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Autore: little_psycho    16/04/2022    2 recensioni
Izuku le mani non è mai riuscito a prenderle.
Daredevil au | vigilante!deku | bakudeku | analisi inconcludente di un non eroe
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou, Shōta Aizawa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A mosca cieca 

Parte I - come si gioca? 

 

Il primo ricordo di Izuku è una mano grande che si tende su di lui, su uno sfondo sfocato di luce tenue, una mano calda e sicura pronta ad afferrare la sua, minuscola, nella culla. Izuku non ha idea di come continui quella storia - con l'occhio della mente non vede le proprie dita intrecciarsi con le altre. 

Il suo ultimo ricordo è sempre immerso in questa strana luce che non riesce mai a inquadrare del tutto - a volte ci pensa e arriva alla conclusione che il suo cervello non riesca a ricordare ciò che lo circondava e allora nasconde la confusione con del bianco accecante. Il suo ultimo ricordo è una mano aperta che si allunga disperata verso di lui, circondata da una sostanza verde e vischiosa, e nessuno, ma proprio nessuno, che desidera prenderla. Allora lo fa lui. Il suo ultimo ricordo è quello di una mano da prendere, ma neanche in questa occasione ricorda come finisca la storia. 

Poi, tutto buio.

 

***

 

Izuku ama la sua città. Non è riuscito a dimenticarla negli anni universitari, quando respirava e non riconosceva l’aria, quando camminava e non sapeva a memoria quali fossero le buche da evitare, quale fosse la fermata per arrivare alla spiaggia e quanti passi ci sarebbero voluti per raggiungere la sua scuola elementare. Quindi era tornato. O meglio, non se n’era mai andato. 

In realtà non c’è un modo veramente efficace per andarsene da casa: se continui a pensarci in un luogo diverso, se con la mente ti aggrappi a immagini che non corrispondono più al reale finché ti è difficile scindere il presente dal passato, che senso ha andarsene? Se alla fine ti trovi sempre allo stesso punto capisci che lasciare indietro qualcosa non è crescere; per Izuku crescere è accumulare esperienze e sensazioni e persone e capacità. Abbandonare significa perdere.

 

***

 

Sua madre aveva letto il giornale ad alta voce quella mattina. 

Chi ci protegge? urlava un titolo non poi così accattivante, e sua madre aveva sospirato. Perché c'erano sempre nuovi Villains e sempre nuovi Heroes ma l'aumentare della giustizia non corrispondeva a un diminuire della criminalità. 

«Voglio solo che tu sia al sicuro» aveva mormorato con i muscoli del volto piegati in un broncio sofferto e Izuku, staccando le bacchette di legno nel silenzio tombale della cucina, contro tutti i suoi propositi e la sua stessa natura, aveva pensato gli Heroes non servono a un cazzo. 

 

***

 

«Questa nuova generazione di Heroes dai costumi sfavillanti non viene forse dalla tua scuola? Se non addirittura dalla tua classe?»

Il cuore di Aizawa aumenta il battito per l’irritazione - Izuku potrebbe tirare ancor di più la corda e annunciare che puzza di sudore e cibo per gatti con un certo aroma di esaurimento nervoso. 

«Eppure, ci deve essere gente come me pronta a rimediare ai loro casini» continua, poco misericordioso, stendendosi di lungo sul tetto di un condominio, tirandosi la maschera fin sotto al naso, sbadigliando. Forse è arrabbiato - o semplicemente non ne può più di vedere interviste su interviste, sorrisi falsi su sorrisi falsi che assicurano che tutto andrà bene. Ma le persone muoiono. E non arriverà un’immensa schiena a strisce bianche e rosse a cui rivolgere lo sguardo. 

«Non fare quella faccia» lo rimbrotta e Aizawa alza la testa di scatto per guardarlo male - almeno, è questo che gli suggeriscono le sopracciglia aggrottate. 

«Tu non la vedi questa faccia, che ne sai?»

«Per te non è un problema quando devo massacrare di botte gli idioti che non riuscite ad arrestare.»

Di sera l’aria si sta facendo sempre più gelida e quasi non sente le labbra per il freddo quando parla. Saranno diventate blu. Come il cielo dell’alba. 

Sono passati tantissimi anni dall’ultima volta che Izuku ha visto entrambi.

«Gli eroi non sono eroi, e i non-eroi sono i nuovi eroi. Vuoi sentirmi dire questo?» 

Aizawa in realtà è un Hero migliore di quelli che scalano le classifiche come se fossero giostre per bambini. Aizawa è più controllato di Endeavour, più coscienzioso di Hawks, più veloce di Best Jeanist, meno rumoroso di Present Mic. Aizawa si alza la mattina, sfama i gatti del quartiere, evita di guardarsi allo specchio e lavora. Fine. 

«Voglio la verità» ribatte, e non  è scocciato, o annoiato, perché Aizawa resta il suo mentore burbero e ossuto, ma il fastidio è più forte di lui. 

«La verità» rimugina l’altro grattandosi il mento pungente dalla barba, passandosi una mano sulla faccia. «Penso che tu voglia essere riconosciuto.»

Izuku non parla - si sfila la maschera perché ha iniziato a sudare, la stringe tra le mani e gira la testa in direzione della sua voce. 

«Penso» ripete Aizawa, «che tutti vogliano essere riconosciuti. È il dramma che ci farà a pezzi, alla fine. Hai ragione: parlano e si beano delle acclamazioni della folla, hanno bisogno di altre persone che gli ricordino che lavoro facciano. Ormai, un Hero non è un Hero se nessuno lo riconosce. Viene meno tutta la sua essenza.»

«Non voglio essere riconosciuto. So quello che sono.»

«Già. Tu non vuoi che gli altri vengano riconosciuti.»

Non ha mai voluto ammettere di aver perso fiducia negli Heroes dopo il suo incidente - gli suonava patetico e anche lamentoso, perché non era certo colpa loro se non si trovavano lì. E poi la grande rivelazione: era stata colpa loro. Il Paese quasi non riusciva a contenere il numero di aspiranti eroi, ma quel giorno, in quel semicerchio di persone che guardavano terrorizzate un ragazzino preso in ostaggio, non erano arrivati. 

Stringe le spalle. «Non lo meritano. Non più di me, almeno.»

 

***

 

Lui e Aizawa si erano incontrati con l’assoluto proposito di non incrociare mai più i loro cammini. Ma, gli aveva confidato l’uomo, una volta che vedi un quattordicenne inseguire una banda di ladri non puoi lasciar perdere. 

Izuku sapeva che il vigilantismo fosse illegale, ma sapeva anche che un ragazzo cieco senza alcun quirk dichiarato che al tempo stesso avesse sensi così affinati da poterli usare al posto della vista non avrebbe fatto alcuna strada. Insomma, senza poteri nella Sezione Eroi neanche ci potevi mettere piede. E lui aveva ancora paura di inciampare sul suo stesso bastone. 

«Insegui i criminali come i cani da caccia. Segui l'odore. Tu non ci vedi. Meglio. La vista è una distrazione. Non ti fa notare quello che veramente serve» gli aveva detto Aizawa dopo averlo sollevato di peso e spinto sugli sgabelli di un bar con le finestre rotte.

In un vicoletto sporco, ben oltre il coprifuoco, Izuku aveva incontrato un uomo con la pelle fredda e il tono di voce più sommesso che avesse mai sentito. 

«Hai più possibilità di essere un Hero della maggior parte dei ragazzini arroganti della UA.» 

Aizawa Shouta gli aveva promesso ti farò diventare tutto quello che vuoi. Dopo aveva  chiesto, ma tu cosa vuoi? 

Izuku aveva osservato il cielo sotto il buio incessante dei suoi occhi e aveva sussurrato: salvare. 

Aizawa Shouta gli aveva teso una mano congelata nonostante fosse una notte d’estate e lui l’aveva afferrata. Era stata la seconda mano della sua vita che non l’avesse rifiutato. 

 

***

 

«L’essenza di un Hero è proteggere. Sei fuori strada se pensi che si tratti di meriti» riprende il discorso sbattendo lentamente le palpebre. Gioca con l’elastico che ha al polso. Sa di averla sparata grossa. 

«Si tratta solo di meriti, sensei. Se non si trattasse di meriti e riconoscimenti, allora anch’io sarei un Hero. Se si trattasse di proteggere - io sarei un Hero e loro no.»

«Allora non sai chi sei. E non hai capito niente degli ultimi dieci anni della tua vita.»

Aizawa vorrebbe aprire la bocca e dare la sentenza finale: già sai perché non sei un Hero. 

 

***

 

Erano seduti su una panchina a mangiare un ghiacciolo, con il petto di Izuku che si alzava e si abbassava pesantemente, sudato e stanco fino al midollo. 

«Voglio bocciare la classe di quest’anno» considerava tra un morso e l’altro, e Izuku aveva riso. 

«L’anno scolastico è appena iniziato!» 

«Non hanno potenzialità. Sono troppo immaturi. Si basano sul potere nudo e crudo, sembra che conoscano solo la legge del più forte. Il figlio di Endeavour - la mela non cade mai troppo lontano dall’albero.» 

Izuku si mordeva l’interno della guancia. Conosceva un ragazzo così. Pensava che fosse un’ottima descrizione di quel ragazzo e sapeva in che classe fosse finito e in che scuola fosse stato ammesso.

«Se le cose fossero andate in modo diverso, ci sarei anch'io in quel gruppo di ragazzini scalmanati che vuoi bocciare.»

«Ma io ti ho scelto.»

«Allora scegli anche loro. Fai in modo che diventino persone da poter scegliere.»

 

***

 

Izuku non rimpiange le scelte compiute, non si dà dell’idiota perché il giorno dell’incidente voleva giocare a fare l’eroe, però a volte la parola Hero gli lascia un retrogusto acido nella bocca, impregna i pensieri come denso fumo di tabacco. 

Magari questi ultimi dieci anni della sua vita li ha davvero  buttati - magari tutto quello che sta facendo, e che farà, e che ha fatto (passato, presente e futuro che girano perpetui nella sua mente senza pause) sarà stato impronte sulla sabbia. 

«So chi sono» ripete, mordendosi il labbro, facendosi cullare dai respiri delle persone sotto di lui, per la strada, dai battiti frenetici dei loro cuori. Un tempo pensava che il suo fosse stato uno scambio divino: la vista per altro - per la possibilità di sentire il sangue affluire nelle vene degli estranei, le singole gocce di rugiada sulle foglie, i minimi spostamenti della terra e del cielo. Izuku, se non fa attenzione, quando sale sull’autobus finisce per essere inglobato dal rumore del motore e delle persone, dai loro corpi vivi e dalla luce del sole che percepisce quasi come lava. 

È bellissimo, pensa ogni volta, poter vivere il mondo così. 

«So cosa non posso essere» gracchia, «e cosa devo fare. Ma è maledettamente irritante sapere che mi sporco le mani al posto di qualche Eroe pagato per fare il suo mestiere.»

