene e nel male, e Ash non avrebbe avuto motivo di intromettersi.

Rimasi a fissare quel benedetto cellulare a malapena sbattendo le palpebre perché ero troppo curioso, perché dovevo sapere. Riuscii a ignorare pure i lamenti del mio stomaco per via dell’attenzione che quello schermo esercitava su di me.

E poi… alla fine vibrò.

Era proprio un messaggio ed era proprio da parte di Ash.

Il cuore riprese a martellarmi come non aveva fatto in tutta la giornata, troppo ansioso di scoprire cosa mi avesse mandato.

Lo aprii e per poco non mi prese un colpo.

Un indirizzo di casa.

A Brighton.

 

Il primo aereo disponibile per Londra era alle dieci e ventisette di sera, con arrivo alle undici di mattina del giorno dopo, più o meno. L’addetta alle prenotazioni stava controllando se per caso ci fosse stato ancora un posto libero, visto il periodo e il poco preavviso.

          Ero un pazzo a fare quello che stavo facendo, me ne rendevo conto. Eppure sentivo anche tutta l’adrenalina pizzicarmi la schiena dall’alto al basso, e viceversa.

          L’addetta smise di controllare lo schermo e mi rivolse un sorriso, che sperai non fosse di circostanza.

          «A quanto pare è il suo giorno fortunato. Ci sono ancora due posti liberi in seconda classe.»

          Rimasi incredulo a bocca spalancata. Stavo davvero per fare quella follia? Sì, la stavo proprio per fare.

«Ottimo, le do i documenti. Quant’è?»

 

Rimasi seduto in sala d’attesa a contare i minuti, che come da copione non volevano saperne di passare. Mi ero comprato un pacchetto di patatine ma non avevo più fame, perché l’aver acquistato quel biglietto aveva trasformato la mia piccola pazzia in qualcosa di palpabile - e mi sembrò di udire una lamentela dal mio portafogli che decisamente aveva toccato con mano quella realtà.

Alla fine decisi di dire addio ai miei buoni propositi, pensando che avrei potuto aspettare l’anno nuovo per cominciare a rispettarli, raggiunsi l’area fumatori al freddo e al gelo e mi accesi una Marlboro. Feci il primo tiro e soffiai fuori il fumo lasciando che mi accarezzasse le labbra, con un senso di piacere che non avevo più provato, perché le fumate al ranch erano né più né meno che una sveltina. Invece in quel momento mi stavo godendo quella pausa solitaria tra me e la sigaretta, una ritrovata compagna per distendere i nervi, che mi portò subito ad abbandonare i pensieri negativi su ciò che avevo fatto poco prima per lasciare spazio alle immagini che invece si erano fatte strada sull’aereo. Tornò il quadretto romantico del bacio sotto al vischio, tornarono i cappellini di Natale in testa, e fecero capolino anche i maglioni imbarazzanti che grazie al cielo non avevo mai avuto, ma pensai che Alan potesse essere il tipo perché incapace di dire di no a un regalo brutto. Tutto questo contornato, ovviamente, da musica natalizia in sottofondo e un caminetto scoppiettante.

Lì con me c’erano una decina di persone ad annebbiare l’aria e a godersi quel momento di sano relax. Stipati tutti insieme sembravamo un po’ degli emarginati a dire il vero, ma tutto sommato era già tanto se ci avevano lasciato quel piccolo spazio fuori dal terminal. Poi si alzò un pochino il vento e buona parte di quel fumo mi travolse e mi accarezzò il viso e i vestiti. Io lo respirai a pieni polmoni e poi mi tornò in mente Alan che mi chiedeva di fumare fuori sul suo terrazzino perché altrimenti gli lasciavo la puzza di fumo in giro per casa. E come dargli torto?

Ad Ash comunque non avevo detto niente a proposito del mio acquisto. Non ero così sicuro che non sapesse come raggiungere Alan per telefono e avevo paura che potesse rovinargli la sorpresa. A ripensarci, però, forse il suo terzo grado poteva avere anche uno scopo affettuoso, come ad assicurarsi che il suo amico e collega non corresse il rischio di farsi spezzare il cuore un’altra volta. In quell’ottica avevo senso la sua diffidenza e il suo volermi rifilare la strada più lunga, magari proprio per vedere se ci tenevo, e quanto. Be’, se pensava di fregarmi sarebbe rimasto presto deluso, perché io ad Alan ci tenevo davvero ed ero stato disposto a dar fondo a buona parte dei miei risparmi per poterlo riabbracciare il prima possibile. Certo, avrei potuto aspettare che tornasse, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Nella mia mente si alzò un dito medio e un ghigno soddisfatto mi si stampò sulla faccia - uno a zero per me.

Mentre mi godevo il mio attimo di soddisfazione per la mia rivincita contro Ash, mi venne in mente mio fratello. Ero tornato anche per lui, in fondo, e mi dispiaceva non poter passare il Natale insieme o anche solo provarci. Mi dissi che avrei potuto approfittare del viaggio in Inghilterra per prendergli qualcosa di tipico - magari un modellino del London Eye o una cabina telefonica rosso fiammante. Però forse c’era qualcos’altro che potevo fare, tipo chiamarlo per sentire come stava.

Mentre con una mano tenevo la sigaretta, con l’altra tirai fuori il telefono dalla tasca. Feci un tiro bello denso e sentii il fumo entrarmi dentro; nel frattempo cercai il numero di casa e avviai la chiamata. Era libero. Soffiai via il fumo schiudendo appena le labbra, in modo che fluisse via piano, e rimasi in quella stessa posizione quando qualcuno alzò la cornetta.

«Sì?»

Erano due mesi e mezzo che non sentivo quella voce. Avrei potuto dire che non mi era mancata per nulla, ma avrei mentito.

«Ciao, papà.»

Tutte le sante volte era la stessa storia: mi facevo prendere dall’emozione e la voce mi tremava. Avremmo potuto stare lontani anche dieci anni, ma sapevo che mi avrebbe fatto sempre quell’effetto.

«Nathan?»

La sua voce era leggermente cambiata rispetto a quando aveva risposto. Era diventata più fredda e guardinga, più rigida. Avrei voluto rispondergli con sarcasmo, perché quante persone conosceva che lo chiamavano “papà” e avevano più di cinque anni? Ma avrebbe potuto scambiarlo per spocchia, e non volevo complicare una situazione già delicata di suo.

«Sì, sono io. Sono tornato. Anche se tra poco riparto per l’Inghilterra, ma ci sto poco.»

Perché avevo aggiunto quel dettaglio? Ah, ma io lo sapevo perché: volevo che mi chiedesse com’era andata in California, o quanto stavo in Inghilterra, se avevo intenzione di passare qualche festività con loro. Sì, lo sapevo io il perché. E sapevo anche che non avevo imparato niente, e che forse non lo avrei fatto mai.

«Inghilterra? E che ci vai a fare là?»

Però ecco, forse non era una speranza del tutto illusoria, perché quella aveva tutta l’aria di una conversazione. La prima con mio padre dopo… secoli? Avevo perso il conto. Ma mi si strinse il cuore, perché non potevo dirgli cosa davvero andavo a fare laggiù.

«Così… un giro.»

Lui stette zitto per un attimo.

«Un giro», ripeté poi con tono sospeso, come se stesse valutando quell’affermazione.

Vabbè, non se l’era bevuta. Pazienza. Risposi con una specie di mugolio come a voler ribadire il mio concetto.

Cadde il silenzio tra noi eppure a me sembrava tutto fuori che quello. Anche stare in silenzio era una grande conquista con lui, soprattutto perché non mi faceva sentire a disagio. Il fatto che rimanesse in linea, pur senza dire niente, mi faceva sentire una sorta di vicinanza, che se fosse stato lì si sarebbe potuto tradurre in un braccio sulla spalla o in un qualunque altro gesto protettivo.

«Vuoi parlare con tua madre?»

«No», sputai secco. Era stata una risposta impulsiva, non ci avevo nemmeno riflettuto.

«No?», chiese, con tono sorpreso.

La verità era che volevo stare con lui, recuperare il tempo perso e quei momenti insieme che non ci era stato concesso di trascorrere. Adoravo mio padre, ecco cos’era. Era uno stronzo e il nostro rapporto era quanto di più malsano potesse esistere, ma io lo adoravo, nonostante ciò che mi aveva fatto, e non avevo mai perso le speranze che tra noi potesse tornare come era un tempo. Perché anche lui mi aveva adorato, per tanti, lunghi anni, ero stato il suo orgoglio, il suo figlio prediletto, e non era il tipo di amore che può svanire così, in un battito di ciglia. Forse avevamo solo perso il modo di comunicare, forse avremmo solo dovuto fare tabula rasa, ricominciare da capo.

Mi accorsi che la sigaretta stava bruciando tra le dita, così feci un tiro veloce.

«Nathan?»

Adoravo anche il modo in cui diceva il mio nome, con quel tono al vago sapore di incazzatura a cui però mi ero affezionato.

«No, non mi va di parlarci ora. Jimmy c’è?»

«È a letto da una mezz’ora. Lo devo svegliare?»

«No, no», mi affrettai a rispondere. «Non importa. Digli solo…», e pensai che non lo volevo dire solo a Jimmy, ma anche a lui, «che sto in Inghilterra per qualche giorno e che poi vengo a salutarlo.»

Mio padre emise un suono di assenso e fece una pausa, come se stesse nuovamente studiando la situazione. Non lo sentivo nemmeno respirare, mentre ero sicuro che si sentisse piuttosto bene che mi stavo fumando una sigaretta.

«Vabbè, io vado, non vorrei perdere l’aereo. Ciao, papà.»