Perché il vigilantismo è illegale? Perché esiste una linea sottile da quello che è giusto e quello che è socialmente accettabile. Izuku lo sa - Izuku sa tante cose, come le bugie che sta dicendo. Non gli interessa ciò che fanno o meno gli Eroi. 

Gli interessa quanto stia perdendo se stesso in tutta quella storia. 

 

***

 

Durante il suo allenamento con Aizawa, fatto di orari incastrati tra una lezione e un’ora di sonno mancata e l’altra, aveva detto: «Se il Villain è troppo forte? Se non riesco a sconfiggerlo e l’unica possibilità è ucciderlo?»

Il sensei era un uomo di poche parole, una persona con il battito calmo e il respiro tenue, le spalle incurvate e una presenza pesante e triste, una nota grigia in mezzo a un mare di colore. Aizawa parlava e gli ricordava gli elefanti, vecchi e saggi, giganteschi e mistici. 

«Lo uccidi.»

«Gli Heroes non uccidono.»

Non aveva risposto. In effetti, la sua affermazione si rispondeva perfettamente da sola. 

«Non li ucciderò. Non è così che si fa.»

«Sei tu che scrivi le regole.»


Parte II - per giocare non serve nulla 

 

«Fatti raccontare una storia sulla guerra» gli aveva detto Aizawa quando non poteva avere più di quindici anni. «Che è sempre la stessa guerra.»

Aizawa gli aveva parlato di tre ragazzi: uno fragilissimo, uno fortissimo, e uno felicissimo. E aveva detto che lui non era compreso. Aveva detto che non si potevano salvare tutti. Che la guerra gli Heroes la facevano contro se stessi - che c’erano colpe che ti saresti portato dietro per tutta la vita. Aveva alzato gli occhi con le palpebre pesanti, e Izuku aveva sentito distintamente il sangue che lento gli pompava il cuore. 

E aveva visto il simulacro di un eroe, quello che rimane quando il mondo si prende tutto il resto. L’assoluto guscio vuoto di una noce che una folata di vento fa diventare polvere sotto la suola delle scarpe. 

«Sono pronto.»

(Non lo era.) 

 

***

 

Izuku deve ammettere che di solito non sa quello che fa. Non lo sapeva neanche quando inseguì quella coppia di ladri durante l’estate della terza media. Forse ha la brutta abitudine di buttarsi senza neanche pensare a cosa stia andando incontro, e dopo dieci anni ancora sta lì a domandarsi se in fondo non avrebbe fatto meglio a starsene per i fatti suoi. 

Sbuffa, scende da una grondaia mentre sente le sirene della polizia provenire da dove ha lasciato un Villain legato al palo della luce, giù, vicino alla fermata della metro. Puzza. Sente la stanchezza arrampicarsi nelle ossa. Si strofina la guancia sporca di chissà cosa. 

Fa finta di non notare lo squarcio all’altezza del costato. Fa finta di non sapere di essersi ridotto a uno straccio, come sempre, per un idiota che anche i poliziotti sarebbero riusciti a prendere. Una nullità per cui gli Heroes neanche si sono scomodati. 

L’unica cosa che sa per certissimo è che lui si aspettava altro. Aizawa gli aveva servito la verità nuda e cruda e lui aveva pensato di poter avere un esito diverso. Ovviamente a quel tempo era ancora accecato dal blu e dal rosso del costume di All Might, da una marea di verde vischioso e dalla disperazione di due occhi che…

Insomma. Lui non voleva finire appoggiato alla facciata lercia di un edificio abbandonato, di notte, con una vecchia tuta da ginnastica, per la miseria. 

Ogni giorno si dice che potrebbe abbandonare tutto. 

L'energia non si distrugge, si trasforma, giusto? È una legge della fisica che ha imparato nel suo liceo, in quella sezione ridicolmente difficile e severa, in quel suo masochismo giovanile di dover dimostrare a tutti che poteva combinare qualcosa di buono nel mondo. Comunque - l'energia. Izuku è sicuro che i sentimenti siano energia, in qualche modo, di una branca  sconosciuta della scienza dell'anima. I sentimenti sono energia che non si distrugge. L'amore si trasforma. Izuku prova amore per quella città dimenticata da Dio, piena di criminali, per i suoi vicoli sporchi e per quella spiaggia così piena di spazzatura che non si vede la linea dell'orizzonte. Ma ha paura che quell'amore si sia trasformato in odio - che abbia passato così tanto tempo a sprecare energia e che quell'energia non abbia cambiato niente. Ha paura che troppo amore abbia fatto tutto il giro per essere odio.

Gli Heroes non odiano le persone che salvano. Di questo ne è sicuro. Aizawa gliene avrebbe parlato. Che ne potrebbe sapere Izuku? Lui è un aspirante Hero. La copia sbiadita di chi quel mestiere lo fa davvero. 

Un mestiere, eh. Salta su un cassonetto, fa scappare un gatto appollaiato, si arrampica sull’ennesima grondaia per salire sull'ennesimo tetto che lo porterà più vicino al suo appartamento. 

Un lavoro. Ha sempre creduto che un Hero è quello che sei, non quello che fai. Ma sono solo parole. Potrebbero farti credere di essere Hero quando in realtà timbrano il cartellino e saltano su edifici in fiamme. E quale sarebbe la differenza? Qualcuno (Aizawa) potrebbe obiettare che almeno loro un cartellino da timbrare lo hanno. 

“Penso che tu voglia essere riconosciuto”. 

Izuku pensa tante cose, ma mica gliele va a dire. Pensa che il docu-film migliore su All Might sia il quarto della seconda serie, che nel libro che sta leggendo il protagonista sia davvero una palla al piede, che le frittate di sua madre siano buonissime ma mai come quelle del ristorante vicino alla spiaggia. Pensa che se non ci fosse nessuno che sappia della sua esistenza, allora sarebbe bello che morto. Pensa che se un giorno Aizawa-sensei verrà colpito da un quirk della memoria, o morirà, allora tutto il lavoro di dieci anni andrà perso. Il vigilantismo si fa nelle tenebre - il braccio invisibile della giustizia. Si tira meglio la maschera sugli occhi, stringe i lacci dietro la nuca, sospira per la fitta lancinante alle costole. 

Izuku vuole solo sapere di essere qualcosa. Neanche qualcuno. È per questo, forse, che rimane immobile in un'aria quasi cimiteriale mentre sente il pollice di un estraneo sollevarsi e scattargli una foto. 

 

***

 

Aizawa si era fatto più duro nei loro dieci anni di assidua frequentazione, ma all’inizio era stato abbastanza delicato. Non parlava mai dell’UA, di quel regno scintillante che gli era stato precluso, un Eden da cui era stato scacciato con una spada fiammeggiante, di cui Izuku era diventato Adamo con un piede dentro e uno fuori le mura - oppure era stato Eva, quando aveva deciso di andare oltre le proprie possibilità, di toccare quello che apparteneva agli dei, di sfidare un potere che non gli apparteneva. 

Aizawa non voleva raccontargli dei ragazzini promettenti che allenava, dei brillanti Heroes che sarebbero diventati, dei loro quirk che nonostante tutto Izuku avrebbe amato analizzare. Non chiedeva neanche di come fosse diventato cieco. 

Poi, una mattina uggiosa, quando il sudore per la corsa e l’umidità nell’aria si stavano stagnando sulla sua pelle e lui si sentiva già a disagio di suo, chiese ad Aizawa se avrebbe potuto incontrare All Might. 

(Non gli disse che già si erano incontrati) (e che lui lo aveva avvertito che non sarebbe potuto diventare un Hero) (e che era solo colpa di Izuku se era finito in quella situazione per non aver ascoltato i consigli di un esperto). 

(Per tantissimo tempo non aveva ammesso di aver salvato Kacchan solo perché voleva dimostrare di essere all’altezza.) 

«Tutti i ragazzini con l'uniforme stirata e i sogni nel cassetto vogliono incontrare All Might. E nessuno dovrebbe incontrare i propri eroi» gli aveva risposto greve, come se già sapesse come sarebbe andata a finire la storia. Aizawa lo faceva sempre. Parlava come se la storia del mondo fosse stata srotolata davanti ai suoi occhi come un lunghissimo papiro e avesse memorizzato ogni singolo avvenimento. Izuku invece non sapeva mai cosa sarebbe accaduto. Non conosceva il finale di alcuna storia. 

Aveva riso con il respiro affannato. «La mia uniforme non è mai stirata.»

Evitò di informarlo che di sogni nel cassetto non c’era nemmeno l’ombra. 

 

***

 

«C’è forse un angelo protettore per le nostre strade? L’opinione pubblica è divisa» legge sua madre dal giornale del sabato, come tutti i sabati in cui la va a trovare, e gli descrive la foto sfocata in prima pagina, una figura con le spalle incurvate e nera contro il blu della notte. 

«Sembra perdere sangue» commenta con un velo di preoccupazione. Poi gli lancia un’occhiata che dal suo battito cardiaco deve essere insicura, come se volesse dire qualcosa. Alla fine sospira ed esclama aspra: «È questo quello che succede quando gli Heroes non fanno il loro lavoro. I ragazzini li vogliono imitare.»

 

***

 

Non ricordava tutte le lezioni impartite da Aizawa, anche perché molte erano soltanto paranoie di un vecchio che avrebbe dovuto dormire più di tre ore per notte, al posto di andare in giro per il quartiere lasciando cibo in scatola per i gatti randagi. 

Aizawa - durante il suo secondo anno di liceo, quando aveva già visto il Festival Sportivo di quelli del primo anno della UA - si era lasciato sfuggire: «C'è un ragazzo nella mia classe che mi ricorda te.»

Izuku si era girato di scatto, le sopracciglia sollevate, aveva sbattuto le palpebre un paio di volte e alla fine aveva fatto un cenno di incoraggiamento per farlo continuare. Aveva bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi. Ma Aizawa aveva stretto le spalle. 

«Forse è la grinta. O l'abitudine ad urlare a ogni minimo inconveniente.»

Aveva fatto un sorriso davvero grande dopo quelle parole. La grinta di un Hero. Gli sembrava un aspirante Hero esattamente come i suoi alunni. Poteva funzionare. Aizawa non aveva idea di cosa quelle parole potessero fargli. Lui avrebbe potuto far vedere a All Might, a Kacchan, a tutti che…

«Mi devi promettere» lo interruppe Aizawa con voce ferma, alzandosi dalla panchina e mettendosi di fronte a lui, «che non farai mai niente per vendetta.»

Per la prima volta si era chiesto perché Aizawa avesse deciso di essere un Hero. 

«Lo prometto.»

 

***

 

«Quello che ormai chiamano il Diavolo di Musutafu farà crollare la società degli Heroes?» legge ad alta voce sua madre il sabato successivo, e nel suo tono vibra l’ammirazione. 

 

 

 

Parte III - se non un semplice fazzoletto per bendare uno dei concorrenti 

 

Izuku non aveva capito cosa significasse non essere un Hero fino a diciotto anni e dieci mesi, quando non era riuscito a domare quel sentimento di frustrazione e rabbia che lo inglobava nel combattimento. Aveva supposto che fosse un effetto collaterale della sua situazione - i sensi sviluppati, un incredibile fuoco di distruzione, una foresta in fiamme che non si spegne mai, lingue brucianti uscite direttamente dall’inferno. 

Lo aveva detto ad Aizawa. Lo aveva spiegato con tutta la calma del mondo, che non sapeva come fare, come controllarlo. E tempo dopo aveva supposto che fosse lo stesso discorso dell’amore: troppo zelo che diventa tutt’altro. Che si snatura in un mostro dalle nocche spaccate. 

Ma alla fine delle giostra, gli Heroes cosa risolvevano? I Villain andavano in prigione, uscivano, e ricominciava il giro. Il cane che si rincorreva la coda. Anzi, il serpente che si mordeva la coda. Il cane a un certo punto si fermava. Il serpente era incatenato in una circonferenza perfettamente funzionante. 

Gli Heroes dovevano portare la pace. Tecnicamente, non era una cosa (lavoro? Davvero?) a tempo indeterminato.

Un giorno, in teoria, la pace sarebbe dovuta arrivare. Se per qualche miracolo utopico non ci fossero stati più criminali, non ci sarebbero più stati Heroes. Però la loro era una società di Heroes. Senza di loro sarebbe crollata su se stessa. Prosperavano le scuole, lo Stato, le industrie. 

Senza cattivi non c’erano eroi. Il male serviva. Gli Heroes lo volevano. 

Era un cancro che senza un corpo da infettare non poteva vivere.

La guerra - la guerra che era sempre la stessa; non si finiva una guerra senza iniziarne un’altra. 

Ovviamente non si poteva sradicare il male alla radice, o così si diceva. Dovevi rendere conto alla legge, e alla giustizia, e al diritto naturale e chissà cos’altro. 

Chi poteva giocare a fare Dio? 

Il problema delle leggi è che devi  seguirle anche se sono sbagliate. 

Non seguirle ti avrebbe reso un buon cittadino? E potevi davvero considerarti un buon cittadino seguendo leggi sbagliate? Potevano ancora esistere cittadini, leggi e autorità in un mondo governato dal più forte? Loro non vivevano nel futuro - la società dei quirk li aveva riportati a migliaia di anni prima. Era il dono di Prometeo agli uomini, senza sapere di averli dannati con la conoscenza. La parte terribile del progresso era che non si poteva fermare. 

Izuku aveva diciotto anni e dieci mesi quando infranse la legge - quella vera. Il mostro che aveva dentro di sé lo trascinò alla porta di Aizawa, con il sangue ancora caldo sotto le unghie, un sangue che portava le pulsazioni di un cuore ancora vivo solo nella sua mente, un enorme vuoto al posto del petto. 

“Gli Heroes non uccidono”. 

All’epoca Aizawa non aveva risposto. 

Nel buio della notte aveva il respiro di chi già conosceva le sorti dell’universo. 

«Hai visto? Sapevi che sarebbe successo.»

A diciotto anni e dieci mesi, Izuku capì di non poter essere un Hero. 

 

***

 

«Midoriya» sibila Aizawa, pronto all’omicidio come poche volte l’ha visto. Sbatte sul tetto di una banca il giornale incriminato e lui lo sa per l’odore, il peso della carta, la grandezza e il numero di fogli che percepisce. E lui non ci vede ma sa cosa c’è in prima pagina. Cosa è stato in prima pagina per due settimane di seguito. 

«Spiegati.»

Stringe le spalle, scrocchia le nocche, si siede a gambe incrociate e poi si alza in piedi. Sente le guance rosse. Fa schifo a mentire. 

«Non me ne sono accorto…»

«Come?»

«Non l’ho visto!»

«Smettila con queste stronzate!»

Rimane in silenzio per minuti interi, densi, pesanti, e il suo risentimento cresce. Perché sapeva che sarebbe successo. E non l’avrebbe fermato in ogni caso. 

«Capisci quanto è pericoloso? Capisci quanto rischi? Se scoprissero chi sei, cosa fai… pensi che alla fine ti ringrazierebbero? Pensi che la polizia ti verrà a stringere la mano? Pensi che gli Heroes ti daranno una pacca sulla spalla?»

«Gli Heroes possono stare alla luce del giorno, e io mi devo nascondere. Va bene. La settimana scorsa stavano per ammazzare tre civili e degli Heroes nessuna cazzo di traccia! Sarebbero morti! Le persone meritano di sapere la verità. Che razza di gente le farebbe morire.»

«Ma cosa-»

«Lo sai perché non c’era nessuno? Perché non c’erano giornalisti. O fotocamere. Non c’era nessuno che potesse immortalarli mentre salvavano bambini urlanti. Lo sai perché-» si ferma per riprendere fiato, e ha tanto veleno da sputare. «-non c’era nessuno quella volta? Perché non c’era nessun Hero quando Kacchan era in pericolo? Gli Heroes non sono questo. Non so cosa dovrebbe essere un Hero. O cosa sia io. Ma non questo.» 

Scuote la testa e salta giù. 

Sente lo sguardo di Aizawa che gli perfora la nuca mentre si mimetizza tra la folla. 

 

***

 

A quattordici anni Izuku non poteva fare a meno di autocommiserarsi. Non poteva evitare di odiarsi - per essere quirkless, per aver perso la vista in un modo così stupido, per le parole di All Might, per i pianti di sua madre soffocati contro un cuscino. Non poteva fare a meno di affacciarsi al suo futuro e vedere un pozzo nero e senza fondo. Cosa ci poteva mai essere? 

Aizawa lo sapeva. Apriva la bocca e la chiudeva, perché chiaramente non aveva mai avuto a che fare con ragazzi del genere. Mica se li trovava nella scuola di eroi più prestigiosa del Paese.

Izuku si era steso sulla spiaggia, ricoprendosi di sabbia bagnata, proprio sul bagnasciuga, con il mare che gli bagnava i pantaloni della tuta. Doveva chiudere gli occhi per non essere sopraffatto dal rumore dei gabbiani, lo scrosciare delle onde contro le rocce, le conversazioni di chi passeggiava, i cuori di tutte le creature presenti che battevano e urlavano di essere vivi. Izuku non poteva mai sentirsi solo. L’isolamento, con un’abilità così, era impossibile. 

«Sei fortunato» sussurrò Aizawa dopo un po’, sedendosi accanto a lui, nonostante odiasse il mare e il sole e le persone. 

«Non sei nato cieco» continuò, «lo sei diventato. Prima hai potuto vedere e ora puoi sentire. Percepire. È un miracolo. Sei stato benedetto. Immagina se…»

«Se avessi perso la vista senza acquistare niente. Se non ci fosse stato alcun scambio» finì lui, chiudendo le mani a coppa e facendo cadere un po’ di sabbia alla volta, come la clessidra che sanciva la fine del mondo. 

«È triste pensare di essere fortunato solo perché mi sarebbe potuta andare peggio.»

 

***

 

Solitamente è Izuku quello che butta la gente nei cassonetti dell’immondizia, di certo non è quello che viene buttato. Ma anche qui c’è un errore: si è auto-buttato nel cassonetto, perché l’atterraggio sarebbe stato morbido. E perché, beh, forse l’emorragia non gli sta facendo arrivare sangue al cervello. 

Nel corso della sua onorata carriera ha lasciato litri di sangue per tutta la città. Il fatto che nessuno ne abbia preso un po’ per analizzarlo e capire chi possa essere il famoso vigilante la dice lunga sulle abilità investigative della polizia. 

Grugnisce per il dolore. Il lato negativo di avere i sensi così sviluppati è che trovarsi in un cassonetto dell’immondizia è nuotare nel guano. Izuku è piuttosto sicuro che prima dei quattordici anni i cassonetti non fossero così puzzolenti. 

«Oi» chiama una voce che gli farebbe gelare il sangue nelle vene, se solo ne fosse rimasto abbastanza. «Ti ho appena visto fare bungee jumping da un palazzo o il mio cervello è completamente fottuto?»

Izuku riconosce Kacchan appena apre bocca. Nitroglicerina. Voce rasposa. Pelle troppo calda e battito accelerato. 

«Forse entrambi» suggerisce roco, schiarendosi la gola. Va tutto bene. Ha la maschera. E dopo tutto quel tempo come farebbe a riconoscerlo?

(Okay, Izuku ci è riuscito, ma quella è un’altra storia.)

Kacchan non sembra colpito dalla sua presenza di spirito. Izuku non può far altro che girare la testa da dove sente provenire la voce, mettendosi più comodo sui sacchi dell’immondizia, sperando che il netturbino venga prima che lui si dissangui completamente. 

«Stai sanguinando» nota Kacchan e lui sbuffa. 

«Non me n’ero accorto» mormora polemico, alzando gli occhi al cielo dietro la maschera e chiedendosi perché tutti quei desideri adolescenziali di incontrare di nuovo Kacchan si fossero realizzati proprio in quel momento. 

«Tu sei quel vigilante» deduce dopo attimi di silenzio da parte di tutti e due. 

«E tu sei un Hero» lo rimbecca con un saporaccio in bocca - cerca di convincersi che sia il sangue secco. 

Kacchan sospira. La sua voce è più profonda e, dalla distanza a cui si trova la sua testa, si è fatto più alto. Dalla pesantezza dei suoi passi si è fatto molto più muscoloso. Ha le spalle larghe, la schiena dritta, il mento alzato. Cammina come un Hero. Cammina come qualcuno che benedetto lo è davvero. 

«Già, sono un Hero» sembra dire a se stesso. Ignora la mano che Izuku gli ha teso per farsi aiutare ad alzarsi - lo afferra da sotto le ascelle e lo solleva con un verso strozzato. 

«Sei più pesante del previsto» dice dopo e Izuku ride sotto i baffi. 

«Ringrazia che ho perso un paio di litri di sangue prima.»

Kacchan si stringe il ponte del naso tra le dita. 

«Come cazzo sei conciato male» borbotta. Senza avvisarlo gli tocca la ferita aperta e Izuku caccia un urlo sorpreso. 

«Ci vedi qualcosa sotto quella…» sembra pensarci prima di finire, «…sciarpa

«Maschera. E comunque no. Non ne ho bisogno.»

«Allora seguimi.»

Dopo una settantina di metri Izuku già capisce dove si stanno dirigendo e vorrebbe ridergli in faccia. Crede che non riuscirebbe a ricordarsi dove sia casa sua se non riesce a vedere? E come pensa che combatta tutte le notti? Forse non è Kacchan e lui ha preso una svista. Forse è un novellino di qualche agenzia. 

Arrivati davanti alla porta di ingresso, però, gli stringe il braccio e Izuku sa benissimo che si tratta di Kacchan. Ovvio che lo sa. La presenza, l’odore, il respiro, la pelle, la forma delle mani. Ricorda che non gli ha preso la mano prima. Solo Kacchan farebbe qualcosa del genere. 