E buon Natale, mi sarebbe piaciuto aggiungere, ma non avrebbe mai ricambiato.

«Ciao, Nathan.»

Riagganciò. C’era stata una leggera inflessione nel modo in cui aveva detto il mio nome, l’avevo sentita. Un remoto, appena udibile retrogusto di tenerezza, un segnale che nessuno avrebbe percepito, se non qualcuno che lo aspettava a gloria. Ancora non mi capacitavo di cosa avesse provocato quel cambio di atteggiamento in lui e sapevo che non me ne avrebbe mai parlato. Potevo solo accettarlo e godermelo, con la consapevolezza che quel briciolo di affetto sarebbe potuto sparire da un momento all’altro, senza alcun preavviso.

Feci un altro tiro.

In fondo, pensai, se quel tira e molla con mio padre andava avanti da anni era solo perché a turno uno tirava e l’altro si faceva trascinare. Era un gioco delle parti, uno schema che funzionava solo perché eravamo in due a partecipare, e io ci stavo dentro perché fino ai miei quindici anni era stato un buon padre e gli volevo bene. Quanto a lui, non potevo sapere perché continuasse a strascicare quella situazione con me, ma immaginavo che le motivazioni potessero essere due: o il bisogno di sentirsi importante dettato da un ego smisurato, o la voglia di non perdere quel figlio per cui aveva straveduto per anni.

Aspirai la sigaretta e feci uscire il fumo, poi mi avvicinai al posacenere e la schiacciai finché non si spense.

Neanche a dirlo, il mio cuore batteva per la seconda opzione.

 

Nel momento in cui mi misi in fila per l’imbarco, spostai lo sguardo verso l’immensa vetrata del terminal e un brivido di eccitazione, lo stesso che avevo avuto qualche ora prima, cominciò a circolare in tutto il mio corpo. Nel buio della notte si scorgevano solo i fari delle torri di controllo e le luci degli aerei in decollo e atterraggio. In lontananza mi parve di intravedere anche i fari che delimitavano la pista dell’aeroporto, ma non ne ero sicuro. Di nuovo ebbi quella sensazione di non riuscire a stare fermo, di desiderare che le ore scorressero più veloci possibile, a maggior ragione quando finii di espletare le noiose formalità di controllo biglietto e ottenni il via libera per iniziare il viaggio più pazzesco della mia vita.

          Non ero mai andato così lontano e di certo non lo avevo mai fatto per amore, una miscela di elementi che ebbero l’effetto di far schizzare i battiti del mio cuore a un ritmo incontrollabile, tanto che mi venne voglia di mettermi a ridere senza una ragione - ero solo felice. Quando l’aereo decollò, mi si stampò ancora una volta in faccia quel sorriso ebete che si allargava ogni volta che pensavo ad Alan. Tra sole sette ore - va bene, forse un po’ di più - lo avrei riabbracciato e con un pizzico di fortuna avremmo anche passato il Natale insieme, un pensiero che mi faceva impazzire di gioia al solo pensarci. Era da tanto, troppo tempo che non trascorrevo una festività a modo e anzi, col passare degli anni, avevo pure cercato di dimenticare cos’erano state le feste prima che a mio padre scoppiasse la vena, perché erano proprio i momenti in cui tutti sembravano felici e amati, tranne me.

          Quel pensiero fu soppiantato da Alan e mi domandai se in occasioni del genere cucinasse lui, visto che gli piaceva tanto. E cosa preparava in particolare? Avrei avuto occasione di assaggiare qualcosa?

          I pensieri su Alan e il Natale mi fecero compagnia per poco più di una mezz’ora, dopo la quale crollai per il sonno, cullato dal rumore di fondo del ricircolo dell’aria e dei motori. Non fu una dormita comoda, ma soprattutto a svegliarmi fu la luce che filtrava dal finestrino, nonostante fosse abbassato quasi fino in fondo. Spalancai gli occhi e mi presi un attimo per ricordarmi cosa ci facevo là, poi guardai l’ora e mi accorsi che erano le tre del mattino. Alzai un altro po’ il finestrino e abbassai la testa per sbirciare - sì, entrava luce. Alle tre del mattino. Ma poi il mio cervello ebbe un guizzo di intelligenza, una connessione inaspettata tra i neuroni e le parole “fuso orario” lampeggiarono nella mia mente come una luce a neon per qualche secondo. Mi feci i complimenti da solo per l’intuizione non del tutto scontata a quell’ora della notte e dopo tutto quel tempo in viaggio, poi mi risistemai sul sedile in uno stato di pace mentale per aver risolto quel mistero e mi riappisolai tranquillo.

          Dopo circa un paio d’ore era già mattina inoltrata e me ne stavo con la faccia attaccata al finestrino e la bocca spalancata come un bambino di fronte a un gigantesco pacchetto di caramelle. Finalmente vidi uno scorcio di terraferma dopo ore e ore di oceano, e c’erano centri abitati ma più che altro colline e strade isolate. Ma poi le strade divennero sempre più fitte, finché non intravidi una città gigantesca che non poteva che essere Londra.

          Mi venne da piangere all’idea di essere quasi arrivato, all’idea di essere a un passo così dal rivedere Alan. E quando l’aereo sobbalzò per via dell’atterraggio, sentii una voce dentro di me cominciare a urlare per l’eccitazione e l’emozione. Non appena misi piede sul suolo britannico e oltrepassai, per la seconda volta in poche ore, la porta automatica degli arrivi, un milione di pensieri e di scenari mi attraversarono la mente: c’era Alan, ma c’era anche il mio primo viaggio intercontinentale e primo in Europa. Senza un motivo mi tornarono in mente pure le parole di Harvey che l’aveva definita provinciale, ma a camminare tra i corridoi del terminal a me non sembrava affatto. Sì, c’era un’atmosfera diversa, a cominciare dai prezzi in sterline che mi provocarono un attimo di smarrimento, ma per il momento decisi di non pensarci troppo e di godermi quell’inaspettata ventata di novità.

          Passai accanto a un gruppo di inglesi e la mia bocca si spalancò in un sorriso quando ascoltai l’accento, in qualche modo simile a quello di Alan. Non avrei saputo dire se fosse lo stesso, ma mi eccitò pensare che forse ci avrei potuto fare l’abitudine in pochi giorni. Mi chiesi come fosse vedere Alan nel suo ambiente, se avesse un accento più o meno marcato rispetto a quando stava a New York. Ogni tanto si lasciava andare a qualche accenno di slang della sua città di adozione, ma con certe parole era impossibile non capirne la provenienza, o anche solo quella leggera inflessione che metteva nelle frasi.

          I miei occhi intanto catturavano tutto - i menù dei ristoranti, i cartelloni pubblicitari - con un brillio di curiosità che forse avevo provato l’ultima volta da bambino di fronte a qualche insegnamento di mio padre in perfetto stile boy scout. Mi sembrava tutto bellissimo, tutto nuovo, e lo fu ancora di più sapere che potevo raggiungere Brighton con il treno, mezzo affascinante ma dal sapore piuttosto mistico negli Stati Uniti.

E così acquistai, con un pizzico di emozione, un biglietto del treno dall’aeroporto di Gatwick a Brighton alla modica cifra di venticinque sterline, che mi ero affrettato a cambiare poco prima, chiudendo un occhio sui micidiali tassi di cambio a cui lanciai più di una maledizione. Mi ripromisi di cambiare altre banconote in un punto meno costoso, magari su suggerimento di Alan.

Mi misi in attesa alla banchina finché un convoglio della South Central non fece capolino da lontano, fino a fermarsi al binario dove ero in attesa. Nella mia testa spuntarono tutta una serie di “Aaah” e “Oooh” ogni volta che facevo un passo in più all’interno del treno, che mi colpì per quanto mi sembrò piccolo, ma comunque bellissimo. A misura d’uomo, ecco.

Individuai il mio posto e mi ci sedetti. Il viaggio sarebbe durato poco più di mezz’ora e mi chiesi quante altre piccole tratte mi stavano separando da lui. Fremevo all’idea di essere così vicini e fremevo ancora di più al pensiero che lui non ne avesse la minima idea. Quando le porte del treno si chiusero, mi ricordai del sacchetto di patatine che avevo comprato al JFK e mi ci fiondai, perché il pasto sull’aereo mi aveva riempito il giusto, e mi leccai le dita senza ritegno nonostante fossi in un luogo pubblico.

Sul treno mi sforzai di non addormentarmi per non perdere la fermata, ma fu piuttosto complicato. Di quando in quando mi svegliavo all’improvviso e guardavo lo schermo con l’indicazione della tratta, tirando un sospiro di sollievo perché ancora non eravamo arrivati. Poi mi perdevo di nuovo a fantasticare sulle prossime ore e la palpebra mi calava, ripetendo quel ciclo di sonno e veglia per una quantità infinita di volte.

Quando però la voce all’altoparlante annunciò l’arrivo alla fermata di Brighton, mi sentii più sveglio che mai; afferrai valigia e bagaglio a mano, buttai il sacchetto di patatine nel piccolo cestino (che reputai un accessorio comodo e ingegnoso) e mi avviai verso l’uscita.

Le porte si spalancarono e fui travolto dal blu cobalto della stazione. Non aveva niente, ma davvero niente a che vedere con le dimensioni di una qualunque stazione degli Stati Uniti, fosse stata anche quella della metro, ma la trovai accogliente, quasi familiare; poi i miei occhi seguirono le arcate blu che sostenevano il tetto a vetri della stazione, dallo stile molto industriale, e una serie di luci poste accanto a ogni pilastro. L’odore dell’aria era diverso da quello che c’era a New York, ma era diverso da qualunque altra città in cui ero stato. Sembrava non solo di annusarla, ma anche di percepirla addosso, sulla pelle, forse per via dell’umidità. Non sapevo granché di Brighton se non che era una città di mare, e cominciai a immaginarmi i moli, le camminate sulla spiaggia, forse simile a quello che avevo visto in California.