«Siediti» gli ordina e in quel momento Izuku realizza quanto sia tranquillo Kacchan. Non ha urlato. Non ha fatto esplodere nulla. Ha solo imprecato come un vecchio lupo di mare quando non è riuscito a trovare ago e filo.  

«Senti» inizia, muovendosi a disagio sulla sedia, grattandosi la guancia rossa per l’imbarazzo. «Non serve. Posso fare da solo. Mi faresti un piacere se facessi finta di non avermi visto.»

Kacchan si appoggia contro il lavandino e incrocia le braccia davanti al petto. «Dovrei consegnarti alla polizia. Ma…» si ferma, deglutisce e Izuku è così felice che non l’abbia riconosciuto. «…non penso sia sbagliato, quello che fai. Come lo fai. Io…» si zittisce. «Guarda che mi stai morendo dissanguato nel cesso, quindi levati la maglia e sta’ un po’ zitto. Sembri un coglione.»

 

***

 

Aizawa non mollava l’osso riguardo tutta la storia degli Heroes e Izuku era ancora troppo giovane per poter capire dove volesse arrivare il suo discorso di colpe e promesse che si dovevano fare a se stessi. E, come tutti i professori di liceo che avevano il sentore che i propri alunni ne sapessero più di loro, pensava sempre che Izuku lo volesse fregare. 

«Nessuno è al di sopra della legge» gli ricordava di tanto in tanto, ogni volta che lo vedeva più ribelle del solito, più nervoso, quando si mordicchiava le labbra e si grattava infastidito il retro delle orecchie. 

«Non ero io che scrivevo le regole?» gli aveva risposto ingollando sudato acqua dalla borraccia, e non poteva davvero essere molto piccolo, comunque, perché durante l’adolescenza aveva le gambe lunghe per cacciarsi nei casini, ma la capacità di rispondere era arrivata solo tempo dopo. Forse quando aveva capito che non sarebbe stato un Hero. Perché seguire leggi non scritte per lui? Per quello che gli interessava, lui faceva giustizia. 

«Le regole che ti imponi e la legge che ti viene imposta sono due cose ben diverse» lo rimbeccò - magari ne aveva diciannove, di anni, oppure diciotto e undici mesi, o ancora diciotto, dieci mesi e un giorno. 

«Gli Heroes non seguono la legge» si era fermato. «O almeno, non sempre. È una vocazione. Io - secondo la legge non dovrei fare quello che faccio, ma alla fine salvo le persone. Le proteggo. Non mi sembra tanto giusta.»

Un vero Eroe andava contro tutto, no? E anche se Izuku non lo era, poteva esserne un ibrido, una sottospecie, poteva ancora inseguire il riflesso del costume di All Might che la notte aleggiava negli specchi delle pozzanghere dei vicoli non frequentati. Del riflesso della luna che si era riverberato su una strada che non aveva potuto vedere quando gli era stata offerta una vera possibilità. 

Aizawa chiuse gli occhi. 

«Voglio bene a Toshinori. Davvero. Ma ha avvelenato la società in un modo che non posso aggiustare.»

 

***

 

La conoscenza è potere. Per la prima volta nella sua vita, Izuku ha del vero potere, la cosa più vicina a un quirk a cui potrebbe mai aspirare. Lui sa chi è Kacchan e Kacchan non ha idea di chi si celi dietro la maschera. 

Kacchan non sa dove abiti, che faccia abbia, che tipo di Unicità possa nascondere, che lavoro faccia. Bakugou Katsuki quella sera potrebbe benissimo aver messo cinque punti allo stomaco di un fantasma - e in fondo, cos’era Izuku per lui?

Ma i fantasmi tendono a essere abitudinari. Così Izuku si arrampica sui mattoni a vista del suo condominio e bussa con delicatezza alla sua finestra. Arriccia il naso quando si accorge di aver lasciato un’impronta di sangue sul vetro. 

Lui ha pensato tanto a Kacchan durante quegli anni e adesso non riesce a lasciarlo andare. Come una corda legata alla vita di entrambi, si tirano a vicenda l’uno all’altro. 

«Ma come cazzo-» impreca Kacchan alzando le braccia per aria, «quindi ci vedi sotto quella sciarpa di merda.»

«Maschera. E non mi serve vedere.»

Kacchan in fondo non può essere cambiato così tanto. Riconosce che quasi gli manca sentirlo urlare. Anche se con l’udito che si ritrova gli farebbe sanguinare le orecchie. 

«Sticazzi. Che ti serve?»

«Mi hanno accoltellato» ammette contrariato, ancora appoggiato al cornicione, i piedi ben saldi nelle insenature dei mattoni. Dovrebbe prendersi un costume più resistente, perché chiaramente le tute dell’Adidas scontate al dieci per cento non sono pensate per il combattimento corpo a corpo. Buono a sapersi. 

Sente il respiro di Kacchan impigliarsi tra i denti. Ha sussultato. I palmi delle mani stanno iniziando a sudare. Abbozza un sorriso per fargli capire che non è così grave.

«E sai che mi frega. Porta quel culo suicida altrove» taglia corto e Izuku - Izuku gongola come un disgraziato, perdendo sangue a cinque metri dal suolo nel cuore della notte.

«Stai mentendo» lo contraddice allegro, facendo forza sulle braccia e scavalcando la finestra, buttandosi a peso morto sul pavimento della stanza. Dalla posizione dei mobili dovrebbe essere la camera da letto. 

«Cosa?»

«Posso capire quando menti dai battiti del cuore.» Alza un dito per zittirlo. «Non ci provare, non è una cosa che puoi controllare. Utilissimo per gli interrogatori.»

A Kacchan interessa. 

(A Kacchan interessa.)

Entra uno spiffero freddo che gli accarezza il collo quando Kacchan parla di nuovo. 

«Mi stai trattando come un Villain?» 

Izuku fa una smorfia. 

«Da collega ti sto chiedendo di rattopparmi le ferite» considera alla fine, saggiando la parola. Di certo non può dire “amico”. A che titolo? È una situazione ai limiti dell’assurdo: si conoscono da quattordici anni ma adesso sono estranei.

Non ha idea di cosa aspettarsi dall’uomo di fronte a sé e con un nodo nel petto si accorge che l’immagine che associa a Kacchan è quella di un qualcuno sulle soglie dell’adolescenza. Parla con lui e vede un bambino con i capelli ingestibili. 

Kacchan sospira, gli afferra la spalla e lo fa sedere malamente sul letto. Gli alza la maglietta e tampona il taglio, ha le mani ferme e calde e la parte più disconnessa della testa di Izuku si domanda se riscaldandole abbastanza potrebbe cauterizzare le ferite. 

Glielo chiede. Lui sbuffa una risata incredula.

«Sei pazzo.»

«Abbastanza pazzo da andare disarmato a uno scontro armato.»

Kacchan non fa una piega. L’odore di disinfettante gli pizzica le narici e si deve strofinare il naso. 

«Abbastanza pazzo da inseguire criminali quando esiste gente apposta per quello.» Borbotta lui, «Tipo me.»

Izuku alza gli occhi al cielo ma chiaramente l’altro non lo può sapere, quindi schiocca la lingua. 

«Perché lo fai?» continua a domandare, con una nota di sincera curiosità nella voce. Cosa risponderebbe se stesse parlando Izuku Midoriya? Non sa chi sarebbe per Kacchan senza la maschera. 

«Perché tu lo fai?»

«Perché sono un Hero?»

«Sì.»

Izuku ancora crede nei “veri” Heroes. In quelli come All Might che sono pronti a morire per gli altri. In quelli come Aizawa che si nascondono dalle telecamere. Vorrebbe capire che tipo di eroe è diventato Kacchan. 

Lo sente assottigliare le labbra. 

«C’era un ragazzo.»

Izuku spalanca gli occhi.

«Già, anche per me.» Si sente rispondere. «Anche per me c’era un ragazzo.»


Parte IV - che viene fatto girare più volte su se stesso per disorientarlo 

 

Izuku aveva pensato molto ad Aizawa durante la sua formazione, molto di più di quanto non avesse pensato ad altri Heroes, tranne forse All Might. Per esempio, non aveva mai pensato a Endeavour, perché gli era sempre sembrato così lontano da qualunque concezione infantile di Hero e per tanto tempo si era chiesto come sarebbe mai potuto essere l’eroe di qualcuno. Endeavour. Kacchan odiava quando da piccoli gli altri bambini giù al parco gli affibbiavano il suo personaggio mentre giocavano. 

Eppure - Enji Todoroki aveva una licenza da Hero, si era diplomato alla UA e si aggrappava tenacemente al secondo posto nelle classifiche quando Izuku era un liceale. 

Si ritrovava spesso a chiedersi se Aizawa non si fosse pentito di aver frequentato una scuola che formava persone come lui non sarebbe mai stato - in cui aveva conosciuto qualcuno di fortissimo, qualcuno di felicissimo e qualcuno di fragilissimo. Così aveva detto. Poteva sembrare una filastrocca. 

Forse Izuku voleva che fosse come lui. Come se a un certo punto un giovane Shouta si fosse guardato attorno e avesse borbottato scorbutico "e io che ci faccio qui?". Voleva ardentemente che esistessero altre persone che girassero su se stesse e sentissero il mondo come se avessero passato la vita nello spazio. Come se fosse estraneo e anomalo. 

Un poco a malincuore, Izuku aveva capito che se avesse dovuto separare in categorie gli Heroes, All Might ed Endeavour sarebbero andati insieme e Aizawa sarebbe stato una specie a parte, nonostante avrebbe tanto voluto poterlo mettere con All Might.  

Tutto getta un’ombra - più la luce di All Might ed Endeavour era forte, più l’oscurità in cui si nascondeva Aizawa era fitta.

Izuku era sicuro che anche lui stesse cercando di capire cosa fosse un Hero. Lo doveva star cercando dove gli altri non volevano andare. 

(Endeavour non era l’opposto di All Might - erano due facce della stessa medaglia) (Aizawa lo era.) 

 

***

 

Va bene, Izuku si è detto che i fantasmi sono abitudinari, ma un fantasma non lo è davvero. Se n’è accertato. Ha fatto in modo che quello sconosciuto scattasse la foto apposta. Aizawa gli tiene ancora il muso, comunque, e non si è più fatto vivo. Forse è per questo che ritorna sempre alla stessa finestra, più o meno acciaccato, perché alla fine Izuku vuole davvero essere riconosciuto. 

Odia ammettere quando Aizawa ha ragione. 

Sta trovando se stesso nell’appartamento di Kacchan - non è né il Diavolo di Musutafu né Izuku Midoriya, non del tutto, un misto tra i due coronato da un Deku di quattordici anni. È tutto e niente allo stesso tempo, tutto quello che è stato e che sarà, una pellicola che si riavvolge così velocemente da non rendere nessuna scena distinta. 