Seguii la fiumana di persone che mi portò verso l’uscita della stazione, e mentre camminavo la mia attenzione fu catturata da un grosso albero di Natale posto poco dopo la testa dei binari, decorato con luci, qualche pallina e una serie di bigliettini di auguri infilati tra i rami. Proseguii verso le porte della stazione, e come misi piede fuori dall’edificio io seppi, in quel momento, che il mio cuore apparteneva a quella città. Il cielo era brullo e l’aria fredda, ma né l’una né l’altra cosa poterono impedirmi di spalancare la bocca, ancora una volta, di fronte a quella cittadina dal sapore così vittoriano. Di fronte all’uscita della stazione c’era un edificio di tre piani, con delle eleganti finestre ad arco ciascuna delle quali dava su un terrazzino; mi trascinai le valigie per dare un’occhiata alla strada accanto e notai che sotto l’edificio c’era un pub dalle rifiniture in legno e un paio di piante fiorite sopra la porta di ingresso. Dall’altro lato della strada si stagliavano una serie di edifici in mattoni rossi che non superavano i cinque piani; e la mia visione fu interrotta per un attimo dal passaggio di un bus a due piani, che non era rosso, ma che somigliava tanto a quelli che si potevano vedere in una qualunque brochure di Londra. Lo osservai passarmi davanti e infilarsi in quella strada che mi aveva incantato, una strada a una sola corsia dove il traffico scorreva tranquillo. Sul marciapiede del pub notai che partiva un filare di alberi che proseguiva per chissà quanto, non riuscivo a vederlo; ma la mia attenzione continuava a essere catturata dai negozi, che mi sembrarono tutti a una sola vetrata, a esclusione del pub e del piccolo supermercato alla mia sinistra di cui mi ero accorto solo in quel momento. Mi portai appresso le valigie perché la curiosità di sbirciare anche le altre strade che partivano dalla stazione era tanta; così mi affacciai in un’altra che mi rapì per una sequenza ipnotica di case tutte bianche, una dopo l’altra, tutte dotate di finestre ad arco che in una visione d’insieme sembravano quasi formare una serie di onde.

Rimasi a osservare la piazza della stazione e le strade circostanti per un altro po’ di tempo, con la speranza che Alan mi portasse a fare un giro perché ero già innamorato di quella città - oltre che di lui. E sì, rispetto a New York era proprio un altro mondo, su così tanti piani che non avrei nemmeno potuto elencarli tutti, ma se avessi dovuto riassumere quella città con un solo aggettivo, forse avrei scelto “graziosa”. Mi sembrava che i negozi fossero curati e le strade ordinate, l’aria frizzante e pulita, una sorta di giardino zen dove niente cadeva fuori posto.

Mi voltai e lo sguardo mi cadde di nuovo sul supermercato e il gorgoglio improvviso del mio stomaco mi suggerì che forse potevo comprarmi qualcosa da mangiare. Le porte automatiche del locale si aprirono su un piccolo ambiente denso di scaffali e di merce, con i corridoi così stretti che quasi avevo paura a farci passare le valigie dentro. Da dov’ero già si intravedeva la cassa e mi meravigliai di quanto fosse piccolo rispetto ai supermercati a cui ero abituato; eppure quelle dimensioni mi parvero cucite su di me, ed ero certo che avrei trovato ciò di cui avevo bisogno, e forse anche di più. Afferrai un sandwich ripieno con insalata, pomodori e qualcos’altro che non riuscivo a vedere, presi una bottiglietta di succo d’arancia da solo mezzo litro e poi, camminando tra le corsie, l’occhio mi cadde su una scatola di praline Lindt che ogni tanto avevo visto anche oltreoceano. Costavano cinque sterline e non avrei saputo dire con certezza se fosse tanto o poco, ma le presi lo stesso giusto per non presentarmi a mani vuote a casa di Alan, e in fondo anche perché davano un tocco più romantico a quella mia impresa.

Uscii dal supermercato felice e soddisfatto e in nemmeno due minuti stavo già dando un morso al sandwich e bevendo il succo d’arancia che sapeva davvero di arancia, e non di zucchero con un certo retrogusto di frutta. In un certo senso era molto più amaro rispetto a quello a cui ero abituato, e i miei dubbi trovarono una risposta quando sulla cartina in plastica intorno alla bottiglia scovai la scritta “senza zuccheri aggiunti”, ed era scritto abbastanza grande da pensare che lo considerassero un pregio.

Finito di riempirmi lo stomaco, più o meno a mezzogiorno e mezzo secondo l’orologio della stazione, notai che di fronte a me c’era un’area taxi. Ce n’erano diversi parcheggiati, ma la mia attenzione fu catturata da una Toyota bianca e slanciata con il muso colorato di celeste; appoggiato alla portiera posteriore, telefono in mano, c’era quello che immaginai fosse il tassista. Buttai via la plastica del sandwich e la bottiglietta vuota, poi presi il cellulare e mi misi a ricercare l’sms di Ash.

Mi ritrovai a stringere il telefono e sentii una morsa allo stomaco, ma non per la fame. Mancava davvero poco al momento in cui avrei scoperto se avevo fatto una cazzata colossale o la genialata del secolo, se andavo lì per prendere un due di picche o se per vivere per sempre felici e contenti - più o meno. Ma dovevo farmi coraggio, perché arrivati a quel punto sarebbe stato stupido rinunciare o farsi prendere dal panico, così mi avvicinai all’uomo accanto all’auto, uno spilungone con gli occhiali e dai capelli brizzolati, e feci poi un respiro profondo, ma lui mi precedette.

«Posso aiutarla?»

Ecco, pensai, ora non posso proprio tornare indietro.

«Sì, in realtà dovrei andare…», e gli mostrai l’indirizzo dal telefono, «… qui. Più o meno saprebbe dirmi quanto ci vuole?»

Lui guardò l’indirizzo per qualche secondo, poi annuì.

«Più o meno venti minuti. E più o meno venti sterline.»

Feci spallucce perché in realtà ero completamente nelle sue mani, visto che non ero capace di muovermi in quella città. Gli dissi che andava bene e caricò le valigie nel bagagliaio, e mi lasciò di stucco perché con quel fisico mingherlino che si ritrovava aveva sollevato tutto quel peso senza battere ciglio. Mi fece accomodare nei sedili posteriori sul lato sinistro e quasi mi prese un coccolone quando vidi il volante dall’altra parte. La prima sensazione che ebbi è che ci fosse qualcosa di sbagliato, in misura tale da provocarmi un corto circuito nel cervello - non che fosse difficile, vista la tensione che avevo in corpo; ma quando poi lui si sedette al posto del guidatore, quella sensazione di stranezza aumentò e mi sembrò che il mondo si fosse specchiato all’improvviso.

Mi chiese conferma dell’indirizzo e io gli mostrai di nuovo l’sms, poi mise in moto e partimmo. Ci lasciammo alle spalle la graziosa stazione di Brighton, i filari di alberi, il pub, e mi sembrò quasi di abbandonare un luogo con cui ormai avevo stretto amicizia per andare a scoprirne altre facciate. Mano a mano che mi allontanavo da quegli elementi che tanto mi avevano colpito, avvertii un senso di strizza che si stava facendo largo soprattutto nel mio stomaco, e all’improvviso mi risalì un vago sapore di arancia senza zucchero mischiato all’acidità dei pomodorini. Ripensandoci, mangiare prima di un grande evento era stata una pessima mossa.

Infilammo in una strada a doppio senso di marcia e rimasi impietrito quando lo vidi imboccare la corsia di sinistra. Dopo un attimo di gelo, però, mi ricordai che eravamo in Regno Unito e che l’uomo alla guida non era un pazzo assassino che andava contromano. Lui mi guardò per un istante dallo specchietto e mi domandai quante volte al giorno assisteva a scene del genere. L’attimo dopo mi chiesi come facesse Alan a non impazzire alla guida ogni volta che tornava dai suoi.

«Allora», disse d’un tratto il tassista, e notai che aveva calcato un sacco sulla erre, «da dove vieni?»

Sorrisi perché era uno di quelli che voleva fare conversazione, anche se io avevo più voglia di infilarmi in una bara e sparire sottoterra. Ma alla fine mi rassegnai.

«Da New York.»

«Ah!», rispose stupito. «Un ragazzo americano! E cosa ti porta a Brighton?»

Mi scappò un risolino perché il modo in cui pronunciava le erre, in maniera così marcata, mi faceva davvero ridere. Provai a distrarmi guardando fuori dal finestrino, osservando Brighton assumere sempre più i connotati di una normale cittadina mano a mano che uscivamo dal centro.

«Vado a trovare una persona. Cioè, è una sorpresa in realtà.»

«Ah!», esclamò di nuovo. «Una sorpresa romantica?»

Mi strusciai gli occhi nel tentativo di non ridere di fronte a tutte quelle parole che esaltavano il suo difetto di pronuncia, anche se in fondo lo rendevano simpatico.

«Be’, lo spero. Diciamo che sto andando a scoprirlo.»

«Ah!», esclamò per la terza volta e cominciai a pensare che fosse un suo tratto distintivo. «Sai, ragazzo americano, una volta anch’io ho fatto una pazzia per amore! Era il 1973…»

… e partì con il racconto del grande amore che aveva rincorso, di come lei lo avesse rifiutato davanti a tutta la famiglia, delle strategie di conquista che aveva messo in atto per farle cambiare idea, della proposta di matrimonio sulla Torre Eiffel, delle sfarzose nozze Gandharva («Un matrimonio per amore!»), la notizia dell’attesa del primo figlio. La storia della sua vita minuto per minuto, insomma.

Io nel frattempo guardavo fuori dal finestrino i paesaggi che quel viaggio mi proponeva, mugolando di assenso nei momenti in cui lui interpellava lo sfortunato ragazzo americano - cioè io - per vedere se seguiva. Passammo da un lungo viale alberato che di grazioso non aveva più nulla, ma rimasi colpito dai condomini a mattoncini rossi, un tratto estetico a cui non sembrava sapessero rinunciare in quella città.

Terminato il viale alberato, superammo una chiesa - «È St John!» - e ritrovai nelle abitazioni monofamiliari lo stile architettonico di cui mi ero innamorato alla stazione. C’era davvero tanto verde in giro, tra parchi e alberi, un assaggio di natura allo stato brado che in una città come New York mi era sempre mancato. Cominciai a domandarmi cosa avesse spinto Alan ad abbandonare quel paradiso terrestre, visto che io ci avrei passato anche il resto della mia vita.

A un certo punto lasciammo la strada principale, che avevamo percorso fino a quel momento, per svoltare in una traversa e sentii il mio cuore cominciare a battere più forte. Guardai l’orologio e, con un rapido calcolo, mi accorsi che eravamo a circa tre quarti del viaggio… e non mi ero nemmeno preparato un discorso. Che cavolo avrei detto ad Alan? Dai, potevo farcela a trovare qualcosa di meno banale di un semplice “ciao”.

«Tra cinque minuti siamo arrivati, ragazzo americano.»

«Ok», riuscii solo a rispondere, perché le altre parole mi morirono in gola.

Nel taxi calò il silenzio e mi resi conto solo dopo un paio di minuti che aveva finito con l’interminabile racconto della sua travagliata storia d’amore. Una vicenda noiosa fino alla morte ma che in realtà era servita come sottofondo per distrarre i miei pensieri, che invece in quel momento riemersero prepotenti come un peso sul petto. Il respiro mi si accorciò e sembrava che il cuore volesse esplodermi davvero. Nemmeno la sua erre pronunciata riusciva più a rilassarmi.

«Quanto manca?»

«Poco, ragazzo americano, poco.»

«“Poco” quanto?»

Mi accorsi che avevo cominciato a far ballare un piede, proprio come avevo fatto sull’aereo, ma se allora era stata euforia, in quel momento era agitazione pura. E se mi avesse mandato via, dicendomi che era troppo tardi per noi due?

«Vedi lì la strada che curva?»

Io mi sporsi un po’ e vidi ciò che mi stava indicando.

«Ecco», continuò, «il tuo amore è lì dietro.»

Io pensai che più che il mio amore, lì dietro c’era la mia morte, perché sì, stavo morendo di agitazione e di strizza, e cominciai a maledirmi per quella stupida idea che avevo avuto di andare fino là per rivederlo. Avrei potuto aspettare il suo ritorno dopo le feste, e invece no, avevo voluto fare quel gesto plateale senza alcuna garanzia che finisse come avevo progettato. Un paio di mani cominciarono ad applaudire nella mia testa e cercai di farle stare ferme, perché ci mancava solo che il mio cervello mi perculasse invece di aiutarmi.

L’auto percorse la famigerata curva e sentii che non sarei riuscito a spiccicare un’altra parola. Infilammo poi in una strada senza sfondo e quello fu l’inequivocabile segnale che la fine del viaggio era vicina. Superammo una manciata di casette a due piani dai mattoni rossi, poi il taxi si fermò.

I miei occhi si spalancarono ma non di meraviglia, quanto più di terrore, mentre scandagliavano l’elegante palazzina a due piani che doveva essere casa di Alan. C’era un vialetto di mattonelle che conduceva alla porta bianca d’ingresso circondata da due ampie finestre ai lati, più quelle al piano di sopra che immaginai fossero delle camere. Di fianco, sulla destra, c’era uno spiazzo per il posto auto, occupato da un paio di macchine.

«Siamo arrivati.»

Io lo guardai un attimo e non dissi niente, non ci riuscivo. Poi lui mi sorrise, tirò fuori dal taschino un biglietto da visita e me lo porse.

«Facciamo così, ragazzo americano. Se la tua sorpresa d’amore va male, chiamami e stasera ci andiamo a bere qualcosa insieme. Se invece non ti sentirò, saprò che è andato tutto bene.»

Io presi il biglietto, guardai prima il pezzo di carta col suo numero e poi lui, giusto il tempo di capire cosa mi avesse detto. Vomitai la tensione scoppiando a ridere per quella proposta assurda, ma pensai anche che era un pensiero molto gentile - e che dovevo avere davvero una brutta cera se avevo suscitato la sua pietà in quel modo.

«Va bene, affare fatto.»

Scendemmo entrambi e rimasi sorpreso ancora una volta dalla scioltezza con cui maneggiava il peso delle mie valigie. Dopo aver chiuso il bagagliaio, gli diedi i soldi che gli spettavano e ci stringemmo la mano.

«Ah!», esclamò ancora, e quasi pensai che mi sarebbe mancato. «Io sono Hakim.»

«Nathan», risposi a mia volta.

«Allora buona fortuna, Nathan!»

Lo ringraziai e gli sorrisi, poi lo vidi rientrare nel taxi e fare inversione per ripartire verso il centro città. Agitò la mano per salutarmi e lo feci pure io, ma quando se ne andò mi resi conto che ero rimasto solo, con le mie valigie, davanti a quella casa dai mattoni rossi in cui non ero più così sicuro di voler entrare.

 

In quei cinque minuti da quando Hakim se n’era andato, portando via con sé l’ultima speranza che avevo di non fare una figura di merda, avevo scoperto che i marciapiedi di Brighton sapevano ghiacciare benissimo il fondoschiena nelle fredde giornate di dicembre. Ormai avevo perso qualunque sensibilità là sotto, così come l’avevo persa alla mano destra, quella che faceva tremare appena la Marlboro che tenevo stretta tra le dita. L’altra mano avevo provato a infilarla nel cappotto, ma mi si era comunque indolenzita dal freddo. Aspirai la sigaretta e sentii che pure la mascella mi si stava ghiacciando, ma il mio cervello era molto esperto nell’ignorare il bisogno di calore del mio corpo, se ottenerlo significava suonare quel campanello. Non avevo nemmeno avuto il coraggio di andare a vedere il nome sulla targhetta, tante volte fosse stato l’indirizzo sbagliato, non si poteva mai sapere. In effetti, era un dubbio che non mi aveva mai sfiorato in tutte quelle ore, come in effetti non mi avevano sfiorato molte altre domande. Era stato un gesto impulsivo… e a breve avrei scoperto se era stato pure stupido.

          Lasciai che la Marlboro mi coccolasse un altro po’, la sola nota familiare in quel paese straniero dove l’unica parvenza di amico che avevo era Hakim, di cui cominciai a sentire la mancanza. Stavo messo davvero, davvero male.

          Ma alla fine anche la sigaretta finì. I miei sette centimetri di benessere si erano consumati fino a restare un inutile mozzicone tra le mie dita, un residuo che abbandonai a malincuore dentro il cestino più vicino a pochi passi da dove mi ero seduto - e quando mi rialzai, le mie ginocchia infreddolite mi resero l’azione più complicata del solito.

          Quando tornai dalle valigie, mi domandai se fosse più stupido morire di fronte a casa Scottfield o suonare quel benedetto campanello, e sapevo che il confronto era impari e la domanda retorica. Quindi raccolsi armi e bagagli e cominciai a trascinarmeli lungo il vialetto, impietrito dal freddo e dal rumore di quelle maledette ruote che tremavano sulle imperfezioni delle mattonelle. Il terrore che qualcuno potesse accorgersi di me prima del previsto tentò di paralizzarmi le gambe, ma quel briciolo di follia che mi aveva portato fin lì mi spinse a percorrere anche l’ultimo metro che mi separava da Alan.

          La targhetta, purtroppo o per fortuna, recitava proprio “Scottfield”. Wow, l’avevo trovato davvero. Mi sentii piuttosto orgoglioso per essere arrivato fino lì, talmente tanto che in un momento di auto-celebrazione mentale suonai il campanello senza pensarci troppo.

          Ma alla fine mica mi ero preparato un discorso. No che non me l’ero preparato, e imposi al mio cervello di far uscire almeno quel misero e banale “ciao”.

          Ecco che sentii dei passi. Impercettibili, quasi… ma poi sempre più marcati, più vicini. Provai a ripetere al mio cervello quello che doveva dire - un banale, semplice “ciao”, te lo ricordi? -, ma diventò una tabula rasa quando qualcuno sbirciò dall’occhiolino. E dimenticai persino il mio nome quando la porta si aprì.

          Perché in effetti non era Alan. Nossignore. No, proprio no. Decisamente… no. Avevo già detto di no? Ecco, no. C’era una vaga somiglianza, eh… Ma no. Non era lui. Alto, sulla cinquantina, due occhi come a voler dire “E questo da dove spunta?” e un’espressione che si aspettava che io dicessi qualcosa, e me lo aspettavo pure io, ma non mi veniva in mente niente. Temevo di fare una figura di merda? Be’, missione compiuta. Dieci su dieci, Nathan Hayworth (“Clap, clap”, rimarcò il mio cervello).

          «Posso fare qualcosa per te?»