Per lui è il punto dove si sono lasciati, in realtà. Per Kacchan dovrebbe essere il punto in cui gli viene un bel mal di testa. 

Le mani di Kacchan sono le protagoniste di incontri che hanno per oggetti di scena sangue e garze e birre freddissime. Lui ricorda le mani di Kacchan come armi di distruzione, esplosive, grandi, scattanti e violente - adesso taglia e arrotola bende, tampona squarci, tasta ematomi, passa bevande dal collo di vetro delle bottiglie. 

È una dualità miracolosa. Con le mani guarisce e protegge e Izuku ha sempre avuto qualche sorta di problema con le mani, le sue o quelle altrui. Perché le mani sono speciali - con le mani si costruisce, gli uomini sono Dei grazie alle mani. Ma Izuku, con quei polpastrelli induriti, i palmi pieni di calli, le dita spellate e i dorsi sfregiati, non era capace di fare niente. Sapeva solo distruggere e distruggersi. 

Izuku le mani non è mai riuscito a prenderle. 

Le mani collegano. Le mani aiutano. Izuku è contento di aver perso la vista e non le mani. Tanto può vedere lo stesso - ma toccare, toccare è diverso. Sua nonna una volta lo aveva guardato, gli occhi verdi come i suoi e quelli di sua madre, offuscati dalla vecchiaia, e aveva detto: le mani sono importanti. Aveva mosso il mignolo per spiegarsi meglio. 

Scacciare una mano che vuole aiutare gli sembra quasi un atto contro natura. I bambini si tengono per mano quando attraversano la strada - se si ha paura si afferra la prima mano disponibile. È un intreccio di falangi, nervi, pelli, unghie sottili, pelle calda o fredda, palmi sudati o asciutti. Un conforto che non si potrà mai trovare in nessun altro contatto. 

Izuku conosce una persona - meglio, conosceva -, conosceva una persona che non voleva mai una mano per attraversare la strada, o per alzarsi, o per battere il cinque. Conosceva una persona con i palmi sudaticci che riusciva a sentire solo quando lo spingeva o gli tirava le guance.

Le mani di Kacchan continuano a essere sudate anche quando protegge e guarisce e gli passa birre amarognole. Forse è per questo che non vuole mai toccare le sue - ha paura che possano fargli del male? Come vede Kacchan le sue stesse mani? Deve sempre stare sull'attenti, sempre controllato, per evitare di bruciare qualcuno? 

Kacchan non tende le mani né per aiutare né per essere aiutato. Quando lo deve spostare lo afferra per il busto, le spalle, le braccia. E c’è qualcosa di ironico nell’immaginare un bambino in pericolo che tende la manina tremante e un Hero grande e grosso che ha paura di prenderla. 

Izuku è stato quel bambino, comunque. 

Il suo primo ricordo è quello della mano di suo padre che nella culla non arriva mai - non lo afferra mai. Non conosce il tocco di suo padre e neanche gli interessa, perché i suoi ricordi sono pieni delle mani piccole e morbide di sua madre che lo accarezzano. Il suo ultimo ricordo è la mano di Kacchan che per la prima volta in tutta la sua vita si tende verso Izuku, ma alla fine come in una creazione di Adamo non si toccano mai. 

Per essere un ragazzo deciso ad aiutare il prossimo, però, non dovrebbe avere così tanti ricordi di persone che non afferrano la sua mano. 

Izuku pensa tanto anche alla mano che Aizawa gli aveva porto e quella che All Might non aveva neanche pensato di offrirgli. 

Le mani creano speranza in luoghi dove Izuku non riesce più a riconoscere altro che sofferenza. 

Lui e Kacchan parlano di tante cose. Film, All Might, UA, le zone più pericolose della città, quali Heroes proprio non riescono a mandare giù e quello è il via libera per Kacchan di lamentarsi di tutti i suoi ex compagni di classe. 

E Izuku parla dei suoi, di amici, che effettivamente ha, lo giura, non si sta inventando niente, gente apposto, un po’ sbadata, che perde sempre l’ultimo autobus e sta finendo l’università. Gente che incontra la sera per andare al cinema, o a mangiare, o a cantare al karaoke. Gente a cui mente continuamente, e che gli lascia un senso di nausea alla bocca dello stomaco. 

Ma una cosa che in fondo si aspettava, è che non sa decidere se Kacchan sia un Hero o lo faccia solo. Questa è una domanda fondamentale - che potrebbe risolvere anche il quesito delle mani, tra l’altro. 

Quindi gli chiede una cosa a cui non ha pensato per tantissimo tempo, un dubbio atavico che prima o poi sorge a tutti. In un’interminabile notte in cui è steso sul suo pavimento, con una fasciatura sul braccio e un antidolorifico buttato giù con del sakè, fermi nel lontano chiasso della città che non muore mai, parla. 

«Dove vai una volta che hai raggiunto la cima?»

 

***

 

A diciotto anni e dieci mesi Izuku si era chiesto perché Aizawa fosse diventato un Hero. E ancora era insicuro se si potesse diventare Heroes o se in realtà ci nascevi e basta. Aveva sempre creduto che fosse un qualcosa di naturale, come un arto - ma. Non sarebbe stato terribile, alla realtà dei fatti? Appena nato non sei niente e poi diventi qualcosa. Qualunque cosa. Anche una persona di merda, vero, ma Izuku doveva essere stato proprio un ingenuo a credere che la gente fosse eroica dall’inizio della propria vita fino al suo ultimo respiro. 

Forse era perché All Might dava l’idea di averlo innato, quel suo eroismo. Quando immaginava All Might alla sua età, o anche più piccolo, onestamente faceva fatica a figurarsi un ragazzino mingherlino come lui, quirkless e disperato. All Might era tante cose, ma non un Hero in cui ti potevi immedesimare. All Might era All Might. 

Era il sogno dell’infanzia proprio perché era irraggiungibile. E sarebbe rimasto tale per tutta la sua esistenza.

Se lo avesse davanti a sé un’altra volta, non gli chiederebbe perché era diventato un Hero. Sarebbe ridicolo. Gli riderebbe in faccia. Sarebbe stato come chiedere a una persona perché respirava. 

(Non gli avrebbe nemmeno chiesto perché lui non potesse essere un Hero, perché sarebbe stato come guardare un pesce rosso e chiedergli di farsi spuntare due gambe e correre).  

E quindi, proprio perché Aizawa non era All Might e Izuku non era un Hero, seduti a mangiare un ghiacciolo mezzo sciolto su una panchina al parco, Izuku aveva chiesto ad Aizawa: «Perché sei diventato un Hero?»

Il sensei si era girato per guardarlo e Izuku si era sentito soppesato. Aveva alzato le sopracciglia e alla fine aveva sbuffato una risata. 

«C’era un ragazzo.»

 

***

 

Izuku pensa che la situazione stia degenerando quando bussa alla finestra di Kacchan - “Ma una bussata di citofono, deficiente?” gli ha sbraitato contro una volta - completamente illeso. 

Quella notte tutto è filato liscio e alle prime luci dell’alba si sta ritirando quasi deluso, perché se l’avessero conciato per le feste avrebbe avuto una scusa per passare dall’altro. Si è fermato pensieroso sul tetto di un asilo, ha deciso che non gliene frega niente ed è tornato indietro. Quindi ora si trova come al solito al centro della camera da letto di Kacchan, calpestando un calzino spaiato, mentre il ragazzo lo analizza critico cercando ferite inesistenti. 

Impietosito dalla sua stessa idea, Izuku alza il braccio destro, apre la mano a ventaglio e mostra l’indice. 

«Mi sono tagliato mentre cucinavo» afferma con una scrollata di spalle, sorridendo sornione. Chissà cosa deve davvero pensare Kacchan di quello sconosciuto strambo di cui può vedere solo una mascella rasata a giorni alterni. 

In effetti loro hanno stipulato un patto non scritto. Quindi questo è spezzare gli equilibri. Sfidare la sorte. Tracciare una linea con il gesso sulla strada e poi con uno spasmo della mano farla diventare un zig zag. 

Aspetta un po’ su di giri cosa potrebbe rispondere. 

Butta la cassetta del pronto soccorso sul tavolo e scoppia a ridere. È fragoroso - Izuku per un attimo ci rimane di sasso, perché non ha mai sentito Kacchan ridere così. Abbassa il braccio, già sa che non gli prenderà la mano, però resta sbigottito. L’ultima volta che ha sentito la risata di Kacchan era un suono meschino e sottile. E la prima volta dovevano aver avuto quattro anni e non poteva essere paragonata alla risata di uomo adulto, fatto e finito, che si propaga nella stanza come luce del sole e lo colpisce. 

Sospira e scuote la testa. 

«Tanto con te è inutile mentire» commenta esasperato, afferrandolo per una spalla, trascinandolo in cucina. 

«Mi hai pure finito le birre, alcolizzato» si lamenta dopo neanche cinque minuti e quando Izuku protesta che nel tempo che lui ne finisce una Kacchan già sta alla terza, viene zittito con un shh che lo lascia con la testa leggera. È divertente stare con Kacchan. Bello. Semplice. 

Si siedono al tavolo della cucina e Izuku non ha sentito il rumore metallico dell’interruttore, quindi stanno nella semioscurità della sera, ma non c’è stato nemmeno il tonfo silenzioso del frigorifero chiuso, quindi Kacchan lo deve aver lasciato aperto e la luce gialla entra nel loro campo d’azione. 

«Eppure» inizia Izuku dopo un po’, quando Kacchan versa in due calici da vino una bevanda energetica e ha fatto ridacchiare Izuku, «non sembri il tipo che accetta estranei nella propria casa.»

«Pensavo che dopo il dodicesimo punto di sutura fossimo un gradino sopra a “estranei”.»

«Non non sai niente di me.»

Kacchan sbuffa. «Non so niente di persone che conosco da anni» dice divertito. «E… non conosco persone di cui so tutto. O almeno, sapevo.»

«Mi ricordi una persona» continua. Il cuore di Izuku batte fortissimo nel suo petto, lo sente distinto, così forte che potrebbe seriamente saltargli fuori dal petto; e sarebbe un bel problema, perché Kacchan così potrebbe vederlo. 

«Conosco» si umetta le labbra e si corregge. «Conoscevo un bambino che voleva sempre una mano per attraversare la strada o costruire fortini… insomma, era una frana. Però la dava anche. Quando pensava che qualcuno avesse paura o… quando qualcuno cadeva. Voleva aiutarlo a rialzarsi. Nonostante non lo trattasse bene. Conoscevo un bambino che non faceva mai niente per vendicarsi, o per semplice cattiveria. Io invece sì. Aveva tutta la stoffa di un Hero, ma alla fine lo sono diventato io. E lui no.» 

Izuku ha gli occhi lucidi e si morde il labbro inferiore con forza. Gli pizzicano da morire ma se fa anche solo un gesto Kacchan se ne potrebbe accorgere.

Avrebbe avuto bisogno di sentirlo almeno cinque o sei anni prima.