          La mia bocca si aprì, ma figurarsi se era per dire qualcosa. Le parole mi morirono in gola e mi limitai ad annuire. C’era il modo per cancellare la memoria delle persone? Tipo… eliminare uno specifico ricordo? Per esempio il momento in cui l’elegante signore inglese mi aveva aperto la porta e mi stava fissando nemmeno fossi stato uno squilibrato? Oddio, forse un pochino lo sembravo. No, dovevo riprendermi. Cercai di recuperare la concentrazione appellandomi a una dignità che ormai avevo perso del tutto.

«Sì, scusi. Ehm…», e il mio cervello mi proiettò una squadra di ragazzi che agitavano i pon-pon per aria senza alcun motivo. «In realtà cercavo Alan.»

Il suo viso si rilassò all’improvviso. Mi sembrò anche di vedergli spuntare un sorriso, ma ero troppo stordito per farci caso. Si appoggiò allo stipite della porta in una posa che mi parve familiare, e intuii che non mi considerava più un pericolo pubblico.

«Alan è uscito un attimo. Sai, nonna Summer ha lasciato a casa le medicine ed è andato con lei a prenderle.»

Mi lasciai scappare un sorriso perché la vita, quando ci si metteva, sapeva propinare una quantità di sfighe pazzesche tutte insieme. Però almeno qualcuno mi aveva aperto e Alan sarebbe tornato tra non troppo, per cui in fondo potevo ritenermi fortunato.

«Ok», risposi, rassegnato a quel karma che ce l’aveva con me. «All’incirca tra quanto torna?»

Lui diede una rapida occhiata al suo orologio da polso, e all’improvviso ebbi una sorta di rivelazione celeste: era suo padre. Quando mi applicavo, sapevo trarre delle conclusioni davvero geniali. Potevo provare a entrare in polizia!

«Venti, trenta minuti. Sai, ogni tanto la nonna dimentica qualche dettaglio qua e là e quindi i tempi si allungano.»

Io risi e non seppi nemmeno dire perché - tutto sommato, non era una cosa su cui ridere e anzi, forse era pure sconveniente. Pazienza. Facevo ancora affidamento sull’incantesimo per la perdita della memoria.

«Se vuoi puoi ripassare più tardi», iniziò, poi il suo sguardo cadde sulle mie valigie. «Oppure lo puoi aspettare dentro.»

Le mie labbra si aprirono in un sorriso, istigato dalle mani congelate e dal fondoschiena che ormai non ricordavo più di avere.

«Dentro sarebbe perfetto.»

Lui mi sorrise a sua volta, aprì del tutto la porta e mi fece cenno di entrare. Io non me lo feci ripetere due volte, afferrai le valigie e cercai di portarle dentro senza strusciare le ruote sul pavimento.

«Grazie mille.»

La porta dava su un ingresso stretto che si sviluppava in lunghezza, con a sinistra una stanza che somigliava a uno studio e a destra un muro a mezza altezza che dava sul soggiorno aperto. Lasciai le valigie accanto al muretto, e mi accorsi che avevo le nocche delle mani tutte arrossate e le sentii pizzicare quando il tepore della casa le avvolse, insieme alla faccia che stava entrando nell’era del disgelo.

Mi tolsi il cappotto e il papà di Alan mi suggerì di metterlo all’attaccapanni proprio accanto alla porta, di fronte alle valigie - entrando non ci avevo proprio fatto caso.

«Se te la senti, puoi aspettare di là con noi.»

Con un cenno del capo indicò la zona della casa attigua al soggiorno, e quel sorriso incartapecorito che avevo messo su fino a quel momento sparì in un battito di ciglia.

Una decina… no, una quindicina di persone erano sedute a un lungo tavolo rettangolare e stavano discutendo di chissà cosa. Un pranzo di famiglia. Anzi, il pranzo della Vigilia. Quale migliore occasione del Natale per riunire tutti i familiari possibili e immaginabili? E quale giorno migliore, per me, per piombare in casa di Alan? Ah, il karma decisamente non aveva ancora finito di giocare tutte le sue carte. Mi chiesi cos’altro dovevo aspettarmi. Le dieci piaghe d’Egitto?

Il papà di Alan proseguì verso la tavolata e mi fece cenno di seguirlo, e a ogni passo che facevo mi sentivo sprofondare sempre più in quella bara che tanto avevo agognato per tutto il tragitto in taxi. Avrei dovuto capirlo che era un presagio, un avvertimento sugli eventi nefasti che non vedevano l’ora di verificarsi. Prima la nonnina che dimentica le pasticche, poi quindici paia di occhi puntati su di me… avevo cominciato bene. Ed ero anche riuscito a zittire l’intera tavolata.

Lui si schiarì la voce per richiamare l’attenzione degli invitati. Una ragazza mora, seduta al capotavola dandomi le spalle, si torse sulla sedia e mi guardò dall’alto al basso. Aveva circa la mia età, forse un anno o due in meno.

«E tu saresti…?», domandò lei.

Rimasi un attimo interdetto dal tono insolente di quella domanda - ok, forse era una ragazzina in realtà, ma c’era modo e modo di approcciarsi alle persone. Scottfield senior stava per aprire bocca, ma mi resi conto che prima non mi ero neanche presentato. Lui si voltò verso di me in cerca di una risposta e io provai a non stizzirmi.

«Nathan. Un amico di Alan.»

Come pronunciai il mio nome, il papà di Alan si fece serio e notai la stessa espressione in un paio di persone alla tavolata, ed ebbi la sensazione che una di queste fosse la mamma. Grandioso.

«Intendi Nathan-che-è-andato-in-California?», mi chiese lui.

Il mio cervello cominciò a trasmettere il rumore della pala che si ficca nel terreno per poi togliere la terra. Avevo pure un nomignolo e non era nemmeno carino. Sempre meglio. Cercai di mantenermi neutrale, ma cominciò a sfiorarmi l’idea che Alan avesse raccontato qualcosa di quello che era successo tra noi, in termini non proprio lusinghieri.

«In persona.»

Abbozzai un sorriso per smorzare la tensione, ma pensai anche che quel soprannome non lasciava presagire proprio nulla di buono. Forse Alan mi aveva descritto come il mostro cattivo che lo aveva abbandonato e gli aveva spezzato il cuore per cavalcare i manzi della California… non potevo saperlo. Ma se quello era umorismo inglese, non faceva molto ridere.

I genitori di Alan si guardarono un attimo, un istante in cui mi parve che stessero decidendo il mio destino. Poi lui si voltò di nuovo verso di me e mi sorrise. Sembrava sincero, non aveva l’aria di chi voleva mettere al rogo il malvagio ragazzo americano che aveva spezzato il cuore al suo bambino.

«Dai, siediti pure lì», disse, e mi indicò una sedia vuota accanto alla ragazza mora che aveva parlato prima. Feci come mi aveva indicato mentre lui tornava al suo posto, e sentii tutti gli occhi puntati su di me, insieme a un crescente desiderio di fuggire da lì per non tornare mai più. Be’, a pensarci non era uno scenario del tutto improbabile: c’era ancora la possibilità che Alan mi mandasse a quel paese.

Non appena fui vicino alla sedia, mi accorsi che la ragazza mi stava esaminando e senza nemmeno preoccuparsi di non farsi notare. In un’altra occasione avrei detto che quello era lo sguardo di qualcuno che ci provava, ma era alquanto improbabile. Aveva quantità industriali di ombretto nero che le faceva risaltare gli occhi verdi, insieme a un rossetto scuro in linea anche con i vestiti, neri pure quelli. Mi squadrò da capo a piedi finché non mi fui seduto, poi tornò a fissarmi con quegli occhi da cerbiatta. Ma se pensava di intimorirmi, si sbagliava di grosso: quando volevo, sapevo essere molto più cerbiatto di lei. Però cavoli, se era impertinente!

«C’è qualche problema?», le domandai con finta ingenuità.

«Virginia!», gridò qualcuno dall’altro capo del tavolo. «È qui da nemmeno un minuto! Smettila di importunarlo!»

«Non ho fatto niente!», ribatté lei.

Sbuffò e alzò gli occhi al cielo, mentre io incrociavo le braccia, stordito da quel teatrino. Poi si voltò verso di me.

«Ti ho fatto qualcosa?», domandò.

«No…», iniziai a rispondere, ma Virginia fu più veloce.

«Vedi? Non ho fatto niente!»

«… a parte una radiografia.»

Mi morsi la lingua l’attimo dopo. Dalla tavolata non volò una mosca. Virginia spalancò la bocca perché forse non si aspettava che le rispondessi in quel modo, e subito mi attraversò l’idea che forse mi ero preso una confidenza che non mi potevo ancora permettere. Gli altri mi fissavano perplessi e si lanciavano occhiate tra loro. Io intanto sentii di nuovo il rumore della vanga che lavorava. Dentro la terra, spala la terra, dentro la terra, spala la terra…

Poi la stanza si riempì con una risata. Era un ragazzo che aveva a occhio e croce sui trentacinque anni, seduto di fronte a me e accanto a una rossa piena di lentiggini. Bastò un attimo perché gli altri lo seguissero a ruota e cominciassero a ridere insieme a lui. Io intanto misi in pausa la pala. Per quella volta l’avevo scampata.

«Hai visto, Ginny?», disse il ragazzo accanto alla rossa. «Hai trovato qualcuno con la lingua più lunga della tua!»

Lei la tirò fuori per fargli una linguaccia, poi guardò verso di me per lanciarmi un sorrisetto di sfida, ma senza rancore. Io le risposi altrettanto divertito. Pace era fatta.

La tavolata ricominciò a chiacchierare riempiendo l’atmosfera col brusio di tante voci sovrapposte; e visto che non conoscevo nessuno e che non sapevo bene cosa dire, a parte rispondere a qualche domanda di rito di Virginia e l’altro ragazzo, il mio sguardo cominciò a vagare per la stanza. La mia attenzione fu catturata dal caminetto di pietra dietro l’altro capotavola, dove era seduto l’uomo che aveva rimproverato Virginia; non riuscivo a vederlo per intero, se non per la ghirlanda natalizia appesa sulla cappa, ma sentivo il fuoco crepitare e lo vedevo proiettare un’ombra disordinata di fronte all’uomo. Accanto, verso il soggiorno, scorsi un albero di Natale decorato con palline e luci a intermittenza, e pensai che era tanto che non ne vedevo uno in una casa a cui in qualche modo ero legato. Per un paio d’anni ne avevo tenuto uno da tavolo nel mio appartamento, ma mi metteva più tristezza che allegria, quindi lo avevo regalato alle bestie di Satana - Carter e Cathy - perché ci giocassero; ero quasi certo che avesse fatto una brutta fine.

Mi imbarazzava l’idea di incrociare lo sguardo degli altri commensali, - Virginia a parte, che con la sua sfrontatezza mi faceva quasi sentire a casa -, così del resto della stanza mi limitai a osservare il soffitto, con un luminoso lampadario che pendeva in corrispondenza del tavolo, e i muri riempiti con qualche quadro in stile contemporaneo.

Terminata quella scansione, il mio stomaco gorgogliò e lo sguardo mi cadde sulla tavola, apparecchiata con una tovaglia rossa, un paio di candele e una serie di vassoi che contenevano qualche fetta di salmone su del pane scuro e un qualcosa che somigliava a una salsiccia avvolta nel bacon. Mi venne l’acquolina in bocca nonostante fosse qualcosa che non avevo mai mangiato, così lanciai un’occhiata al piatto che c’era al mio posto e mi accorsi che era già stato usato. Probabilmente stavo occupando il posto di Alan che aveva già sgraffignato qualcosa prima di uscire con la nonna.

«Tesoro», esordì la mamma di Alan (o quella che immaginavo fosse tale), «prendi un piatto e delle posate anche per Nathan, almeno può mangiare qualcosa. Hai fame, immagino.»

Combattuto tra l’educato rifiuto che avrei dovuto esprimere e lo stomaco che cominciava a farmi venire i crampi, scelsi alla fine di ascoltare i miei istinti primordiali.

«In effetti sono così affamato che potrei mangiarmi anche il vassoio.»

Una volta arrivati piatto e posate, scoprii che il salmone affumicato era un tipico antipasto del pranzo di Natale inglese, e che quel salmone veniva direttamente dalle lande scozzesi, terre natali di Abigail, la rossa con le lentiggini. Anche i maialini sotto coperta, cioè le salsicce col bacon, si rivelarono una gran bontà, per certi versi anche più simili ai sapori a cui ero abituato. Mi riservii un paio di volte perché era davvero buono, ma cercai di darmi un contegno perché ero capace anche di spazzolare tutti quei vassoi in cinque minuti, e forse non ci avrei fatto una gran figura.

Addentai l’ultimo boccone dei maialini quando la voce di Virginia riempì l’aria e catturò l’attenzione di tutti. Un altro presagio di sventura, ne ero certo.

«Quindi, Nathan, che ci fai qui? Sei venuto a trovare qualche parente?»

Smisi di masticare e quella reazione suscitò il silenzio generale. Era abbastanza evidente che la mia comparsata in casa Scottfield aveva attirato più di una curiosità, un aspetto che non avevo proprio messo in conto - d’altronde, i gesti impulsivi non sono noti per la loro intelligenza. Alzai gli occhi e notai diversi sguardi curiosi, mentre il mio cervello non si decideva a collaborare. Ok, il primo passo da fare era non destare sospetti: ripresi a masticare e con quella scusa cercai di prendere tempo. Secondo passo: cercare una buona risposta. Missione che, senza alcuna sorpresa, fallì ancor prima di cominciare.

«No, nessun parente», risposi, nella speranza che bastasse, ma Virginia aveva ancora gli occhi incollati su di me, come se si aspettasse un seguito a quella frase. Avevo capito dove voleva andare a parare e qual era la domanda a cui cercava una risposta, e lì dovevo solo scegliere se rinunciare alla mia dignità fin da subito o provare a salvare il salvabile. O magari c’era una via di mezzo.

«No, be’», e lì sentii che sarei pentito di quanto stavo per dire, «sono solo passato a fare un saluto, per così dire.»

«Sei venuto dalla California solo per fare un saluto ad Alan?»

«Virginia!», proruppe di nuovo la voce dall’altra parte del tavolo. «Fatti gli affari tuoi! Non vedi che è in imbarazzo? Che diamine!»

Incrociai lo sguardo del mio salvatore e senza proferire parola lo ringraziai per avermi salvato da quella situazione scomoda. Mi voltai verso la ragazza per prendermi la mia vittoria, ma lei mi rifilò uno sguardo impaziente di avere una risposta. E non gliel’avrei certo fornita, se non fosse stato per le occhiate curiose che scorsi nella quasi totalità dei commensali. Lo sapevo che con la storia del saluto mi sarei cacciato in un guaio. Provai a correggere il tiro, ma non ero sicuro di migliorare la mia posizione.

«Sì, ecco, diciamo che sono tornato dalla California ieri sera, ho saputo che Alan era qui e quindi mi sono detto: “Perché non allungare il viaggio e passare a salutare?”. Tutto qua.»

Conclusi quella frase con un sorriso, ma l’espressione sul volto di tutti gli altri rimase immutata. Stavo dicendo una cazzata dietro l’altra? Sì, stavo dicendo una cazzata dietro l’altra. Facevo meglio a stare zitto? Decisamente.

«Be’», rispose Virginia, e mi preparai a fingere nonchalance bevendo un po’ d’acqua, «è tanta strada per un amico. A meno che tu non sia…», e la vidi fare le virgolette in aria, «… un “amico”.»

Per poco non mi strozzai. Dov’era quella voce salvifica che rimproverava Virginia tutte le volte che diceva cose inopportune? Cercai lo sguardo dell’uomo che mi aveva tirato fuori dai guai un attimo prima, ma teneva gli occhi bassi. Il bicchiere rimase appoggiato alle mie labbra e impiegai qualche secondo per rimetterlo giù, secondi durante i quali evitai lo sguardo di tutti. Virginia era davvero un osso duro, dovevo ammetterlo. E la via di mezzo non aveva funzionato, ma proprio zero. Era tempo di deviare la rotta verso il “negare l’evidenza senza se e senza ma”.

«Mi dispiace deluderti, cara Virginia, ma al momento sono senza virgolette.»

Con quella risposta e un sorriso ben assestato avevo saziato la curiosità dei presenti, anche se non era proprio verissimo che ero un amico senza virgolette - diciamo che le avevo avute per una sera e che in quel momento ne avevo mezza ed ero lì per capire cosa farne. Nel frattempo, mi domandai quanto cavolo ci volesse a prendere due pasticche e tornare a casa, perché quando avevo accettato di sedermi al tavolo con tutti loro mi ero immaginato più di essere un complemento d’arredo che la star del pranzo.

«Comunque Alan non ci aveva detto niente del tuo arrivo», disse poi una donna dalle guance paonazze accanto all’uomo-salvatore, e mi sembrò di scorgere nel suo tono un velo di curiosità, comunque più discreto dell’impertinenza di Virginia. L’attimo dopo pensai che forse la ragazza era sua figlia, e mi apparve cristallino da chi avesse preso l’abitudine di non farsi gli affari suoi.

«Ecco, diciamo che…», e sentii di nuovo tutti i loro occhi piantati su di me, «… potrebbe non sapere che sono qui.»

«È una sorpresa?», domandò la mamma di Alan, seduta dall’altro lato del tavolo, due posti più giù. Cavolo, neanche il basso profilo aveva funzionato. Non avevo usato la parola “sorpresa” di proposito, perché dava a quella vicenda un taglio parecchio sentimentale - non che non ce lo avesse, eh, ma avrei tanto preferito tenerlo per me.  E il fatto che fosse stata lei a fare quella domanda, che sottintendeva una marea di cose, mi fece avvampare di imbarazzo. Del tipo, “Ehi, piacere, sono il ragazzo di tuo figlio”.

«Qualcosa del genere.»

Con la coda dell’occhio vidi Virginia alzare le braccia e, quando mi voltai, la beccai a fare le virgolette in aria con un sorriso soddisfatto in volto. Intanto, dal resto dei presenti, si levarono una serie di ululati eccitati. Ebbi la sensazione che fosse tardi per negare tutto; d’altronde, chi mai andrebbe oltreoceano, la vigilia di Natale, per fare una sorpresa a un amico? Nessuno. Ma proprio nessuno. Certo mettendo le virgolette la situazione assumeva un’aria tutta diversa e per molti versi logica, ed ero sicuro che, così come ci ero arrivato io, ci erano arrivati pure loro. Che imbarazzo. Dove avevo lasciato la pala?

«Be’, ma allora dobbiamo trovare un posto dove nasconderti», disse la mamma di Virginia con rinnovato entusiasmo, e quando incontrai lo sguardo della figlia lessi, per la prima volta, un’espressione di vera eccitazione.

«Sì! Dobbiamo organizzare qualcosa!», replicò lei con voce stridula e gli occhi che le brillavano.