Incurva le labbra in un sorriso timidissimo, e spera che la voce non uscirà instabile. 

«Te lo ricordo perché anche io sono una frana?» prova a scherzare. Può consolarsi col lieve sbuffo di aria della risata di Kacchan. 

«Me lo ricordi perché sareste gli unici a continuare a combattere Villain senza attrezzature e  senza quirk utili, tornando la mattina quasi fatti a pezzi, per un vostro senso della giustizia che ha del masochismo. E sicuramente qualche complesso di protagonismo.»

Izuku si schiarisce la gola. Si sente quasi nel torto. «E che fine ha fatto questo bambino?»

Kacchan abbassa la testa come un imputato davanti al giudice. 

«Non lo so. Spero solo che non sia cambiato.»

 

***

 

Izuku è convinto di aver perso la stima di Aizawa con il tempo, che fosse più prono a considerare suo pari un ragazzino che un altro uomo. Non sa esattamente quale meccanismo sia scattato, ma sa solo che Aizawa apprezzava le sue debolezze. 

Quando cadeva e si rialzava decine di volte, quando arrivava tardi perché aveva visto una vecchietta giù alla strada in difficoltà, quando fermava l’allenamento appena sentiva battito velocissimo di un uccellino caduto dal nido. 

Aizawa gli aveva fasciato la gamba dopo una brutta caduta e Izuku aveva mormorato qualcosa riguardo i suoi progressi troppo lenti, oppure sul fatto che se avesse avuto la super velocità o un paio di ali sarebbe stato tutto più facile. 

«Sai perché la maggior parte dei ragazzi alla UA vuole diventare un Hero?»

Non aveva aspettato una risposta. 

«Perché hanno il quirk adatto. Perciò… apprezzo molto di più chi non è nato per farlo e  persiste in ogni caso. Loro sì che possono essere Heroes.»

Da quando aveva emesso il primo vagito in quel mondo, Izuku sapeva di non essere una creatura nata per qualcosa. E neanche esattamente fortunata: senza padre, senza quirk, senza amici. Però, la sola idea che non essere nato per fare l’Hero gli desse una possibilità in più per esserlo… non l’aveva mai vista in quel modo. 

Rimase in silenzio.

«Sei un bravo ragazzo. Troppo buono, forse. Hai troppo amore.» Gli diede una stretta amichevole ai lembi della fasciatura prima di annodarli insieme. «Dovresti lasciarne un po' per te stesso, invece che darlo tutto agli altri.»

 

***

 

«Ne siamo certi: con il pugno di ferro del Diavolo di Musutafu le nostre strade sono più sicure» legge sua madre ad alta voce, allegra, e descrive le altre foto che sono venute fuori. Sfocate, scure, alcune probabilmente spacciate per vere. 

«Sono contenta che sia arrivato» gli dice prima di iniziare a mangiare. 




 

Parte V - come si vince? 

 

Alla fine Aizawa si fa vivo nell’aria frizzante della primavera, e già dalla pesantezza dei suoi passi Izuku sa che non è contento. Sbuffa silenziosamente e fa finta di non averlo sentito arrivare finché l’uomo non schiarisce la voce per richiamare la sua attenzione. 

Tanto per cambiare non è sera tardi, né si trovano su un tetto. Un normalissimo pomeriggio in un tranquillissimo parco e Izuku ha sulle gambe dei documenti per l’università di cui ha letto a stento tre pagine. I polpastrelli accarezzano distratti i caratteri in rilievo e aspetta che parli l’altro per primo. 

Gli lancia sul grembo un giornale, ancora senza aprire bocca. 

«Adesso hai l’abbonamento in edicola?»

«Ti avevo detto di stare attento» impreca arrabbiato, pestando un piede per terra. «Secondo te perché non mi hai visto in giro per tutto questo tempo?»

«Eri arrabbiato con me?» 

Con Aizawa raramente l’aria è tesa, perché entrambi hanno l’abitudine di dire subito dove sta il problema. Quindi, più che altro sembra pregna di elettricità. Probabilmente è così che si svolge una ramanzina paterna. 

Le uniche volte in cui Izuku avesse saputo come fosse avere un padre, beh, c’era sempre Aizawa. Aizawa e dei ghiaccioli sul punto di diventare poltiglia zuccherata ai loro piedi, Aizawa con le bende e i disinfettanti, Aizawa e i modi in cui bloccare un uomo più grande di te in cinque mosse. Aizawa che gli dava delle pacche sulla spalla e lo sgridava quando combinava guai. 

Non può negare che Aizawa l’abbia cresciuto. E Aizawa non può negare di essersi preso una responsabilità in quel vicolo buio. 

Afferrare una mano porta comporta delle responsabilità. Per questo suo padre non l’aveva mai fatto. 

Aizawa sembra pensarci su. «Anche. Ma principalmente stavo provando a evitarti la galera.»

«Alla polizia non sono mai piaciuti i vigilanti, perché li fanno sentire degli incompetenti.» Alza un dito per fermarlo prima che apra bocca. «Sì, lo so, non è questo il punto.»

«Ma i vigilanti non finiscono sulle prime pagine. Cosa vuoi fare, rilasciare interviste?»

«Pensi che non riuscirei a battere un paio di agenti il cui unico pensiero è la loro prossima pausa caffè?» chiede ironico, scrollando le spalle. 

Aizawa lo ignora. «Ho dovuto chiedere a Toshinori di aiutarmi con qualche suo vecchio contatto. Ma anche alcuni Heroes iniziano a lamentarsi. Devi cercare di mantenere un profilo basso. Lo sappiamo entrambi che quelle foto non vengono scattate contro il tuo volere.»

Indurisce la mascella e non risponde.

«Non servono articoli per farti essere…» cerca di dire Aizawa. Non finisce. Non sa che dire. Perché chiaramente la situazione sta cambiando. Per quanto tempo potrà ancora considerarsi un vigilante? Ma non sarà neanche un Hero. Biologicamente non ha nessun quirk. Non potrebbe neanche essere ammesso all’esame. 

«Cosa farebbe All Might?» domanda piano, lisciando con le mani i fogli stropicciati del giornale. 

Aizawa alza le braccia al cielo, esasperato. «Neanche lo conosci! Cosa c’entra ora?!»

«Se le cose fossero andate in modo diverso…» accenna, e ha le spalle curve, e forse gli sembra ancora quel ragazzino che gli chiede di incontrarlo. 

«Ma non lo sono andate! Non è successo!» quasi grida e Izuku scatta in piedi per fronteggiarlo. 

Izuku vuole essere qualcosa.

Perché è diventato un vigilante? Vuole fare giustizia. 

Vuole farla o vuole esserla

Non lo sa. Non sa niente. Non è niente. 

L’altro cerca di riprendere il controllo, calpesta qualche povero fiore appena sbocciato, si guarda intorno per vedere se qualcuno li stia osservando infastidito. 

Alla fine scuote la testa come se dovesse cacciare via un pensiero e conclude il suo discorso.

«La tua giustizia mi sembra vendetta.»

 

***

 

L’aria esce fuori dai polmoni del Villain con un suono strozzato - si accascia a terra e Izuku gli dà un calcio nello stomaco per buona misura, si gira e prende per il collo un altro, facendo collidere il suo setto nasale con il suo ginocchio in una piccola esplosione di sangue e ossa che si incrinano. Con una spranga abbandonata al suolo fa cadere il terzo - con uno scatto del braccio gliela sbatte sul cranio, salta all’indietro e la lancia in direzione di un quarto con la pistola tra le mani. 

La frustrazione gli annebbia i sensi, afferra il quinto e il sesto Villain per le spalle e fa cozzare le loro teste finché non svengono, tramortiti. 

Conoscevo un bambino che non faceva mai niente per vendicarsi. 

Tutto quello che ha fatto era stato per vendetta? Non può essere vero. La sua è giustizia. La giustizia che gli è stata negata. La giustizia che a un certo punto della vita viene negata a tutti i vigilanti, perché cos’è che li divide dai cittadini comuni se non la realizzazione cruda e gelida che il mondo non si rimetterà in sesto da solo? 

Qualcuno urla, si fionda su di lui e Izuku diventa una furia di calci, pugni, morsi, afferra il coltello dell’altro e lo pianta nella sua mano.

Gente di questa risma non ha neanche quirk potenti su cui contare. Il primo può trasformare il cemento in gomma, ma solo per cinque secondi esatti. Non c’è proprio stata storia. Benedetti da poteri che non sanno sfruttare.

Izuku emette un lamento di fastidio, corre per la strada deserta e quando si avvicina il settimo apre la portiera di una macchina incustodita, con un braccio lo tiene fermo e con l’altro gli chiude la testa nella portiera una, due, tre, quattro volte. Lascia l’impronta di una mano insanguinata sul finestrino. 

Perde il conto dopo il decimo criminale. Quasi perde i sensi dopo il quindicesimo. Perde decisamente fiotti di sangue caldo quando il diciassettesimo riesce a recuperare un coltellino tascabile dalla tasca interna della giacca consunta. Gli riserva lo stesso trattamento del terzo e finalmente emette un sospiro di sollievo quando sente le sirene della polizia, chiamata da qualche poveraccio che è stato svegliato dai rumori della lotta. 

È troppo stanco per essere arrabbiato e frustrato, ed è proprio la sensazione che voleva raggiungere. Un limbo di nero oblio mentale, il mondo solitamente così rumoroso e vivo, zitto e fermo per almeno un momento. 

L’appartamento di Kacchan e il suo sono lontanissimi, ma lui adesso si trova proprio a metà strada da entrambi. Destra o sinistra.

Izuku sa che gli incroci non riguardano veramente due scelte. C’è la strada per andare a destra, la strada per andare a sinistra, e la strada da cui sei venuto. Puoi sempre tornare a casa. Può tornare da Aizawa e chiedere scusa. Può andare da Kacchan e farsi chiudere la ferita. Può andare nel suo appartamento, sanguinare sul tappeto e addormentarsi.

Arriva da Kacchan in almeno mezz’ora, strascicando i piedi per strada, salendo per le scale del condominio illuminato. Appoggia la fronte al campanello e lascia che suoni finché il padrone di casa non decida di alzarsi. 

«Che cazzo hai combinato?» chiede appena apre la porta, teso e nervoso, e Izuku - Izuku che la strada di casa non l’ha mai saputa davvero, che non vuole tornare da dove è venuto, che non sa come essere un persona funzionale per la società, che è solo e basta, che ci ha provato una vita intera a essere qualcosa -, si accascia di peso contro il corpo di Kacchan. 

Lui lo afferra per le braccia, lo tiene stabile, non lo fa cadere. È più di quello che si aspetta. 

«Sei ferito» nota dopo attimi di silenzio, con un odore acre che si espande per la stanza, terribile, ricorda di tutti i fallimenti di Izuku. 

Ha il mento appoggiato alla spalla solida di Kacchan, le sue labbra intorpidite gli sfiorano la guancia mentre parla. 