Beati loro che erano eccitati, pensai. Io invece mi misi a pensare che ormai non mancava tanto al ritorno di Alan, al momento in cui avrei saputo se potevo continuare a sentirmi il suo ragazzo o meno. Andare fino a casa sua era stata una pessima, pessima idea. La peggiore che avessi mai avuto. E mi ero pure dovuto sorbire i parenti impiccioni… il karma mi stava proprio rendendo tutto con gli interessi.

Intanto la tavolata era come impazzita, voci l’una sull’altra per proporre idee più o meno fantasiose su come sorprendere Alan con la mia presenza, anche se notai che le uniche persone immuni a quella ventata di eccitazione erano i due seduti davanti a me, cioè la coppietta lentigginosa. I nostri sguardi si incrociarono e lui mi mandò un’occhiata consolatoria, perché ormai la mandria si era scatenata e chi la conteneva più?

Mi premetti due dita alla radice del naso e chiusi gli occhi, in un misto di imbarazzo, strizza - no, anzi, era proprio paura - ed emozione. Per loro era niente più che un gioco, e fino a che non avevo suonato quel campanello lo era stato anche per me, ma più passava il tempo e più sentivo di avere i minuti contati. Era probabile, perché lo era, che di lì a poco avrei ricevuto una delusione enorme, perché quando ad Alan prendeva la luna storta era capace anche di essere scontroso, e che ne sapevo io di cosa aveva passato in quei mesi? Non avevo più avuto sue notizie, poteva essersi ripreso o poteva essere ripiombato nello sconforto, non ne avevo idea. E il pensiero che a quella tavolata stessero pensando a come organizzare la sorpresa, pensando per forza che fosse una buona idea, mi costrinse a mostrare le carte e a zittirli con la realtà dei fatti.

Riaprii gli occhi e sospirai.

«Sentite», dissi, con una voce abbastanza alta da sovrastarli e ammutolirli, «mi fa piacere che questa situazione vi esalti, ma devo dirvi che forse è il caso di frenare gli entusiasmi.»

«Perché?», chiese Virginia.

«Be’», e mi resi conto che dicendolo stavo dando un’opportunità a quella situazione di concretizzarsi, «diciamo che non è detto che gli faccia piacere, ecco.»

Il silenzio continuò a perdurare tra i presenti - per tutti tranne una, ovviamente.

«Cosa?! Ma scusa, a chi non farebbe piacere?»

Quella domanda mi fece sorridere perché era lo specchio di un’età dove gli amori non erano poi così complicati. Ma non avevo più il coraggio di guardarla in faccia, né lei né nessun altro, quindi osservai il mio indice accarezzare un tratto del bordo del piatto, e nel frattempo cercai di ricacciare giù il groppo in gola.

«A qualcuno a cui non interesso, per esempio.»

Il tocco liscio della porcellana continuò a scorrere sotto il mio polpastrello e cominciai a desiderare il ritorno di Alan più di ogni altra cosa, perché quell’attesa mi stava sfinendo. La verità era che Virginia era stata un’ottima intrattenitrice, perché con la sua sfacciataggine mi aveva fatto ignorare, in quei venti minuti, la paura che in quel momento sentivo invece battito per battito. Sì, mi sarei nascosto da qualche parte. Sì, sarei uscito dal mio nascondiglio e l’avrei sorpreso. Ma se anche lui avesse sorpreso me? Con qualcosa tipo “Che-ci-fai-tu-qui-vattene-subito”? In fondo ci eravamo amati solo per una sera, come potevo pretendere che lui provasse ancora qualcosa per me dopo due mesi e mezzo? Stupido… ero stato stupido. Non ci si innamora così dei fuochi di paglia, rincarò di nuovo il mio cervello.

All’improvviso la tavola si rianimò con un brusio agitato. Le mie orecchie captarono il rombo di un motore e mi sentii peggio di un condannato a morte. Le dita di Virginia mi strinsero il polso in segno di incoraggiamento, ma io le diedi solo un fugace sguardo e cominciai a desiderare che quella tomba che mi ero scavato esistesse davvero. Qualcuno si alzò dalla sedia, forse lo stesso qualcuno che mi mise le mani sulle spalle. La mamma di Alan.

«Dai, vieni, nasconditi in cucina. Almeno potrete chiarire la cosa da soli.»

In un gesto meccanico mi alzai dalla sedia e a passo svelto mi diressi verso la stanza che mi era stata indicata, chiusa da una doppia porta a battenti. Con la coda dell’occhio vidi una sagoma fuori dalla finestra che scendeva dall’auto, ma fu l’unica immagine che riuscii a scorgere prima di entrare nella stanza, che mi avvolse col profumo del tacchino in forno. La mamma di Alan richiuse la porta dietro di sé lasciando un piccolo spiraglio, quel poco che bastava per sentire cosa stesse accadendo dall’altra parte, dove intanto qualcuno stava spostando le mie valigie.

Avevo apprezzato la sua discrezione, ma il fatto che avesse sottolineato che avremmo risolto la cosa da soli mi lasciava un brutto presentimento addosso. E quel presentimento lasciò spazio al terrore quando sentii uno scatto nella serratura del portone d’ingresso seguito da una voce che non sentivo da un’eternità.

Ebbi un tuffo al cuore e le gambe cominciarono a tremare, tanto da dovermi appoggiare al muro, ma ringraziai di essere solo in quella stanza, libero di provare ciò che volevo senza che qualcuno venisse a farmi le pulci per come mi sentivo. Ero spaventato a morte, insicuro e di certo impreparato a prendermi un due di picche. Alcune lacrime vollero scendere ma provai a fermarle, perché non era ancora il momento di arrendersi.

Dall’altra stanza, dopo un primo coro di “Bentornato” e le sue risposte cordiali, era calato il silenzio. Nessuno diceva niente, neppure Virginia. Non sentivo nemmeno dei passi… era tutto immobile.

Poi qualcuno parlò.

«Tesoro, tutto bene?»

Non ero sicuro di chi avesse parlato, forse era sua madre, ma avevo capito che si rivolgeva ad Alan. Lui rimase in silenzio, mosse qualche passo ma non verso la cucina, poi si fermò. Di nuovo silenzio.

«Ma che fai, il segugio?»

Quella era Virginia, sicuro; avevo già imparato a riconoscere la sua vocetta irritante. Ci fu qualche risata, ma di nuovo nessuna risposta da parte di Alan. Poi si spostò di nuovo verso la tavolata.

«Ma quel cappotto è sempre stato lì?», chiese. Mi fece sorridere - non gli sfuggiva proprio niente. E aveva un sacco di accento, molto più di quando stava a New York, ma non era il momento di pensare a quanto quell’aspetto mi affascinasse.

Un coro di “sì” si levò dal tavolo ma senza troppa convinzione, dopodiché calò di nuovo il silenzio, talmente tanto che sentivo il cuore rimbombarmi nelle orecchie. Provai a buttare fuori un po’ di aria nel tentativo di calmarmi, ma non servì a molto.

«Tesoro, senti», e mi sembrò di nuovo sua madre, «già che sei in piedi, perché non vai in cucina a controllare il tacchino?»

Il respiro si fermò. Il cuore, invece, cominciò a schizzare ancora di più. Mi tremavano le gambe, mi tremavano le mani e nove su dieci mi avrebbe tremato pure la voce. Buttai fuori altra aria e cercai una pellicina da mordere, strappandola e facendomi male quando sentii i passi proprio dietro la porta.

L’anta più vicina a me si aprì. Alan la riaccostò solo col movimento del braccio, senza voltarsi, e quindi senza vedermi. Io ero impietrito. Non respiravo nemmeno. Non mi muovevo, non parlavo. L’unica cosa viva dentro di me era il mio cuore impazzito e quella paura fuori controllo. Deglutii e mi parve di fare un casino pazzesco, ma lui continuò a fare quello che stava facendo, così si chinò davanti al forno e si mise a scrutare il tacchino.

Dovevo dire qualcosa. O anche se non volevo dire nulla, dovevo avvicinarmi a lui. In qualche modo dovevo palesare la mia presenza, no? No. Il mio cervello aveva un sacco di belle idee ma aveva anche le comunicazioni in tilt. Non riuscii a dire nulla, né a fare nulla. Me ne stavo appiccicato a quel muro e basta, seguendo con lo sguardo la sua sagoma che si rialzava e si voltava per tornare in sala.

Lui sussultò appena. Aggrottò per un istante le sopracciglia, poi le alzò, la bocca si schiuse ma non disse niente. Rimanemmo così, distanti, lui sorpreso e io spaventato, senza staccarci gli occhi di dosso. Guardò la porta e poi tornò a guardare me. Cominciò a camminare piano, ma non nella mia direzione, quanto più verso la sala; e quando arrivò alla porta pensai che sarebbe uscito lasciandomi lì da solo, invece la chiuse. Aveva ancora la bocca aperta e lo sguardo sorpreso, poi decise di accorciare le distanze tra noi e in pochi passi mi si parò proprio davanti.

Mi bastò guardarlo perché mi riesplodessero dentro tutti i sentimenti che avevo provato per lui prima della partenza, e soprattutto quelli che avevo provato la sera dell’aperitivo. Ricordai il modo in cui mi aveva baciato e sfiorato, il modo in cui mi aveva fatto sentire amato anche quando ci eravamo lasciati trasportare nel fare l’amore. I suoi occhi non mi dicevano nulla, non capivo se fosse felice di rivedermi o meno. Io deglutii di nuovo e non riuscii più a sostenere il suo sguardo, che abbassai per fissare quella pellicina che avevo strappato poco prima. Continuai a passarci l’unghia sopra per scorticare qualcosa che non c’era più, anche se faceva male. Premetti troppo forte e sentii gli occhi inumidirsi per il dolore… o forse era per la tensione.

Cercai di trattenere una lacrima ma non potei impedirle di uscire e rigarmi il viso. Tenni lo sguardo basso perché non volevo che lui se ne accorgesse e che provasse pietà nei miei confronti; ma l’attimo dopo mi mise due dita sotto al mento e lo tirò su con dolcezza, e fu in quel momento che scoprii che anche lui aveva gli occhi lucidi. Spostò la mano dal mento alla guancia e cominciò ad asciugare tutte le altre lacrime che nel frattempo continuavano ad uscire, proprio come aveva fatto quella famosa sera, con la stessa tenerezza e lo stesso sguardo nei suoi occhi. Ma avevo paura a credere a quello sguardo, paura che fosse un’illusione, che le sue lacrime non fossero di gioia perché ci eravamo ritrovati, ma di rassegnazione per ciò che ormai era troppo tardi per costruire.

Lui portò l’altra mano dietro la mia nuca e con un gesto improvviso mi tirò a sé e mi strinse cingendomi un fianco. Io aderii al suo corpo e lui strinse ancora più forte, avvolgendomi con le sue braccia quasi a voler diventare una cosa sola; così io gli gettai le braccia al collo per sentirlo più vicino che potevo, per farmi solleticare la guancia dalla ruvidezza del suo maglione e per inspirare l’odore della sua pelle e dei suoi capelli.

La pressione del mio corpo tratteneva il suo respiro ingrossato e soffocava i suoi singhiozzi, ma nonostante questo mi teneva a sé con una presa salda, quasi facendo forza, e intanto piangeva, e piangevo pure io, che strizzavo gli occhi per trattenere le emozioni che poi spazzarono via ogni mia resistenza. Mi abbandonai all’idea del suo amore per me, mi fidai di quello sguardo che gli avevo visto poco prima, lasciai che le sue dita tra i miei capelli fossero un segno di tenerezza e protezione.

Lo sentii prendere aria dalla bocca e fare un respiro profondo, poi le sue labbra si posarono sulla mia guancia, su quel filo di barba che aveva fatto in tempo a ricrescere, e lasciò una scia di baci sparsi che mi regalarono un sorriso emozionato. Ruotai appena la testa, ma i suoi baci si fermarono un attimo prima di arrivare alla mia bocca; ci accarezzammo col naso e le nostre labbra si sfiorarono, ma senza unirsi. Fu in quel momento che mossi la testa quel poco che bastava per baciarlo, e la sua mente doveva essere stata attraversata dallo stesso pensiero, perché ci trovammo prima di quanto avevo previsto.

Le sue labbra erano morbide come le ricordavo e mi provocarono lo stesso desiderio di appartenergli che avevo provato la sera prima della mia partenza; abbandonammo ogni timidezza e lasciammo che quell’unione diventasse profonda, ma non ci fu foga, non ce n’era bisogno.

Baciarci sembrò quasi una vecchia abitudine che non avevamo mai perso, stare tra le sue braccia un bisogno primordiale. Lui accarezzava la mia nuca e io la sua, mentre il calore di quel bacio scacciò via ogni residuo di insicurezza e lasciò che le mie lacrime si seccassero sulla pelle. Il suo abbraccio, da stretto e rigido qual era, a poco a poco si ammorbidì e lasciò che diventasse soltanto il nostro spazio, quello dove stare entrambi, quello da cui nessuno dei due sarebbe più fuggito.

Le mie labbra continuarono a scivolare sulle sue e le sue sulle mie, finché il contatto tra le nostre lingue si ridusse fino a scomparire, le nostre bocche a trovarsi un’ultima volta prima di soffiar via una risata. Riaprimmo gli occhi e ci guardammo, uniti da quel morbido abbraccio di fiducia reciproca, perché non serviva più soffocarci in una stretta per sapere che nessuno dei due se ne sarebbe mai andato da lì. Io volevo esserci per lui, lui voleva esserci per me, ma soprattutto volevamo esserci per noi - una parola che in quei due mesi e mezzo aveva smesso di farmi paura. E sapevo che non avevo bisogno di dirglielo perché lui se ne rendesse conto; lo sapevamo e basta, perché era sempre stato così tra noi. Quante cose che ci eravamo detti, senza bisogno di dire una parola.

Alan portò le sue mani sui miei fianchi e poi spostò lo sguardo con fare pensoso, fino a che non lo riportò su di me. Stavamo per tornare nel mondo verbale, quello dove avevamo bisogno delle parole, ma non me ne preoccupai, perché ormai entrambi avevamo la chiave di accesso per quei nostri silenzi, quelli da cui ormai potevamo andare e venire a nostro piacimento.

«Ora che ci penso… come sei arrivato fin qui?»

Ripensai a tutta la giornata che avevo vissuto, a tutte le emozioni che mi avevano attraversato in un continuo saliscendi. Mi scappò una risata.

«Sono tornato ieri sera dalla California», e a quel nome notai che la sua espressione mutò appena, «ho telefonato ad Ash e mi ha detto che eri qui. Poi mi ha mandato il tuo indirizzo e mi ha detto di farci quello che credevo meglio… ed eccomi qua.»

Mi fece sorridere come, ancora una volta, ci fosse lo zampino di Ash. Lui però strinse le labbra e giochicchiò con le mani proprio come aveva fatto la sera dell’aperitivo. Sapevo cosa stava per chiedermi.

«Sei tornato… e per quanto tempo rimarrai a New York?»

Feci spallucce e gli sorrisi.

«Quanto vuoi. Non ti libererai di me così facilmente, sai?»

Gli vidi spuntare un sorriso che nel giro di un attimo si aprì completamente, e ancora una volta sentii che ci appartenevamo. Io e lui. Nathan e Alan.

Mi lasciò un bacio sulla guancia e la sua barba mi solleticò la pelle. Dio, se mi era mancato. Tutto, tutto quanto, ogni cosa.

«Immagino anche che non mi libererò dell’odore delle tue sigarette…»

Mi lasciai andare a una risatina.

«È un problema?»

Lui intrecciò le mani sul mio fondoschiena, poi mi guardò con un sorriso.

«Sì, se vuoi fare delle sorprese fatte bene. Quando sono entrato, nell’ingresso c’era un odore fortissimo di sigaretta… e ho subito pensato a te. Non credevo fosse possibile, ma…»

Lo guardai un attimo interdetto, poi scoppiai a ridere perché non riuscivo a crederci - l’odore delle mie Marlboro… e sì che mi aveva fatto una testa tanta perché si attaccava ai mobili, ai vestiti e blablabla. Per una volta che era tornato utile! E lui era un vero detective. Wow.

«Senti, Ginny ti ha importunato?»

«Oh sì», risposi, «tutto il tempo.»

Lui annuì e poi scoppiammo a ridere di nuovo. Non riuscivamo veramente a stare seri, ma chi aveva voglia di esserlo in quel momento?

«Be’, almeno hai conosciuto tutta la famiglia in un colpo solo. Ottimo lavoro.»

«Fare cose stupide è la mia specialità, lo sai.»

Fece un cenno di assenso e ci guardammo per qualche secondo, entrambi con un sorriso ebete stampato in faccia. Ripensai a tutta la paura che avevo avuto, a come temevo che mi avrebbe rifiutato, e invece eravamo lì, innamorati, a passare il Natale insieme. Cosa potevo chiedere di più?

«Forse cominceranno a darci per dispersi. E in realtà sono molto curioso di sentire tutti i dettagli di questa tua piccola avventura.»

«Oh, con piacere», risposi, poi pensai alla tavolata degli invitati. «E sospetto che tu non sia l’unico.»

Alan soffiò via un sorriso e io sperai di vederlo sorridere ancora per molto, molto tempo. Tolse le mani da dietro e me ne porse una.

«Bene, quindi…», e la mia mano si intrecciò alla sua, «… torniamo di là?»

Feci un respiro profondo.

«Ok.»

Non ero mai stato più felice.

 

 

FINE

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

E così siamo arrivati alla fine di questa avventura. È molto strano per me dichiarare concluso questo capitolo della mia vita visto che mi sono trascinata questa storia per otto anni… e invece a quanto pare è proprio realtà!

Vorrei ringraziare tutti voi lettori per il supporto, e rinnovare la mia gratitudine ad Alexandra per aver commentato sempre con tanta passione. GRAZIE!

 

Arrivati a questo punto, penso sia onesto dire che questa storia ha un seguito (e un seguito del seguito), rispettivamente “Naughty Blu” e “Sorriso sepolto”, che trovate entrambe su questo profilo. Devo però confessare che NB non mi piace più granché, l’ho scritta nel periodo 2011-2014 ed è scritta con uno stile e una maturità molto diversi da questa storia, per cui ecco, non aspettatevi granché (anche se a livello di trama c’è più azione) XD

 

Per il momento, comunque, ho altre due storie che bollono in pentola: una è una sorta di thriller che ancora devo strutturare per bene, l’altra invece riguarda sempre Alan e Nathan ed è ambientata più o meno nel 2015, quindi li ritroveremmo in una veste più adulta rispetto a questa storia. Non posso svelare altro, ma spero di riuscire a scrivere almeno una delle due e di non impiegarci altri otto anni :D

 

Bene, mi sa che è giunto proprio il momento di salutarsi. Nella mia testa avevo preparato un discorso lunghissimo e invece tutto sommato sono stata concisa, incredibile ma vero! Poi sicuramente ho dimenticato di dire un sacco di cose, ma per il momento va bene così.

 

E quindi… a presto J

Simona

~~~Messaggio dalla Simona del futuro: come mini-seguito per questa storia ho scritto una raccolta ambientata a Brighton, che potete trovare qui. Consiglio di leggere questa prima di NB!

   
 
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