«Cosa vedi dalla cima?» soffia disperato, stanco, spossato. Perché se magari qualcuno glielo dicesse semplicemente, com'è essere un Hero, essere sulla vetta del mondo, a lui che striscia per le strade come un comune mortale, magari capirebbe. 

Kacchan rabbrividisce; quando parla la sua voce risuona sommessa come se fosse quella di un dio dimenticato da tempo. 

«Tu cosa vedi sotto la maschera?»

Prima che l’oblio tanto desiderato non diventi fisico e finalmente si lasci andare, Izuku mormora l’unica verità in cui ha sempre creduto. 

«Un mondo in fiamme.» 

Scivola nel vuoto e ci vogliono ore finché riprenda conoscenza. La luce che lo riscalda gli fa intuire vagamente l’orario. 

«Deduco che la banda arrestata ieri sia opera tua» dice Kacchan al suo fianco e Izuku allunga una mano senza davvero pensarci, per cercarlo. Incontra il bracciolo di una sedia a pochi centimetri dal letto. 

«Così ti farai ammazzare» continua sibilando tra i denti, battendo il piede per terra ritmicamente. Izuku sospira e si accascia contro i cuscini, si passa una mano tra i capelli e si pietrifica. 

Non ha più la maschera. 

Tocca una fasciatura sulla fronte - Kacchan l’ha visto, Kacchan l’avrà riconosciuto, che potrà mai dirgli, che cosa…

Deglutisce a vuoto. Apre la bocca e la richiude. 

«Niente da dire? Un fottuto grazie non sarebbe male» rincara la dose, ma lui non riesce a emettere un suono. Non sa perché. Per tutto quel tempo Kacchan lo aveva considerato qualcuno di forte, una persona capace di proteggere, però adesso sa la verità: la sua più grande paura - che non ci sia più nulla sotto la maschera. 

(Nulla di importante, comunque.)

«Kacchan…» sussurra e improvvisamente il suo respiro si mescola con il suo, si è alzato e si è sporto sul letto, le braccia ai lati del suo corpo. Ha sentito il cuore aumentare il battito. 

«Perché lo hai fatto?» chiede subito dopo, urgente, duro, inappellabile. Kacchan che sa sempre cosa fare e cosa dire. 

«Cosa? Combattere contro venti Villain o…il vigilante?» 

L’altro sbuffa impaziente. «Lo so perché sei diventato un vigilante.»

Izuku alza lo sguardo al suono della sua voce e accenna un sorriso triste. «Davvero? Io non lo so più.»

Kacchan è ancora piegato su di lui, lo intrappola come se avesse un posto in cui scappare. 

«Volevi essere un Hero. È colpa mia se alla fine sei arrivato a questo punto.»

Aggrotta le sopracciglia. Non ha mai dato la colpa a Kacchan. È stato lui a gettarsi contro quel Villain gelatinoso, è stato lui a correre verso una mano tesa che non è riuscito ad afferrare. Magari la prima mano lasciata in sospesa della sua vita non era stata colpa sua, ma quella di Kacchan era così vicina. 

«Non lo sarei diventato. Non è stata colpa tua.»

«Speravo che fossi tu, il vigilante. Volevo sapere che in qualche modo non ti avevo condannato per sempre.»

«Eccomi qui, in carne e ossa» sussurra Izuku di rimando, respirando piano. 

Tende il braccio verso l’altro, cerca la sua mano e sorride davanti alla sua indecisione, al lievissimo spasmo del polso che vorrebbe ritrarsi, all’odore di sudore solo un po’ più forte appena ha sfiorato le sue dita. 

Le mani di Kacchan sono sempre sudate - forse è un altro sistema di difesa per far scivolare il contatto con il mondo. Ma Izuku ora le vuole prendere. Ne ha bisogno. Quando finalmente abbandona ogni remora e lascia che Izuku intrecci le loro dita insieme, emette un respiro di apprensione. Kacchan non tende le mani dopo quello che è successo quando avevano tredici anni. L'ha tesa solo una volta, involontariamente, e Izuku si è fatto male. Ha imparato che le debolezze non lo renderanno un eroe. Non ha vinto. 

Vuole fargli capire che alla fine a Izuku è servito farsi male. Forse, a conti fatti, se le cose fossero andate diversamente, Izuku sarebbe infelice. Adesso è solo perso. 

«Aizawa…» inizia lui, ed è interrotto dal verso di sorpresa di Kacchan. 

«Dovrei sapere come vi siete conosciuti?»

«Lunga storia» riassume con una risata. Davvero una lunga storia. Continua dopo attimi di silenzio. «Anni fa mi fece promettere che non avrei mai fatto niente per vendetta. Ora ho paura di non poter mantenere la promessa. Ho paura di essere diventato un vigilante per rivalsa.»

Il pollice di Kacchan inizia a compiere piccoli cerchi timidi sul dorso della sua mano. 

«Anche a me è successo» ricorda, immobile nel sole che entra dalla finestra, la testa nel passato e le mani che stringono il presente. 

«Aizawa una volta mi fece promettere di non essere un Hero per il mio senso di colpa.»

Izuku annuisce. Fare l’Hero a causa di qualcun altro è estenuante, ti tormenta il pensiero di non essere veramente te stesso. Se fosse nato con un quirk, che cosa avrebbe fatto? Se non avesse avuto i sensi così sviluppati, come sarebbe andata a finire? 

Rispondere “c’era un ragazzo” a quella domanda rappresenta tutti i peccati di una vita. Storie non finite e neanche iniziate. Un nodo gordiano nel passato. 

Per lui la vendetta. Per Kacchan e Aizawa il senso di colpa. 

Aizawa ha conosciuto persone come loro e ha provato a salvarli senza successo. 

«Cos’è la tua giustizia?» domanda a voce bassissima, la lama di una misericordia che riesce a entrare nelle giunture dell’armatura di Kacchan, un monito, una richiesta di aiuto. Ovviamente lui non lo sa. Vuole solo sapere. È sempre stato un bambino curioso. 

«Ammenda.»

Izuku accetta il corpo di Kacchan che si abbandona contro il suo, accetta che entrambi non siano ancora sicuri se abbiano combinato qualcosa di buono. Accetta che senza l’altro non sarebbero andati da nessuna parte. Che ammenda e vendetta insieme possono formare le sembianze di un vero Hero. 

Si siedono e si spogliano e si toccano a vicenda le loro cicatrici in rilievo, vecchie e probabilmente sbiadite, ma Izuku non avrebbe mai potuto dirlo con sicurezza. Pensa: è bellissimo condividere il mio dolore con qualcuno. Sono fortunato. 

 

***

 

Lui e Aizawa non si davano mai appuntamenti fissi, nemmeno quando Izuku si allenava con lui. Accenni vaghi, orari che alla fine non avrebbe rispettato, luoghi di cui si dimenticava. E poi era riuscito a specializzarsi nell’arte di trovarlo. 

Izuku poteva star aspettando un amico al bar e avrebbe sentito la voce di Aizawa che monotona ordinava un caffè nero solo per dargli un’occhiata. 

Non si sono parlati dall’ultima volta, né il sensei ha dato grandi segni di interesse per la notizia che ovviamente era finita su tutti i telegiornali. Sua madre l’ha addirittura chiamato solo per chiedergli se l’avesse saputo. 

Quindi adesso non è così strano trovarsi in una stradina secondaria, assolata e senza nessun altro in giro, nella piena pace dei sensi nonostante sia ancora dolorante, per sentire la familiare presenza di un corpo stanco alle sue spalle. 

«Vuoi un’altra chiacchierata a cuore aperto? Se continui così inizierò a pensare che ti abbia colpito la crisi di mezza età» lo provoca senza girarsi, anche perché sarebbe inutile. Rimane fermo con le mani chiuse a pugno nelle tasche della felpe, l’espressione un po’ da piantagrane scocciato, beffarda e con un sopracciglio alzato, ma solo perché Aizawa non lo può vedere. 

Non è chi si aspetta che gli risponde, però. C’è una risata rauca e un colpo di tosse, e Izuku possa essere dannato se non riuscisse a riconoscere quella voce ovunque. 

«Era questo il tuo segreto, allora» dice in tono gioviale. «Tutti quei permessi che prendevi a scuola…»

All Might. 

Un uomo con il battito cardiaco di chi sta per morire e il tono stanco di chi forse lo vorrebbe, schiude le labbra per dare la sentenza finale. 

«Aizawa, l’hai fatto a tua immagine e somiglianza.»

Scosso da un tremito si gira, il sole è tiepido eppure sta sudando. Quel cuore affaticato inizia ad accelerare appena mostra il suo volto. L’ho riconosciuto. Il ragazzino che si era stretto al suo braccio, quello quirkless, che voleva fare l’Hero. 

Quello a cui aveva detto no. 

Per tantissimo tempo aveva aspettato il momento in cui avrebbe potuto fronteggiarlo per mostrargli a cosa fosse arrivato. Alcuni giorni si era svegliato al mattino con quell’unico pensiero in testa, alimentando la vendetta nascosta da giustizia. 

Perché in fondo Izuku era stato ancora quel ragazzino con le ginocchia ossute che voleva solo una possibilità. 

Quello davanti a lui, a onor del vero, non è altro che l’ennesimo Hero sfibrato dalla vita come ne ha già visti. Il colosso irraggiungibile dell’infanzia rimarrà un capriccio mai realizzato impantanato nel fango colloso della sua adolescenza. 

«Il ragazzo che salvò il giovane Bakugou da quell’incidente» inizia a ricordare, sempre tossendo, con una voce simile a carta vetrata. 

Quando Izuku si trova davanti Toshinori Yagi ogni tassello torna al suo posto. 

All Might non è più All Might. 

All Might è una parte, non il tutto; è la maschera, il passato, il costume rosso e blu, il sorriso sfavillante che ancora buca il buio delle sue palpebre. Non è quello che appare. 

Izuku è sicuro che se chiedesse a Enji Todoroki “perché sei diventato un Hero?” penserebbe a Toshinori Yagi e risponderebbe “c’era un ragazzo”. 

Anche Izuku l’ha fatto, ma dove l’ha portato? Una vita di inseguimenti. Andare alla stessa velocità senza mai prendere l’avversario. 

C’era un ragazzo. C’erano tantissimi ragazzi per ognuno di loro. Il suo - beh, Kacchan - lo ha raggiunto. Lo ha riconosciuto. Forse diventi un Hero quando c’è quella singola persona che ti riconosce. Ne basta una. Basta un ragazzo con le mani sudate.

E forse - forse - se chiedesse a Toshinori Yagi “perché sei diventato un Hero?”, non sarebbe poi così ridicolo. Potrebbe rispondergli anche lui “c’era un ragazzo”. O una donna. O un bambino. 

Diventare - essere - (fare?) - l’Hero è una faccenda che va fatta a pezzi per essere analizzata e poi rimessa insieme. Non nasci per qualcosa. Puoi diventare qualcuno. E puoi fare quello che vuoi.

È un’ammissione che Izuku non ha mai voluto contemplare, perché lui pensava di esserne escluso. Fare quello che si vuole. 

Lui, Kacchan, Aizawa, Endeavour. Fanno gli Heroes - e il vigilante. 

Fanno quello che vogliono. Quasi gli scappa da ridere. Kami, sicuramente fanno qualcosa per cui non sono nati. Nessuno di loro. Ma lo rendeva ancora più soddisfacente, doloroso, dolce e brillante come le stelle. 

Fare qualcosa per cui non sei nato.

(Sono quattro uomini che hanno girato in tondo tutta la vita ponendosi la stessa domanda.)

(Come si diventa All Might?) 

Ad alcune domande le risposte ci mettono dieci anni ad arrivare. 

Non puoi diventare quello che non sei. 

 

***

 

Izuku va da Kacchan con una frequenza maggiore di quanto non si faccia effettivamente male, quindi si deve improvvisare a volte. 

Si toglie la maglietta con il verso sorpreso dell’altro in sottofondo, e indica un punto sullo stomaco. 

«Mi hanno dato una gomitata.» dice il più seriamente possibile, «Fa male.»

Kacchan sbuffa, lo manda a quel paese e gli ordina di seguirlo mentre si dirige in cucina e apre il congelatore. Avvolge una fetta di carne attorno a uno strofinaccio e gliela lancia contro. Izuku la prende al volo con una risata.

Poi, quando si accorge che non sembra avere alcuna voglia di fare da solo, sbuffa ancora più forte e gli si avvicina, prende la bistecca e la poggia delicatamente sulla sua pancia. Izuku sente un brivido dove le dita calde di Kacchan toccano la sua pelle. 

«Ancora non capisco perché sei tornato dopo la prima volta» gli confida in un sussurro, la sua voce aspra e rauca un po’ più morbida. «Quando hai capito che si trattava di me. Ti sei fidato di una persona che è stata orribile con te, che è la causa per cui tu… Sei arrivato qui più morto che vivo ed è davvero difficile credere che il tuo primo pensiero sia stato “adesso vado da Kacchan”.»

Il senso di colpa non si lava via in un giorno. Lui lo sa. E non gli dà neanche così tanto fastidio che forse Kacchan lo guardi e veda l’assoluzione dei suoi peccati, perché Izuku non era stato così diverso. 

Lui non parla e Kacchan continua con un tono sempre più flebile. «Ho fatto in modo che nessuno si fidasse veramente di me in questi anni, perché non volevo deludere nessuno. Non volevo che alla fine capissero che non era così forte come sembravo.»

Ho fatto in modo che nessuno volesse afferrare la mia mano. 

Ci sono responsabilità che non si vogliono prendere.

«Ma sei un Hero.» obietta lui, «Le persone si fidano di te a prescindere.»

«Sono sicure che vincerò se combatto contro un Villain. Ma salvare i civili? I miei stessi colleghi all’agenzia non pensano che ne sarei in grado. E neanche io.»

Izuku aggrotta le sopracciglia. «Ma alla fine comunque devi salvarli per vincere.»

«Ho sempre vinto e lasciato il salvataggio ad altri.»

Attraverso la stoffa può sentire che ormai la fetta di carne è tiepida e totalmente inutile, ma Kacchan continua a premere con cura nel punto in cui gli fa male. L’altra mano è posata sul suo fianco. Sono mani grandi che possono guarire, che l’hanno rimesso in sesto, che hanno accettato la sua. Sono mani che possono fare del male, certo, ma non lo sono tutte? Ognuno è responsabile di quello che può fare con le sue mani. Kacchan a tredici anni non aveva fatto niente di male. Era un ragazzino spaventato che per la prima volta aveva fatto capire a Izuku che anche lui poteva salvare qualcuno. Che credeva in lui. Chi avrebbe mai teso la mano a un quirkless? L’unica cosa che avesse mai rimpianto di tutta la vicenda era stata quella mano lasciata vuota. 

«Il giorno dell’incidente avevo notato la folla e mi ero avvicinato. Ero rimasto paralizzato davanti a quel Villain che teneva in ostaggio qualcuno della mia stessa età. Non ho corso, non ho neanche avuto l’istinto di salvarlo» ricorda un po’ atono, un po’ senza intonazione, perché ancora si vergogna dopo tutto quel tempo. «Però incrociai il tuo sguardo e ti riconobbi. Sono stato egoista. Non provai a salvarti perché eri in pericolo, ma perché eri tu. Non mi hai condannato quando hai teso la mano per chiedere aiuto, mi hai salvato. In quel momento mi avevi considerato all’altezza di poterti aiutare. Se non fosse stato per te, non sarei la persona che sono adesso.»

«Se non fosse stato per me ora saresti felice» sibila Kacchan e il suo cuore batte come un tamburo che entra sotto la pelle di Izuku. È arrabbiato come al solito; è ferito, nervoso, sembra pronto a dire qualcosa ma si ferma. 

«Chi ti dice che ora non sono felice?» 

Kacchan rialza la testa che aveva abbassato, stringe il suo fianco per trovare stabilità.

«Ora? Lo sei?»

Izuku annuisce. 

«Prima che mi pescassi dal cassonetto, ebbi una discussione con Aizawa. Diceva che un vigilante non poteva essere visto dagli altri, che il nostro compito è rimanere nell’ombra. Ma io volevo che almeno qualcuno sapesse cosa fossi e cosa stessi facendo, che mi riconoscessero. Che mi trattassero da loro pari e non da fantasma. Tu l’hai fatto.»

Kacchan appoggia sul tavolo lo strofinaccio con la bistecca ormai calda, si passa una mano tra i capelli e Izuku può percepire il suo sguardo trapanargli il volto. È contento che l’ultima cosa che abbia visto sia stato il colore degli occhi di Kacchan. 

«Mi hai chiesto cosa si vede dalla cima, e cosa si fa quando la si raggiunge. Pensavo che dopo il primo posto non ci potesse essere altro. Arrivato all’apice si può solo cadere. Ma…» si ferma e si morde il labbro inferiore. «C’è  un ragazzo» mormora. «Vedo te dalla cima. E voglio tornare da te.» 

 

***

 

«Vedere il Diavolo di Musutafu è diventata un’impresa! Ma ormai sappiamo chi vigila su di noi» legge sua madre come ogni sabato, con voce chiara e squillante, mantenendo il giornale con una mano e girando la frittata con l’altra. Potrebbe aver scoperto che Izuku preferisce quella del ristorante sulla spiaggia e non accetta un affronto simile. 

«Tutte quelle attenzioni gli avranno dato fastidio» considera lei mentre l’odore degli ingredienti si espande per la cucina. Izuku abbassa la fiammella del gas in un suo attimo di distrazione prima che si bruci tutto. È davvero presa da questa storia. 

«Però è un bene che le persone sappiano che esiste. Non doveva essere bello vivere senza che nessuno lo conoscesse.» 

Izuku sorride e annuisce, stacca le bacchette che a stento risuonano nella cacofonia di uccelli che cinguettano fuori la finestra, persone che camminano per strada, lo sfrigolare delle uova sulla piastra, la voce musicale di sua madre. 

E lui, contro tutti i suoi pronostici e tutto quello che aveva creduto fino a quel momento, pensa: sono fortunato. 

 

***

 

Sono fortunato. Sono fortunato. Sono fortunato. 













 

 




 

Notes 

Ho scritto questa storia un po’ alla volta, segnando di tanto in tanto un dialogo che avrei voluto aggiungere o un concetto che mi interessava esplorare. Poi ho dovuto mettere tutto insieme e ci ho messo veramente tantissimo tempo, e questa è la prima fic che completo da ottobre. Quando pubblico una storia sono sempre felice perchè per me sta diventando sempre più difficile mettere per iscritto le idee che mi vengono in mente e dargli una forma finita. 

Come Matt Murdock - il protagonista di Daredevil - Izuku è un vigilante diventato cieco dopo un incidente che ha sviluppato i suoi sensi oltre le capacità umane, senza sapere esattamente come. Matt affronta un percorso in cui accetta quello che è e come conciliare il vigilantismo e la sua vita normale di avvocato, e volevo che anche Izuku avesse un cambiamento simile. Matt ha un rapporto difficile con il vigilantismo per colpa della sua forte religiosità, mentre a Izuku non riesce ad andare giù il vigilantismo per il suo desiderio al limite dell’ossessivo di essere riconosciuto come un Hero. 

Per quanto riguarda la questione dell’essere, diventare, e fare, c’è da dire che già nell’universo di BNHA in altri termini viene affrontato: la differenza tra il natural born Hero e tutti gli altri. Nello spin off Vigilantes il protagonista Koichi si fa le stesse domande di izuku e anche in quel caso Aizawa protegge i vigilanti e non li riporta alla autorità. 

Quando nella fic Aizawa dice di aver incontrato un ragazzo felicissimo, uno fragilissimo e uno fortissimo, il ragazzo fragilissimo è proprio Toshinori perché è l’unico che rientri veramente nella categoria dei natural born Heroes, ma allo stesso tempo lui lo è diventato proprio come i suoi colleghi. Quindi la grande distanza che alla fine viene posta tra lui e gli altri lo rende solo e quindi fragile. O almeno, nella mia testa ha senso. 

Per Matt Murdock l’affetto che lo legava al padre e la sua morte prematura sono fondamentali nella sua vita, quindi non potevo non mettere l’assenza del padre di Izuku, nonostante nel manga lui non ci dia chissà quale peso. Volevo fare un paragone tra il padre, All Might, Aizawa e Inko. All Might e il padre non gli danno neanche una possibilità, non tendono la fantomatica mano che invece sua madre e Aizawa gli danno. Sia nella scena in cui da bambino Bakugou cade nel fiume, sia quando è vittima del Villain, sia quando All Might dice a Izuku che lo allenerà, e sia in Heroes Rising, l’idea di afferrare una mano è ridondante in BNHA. Inoltre, il discorso che con le mani gli uomini possano essere divinità l’ho preso dal filosofo Giordano Bruno. 

Suppongo di aver introdotto il discorso sulle leggi e sulla giustizia senza veramente avergli dato una conclusione, anche perché io adoro porre domande senza dare risposte. Fatto sta che per questo ho preso ispirazione dall’Apologia di Socrate di Platone, e secondo mia sorella sono direttamente finita nell’Antigone di Sofocle. Vabbè.

A conclusione di queste note lunghissime e assolutamente inutili, giuro che il titolo della storia non è stato messo a caso, e neanche i titoli delle varie parti in cui l’ho divisa. Con “mosca cieca” si spiega un po’ il senso generale: Izuku e Katsuki - come anche Aizawa e Enji - sono andati alla cieca tutta la loro vita, senza veramente capire, nella speranza di imitare anche solo alla lontana All Might. Su Aizawa è più un mio headcanon, una supposizione personale, perché nel manga non viene mai detto con chiarezza, però mi piace pensarla così. 

Alla prossima! 

   
 
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