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Autore: MadLucy    17/04/2022    0 recensioni
[Grindeldore | Albus/Gellert | flashbacks + what if]
Gellert aveva messo parole, e significato, lì dove c’era un’assenza, una noia. L’amore per me era questo, una lingua straniera che diventava la mia lingua contemplando un viso, le cose inarticolate che assumevano senso, e anch’io.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altri, Gellert Grindelwald
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Mpreg
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Ero giovane, diverso e piuttosto solo. Non conoscevo quel tipo di amore. Ne conoscevo di più stanchi e abitudinari, tenuti insieme dalla malta del debito e della responsabilità. Reprimere il fastidio per i colpi di tosse notturni di mia sorella lo consideravo amore. Trattenermi dal disprezzare, trattenermi dal litigare, smettere di leggere per fare qualcos’altro di prosaico e necessario. Prima di morire mia madre non era stata una donna espansiva, e mio fratello non mi piaceva, irrimediabilmente. Gellert trovò per sé un cuore da colonizzare da capo. 

La sua presenza nelle strade di Godric’s Hollow era allarmante e ipnotica. Tutti i compaesani si sentivano legittimati ad avere un’opinione su di lui, su quello che faceva, ma soprattutto quello che non faceva. Io lo guardavo quando passava, quando sfilava distratto e remoto, perché era bello da guardare. Ma si concatenarono tante cose. Il modo deciso e soddisfatto con cui mi strinse la mano nel presentarsi. Il modo in cui, scoprii, fosse il mio unico coetaneo che conoscessi a leggere tanti libri quanto me, assimilandoli e snocciolandoli come canzoncine. Il modo in cui mi aveva concesso la propria curiosità.

Ho imparato il tedesco studiando le espressioni del suo viso quando pronunciava alcune parole, l’eloquenza fiera delle sue sopracciglia o la smorfia delle sue labbra. Ho imparato la vicinanza da cui voleva essere toccato e la distanza da cui voleva essere ammirato. Tu non mi capisci, Silente, gli capitava di dire. Gli piaceva l’idea di non essere capito, nemmeno da me. Nessuno deve fare eccezione. L’eccezione è lui. L’abitudine è morte, mentre lui è complesso e eccezionale. Mi chiama sempre Silente quando vuole prendermi in giro. Quando vuole tirarmi di nuovo dalla sua, quando vuole essere baciato e farmi scrivere parole per lui, sono Albus. Albus, ti prego. Ci cascavo perché mi piaceva cascarci. Sapevo che era un manipolatore, ma era solo l’ennesimo tratto che lo rendeva interessante. Gellert captava i sentimenti più vili del cuore umano. Ne ero così poco abituato che mi sembrò la forma più convincente di verità. Gellert aveva messo parole, e significato, lì dove c’era un’assenza, una noia. L’amore per me era questo, una lingua straniera che diventava la mia lingua contemplando un viso, le cose inarticolate che assumevano senso, e anch’io.

Con Gellert ci sentivamo speciali, ma io volevo quello che vogliono tutti. Volevo solo che durasse. 

 

***

 

«Non pensavo di trovarti qui» mormorò Elphias. Il suo sguardo corse subito, nervosamente, alla culla dalle vaporose tende bianche. 

Albus annuì, indicando la stanza per gli ospiti che gli era stata assegnata. «Il preside mi ha accordato la gentilezza di ospitarmi per un breve periodo, in cambio di un paio di lezioni ai suoi studenti –periodo che potrebbe effettivamente prolungarsi, se agli studenti le lezioni dovessero piacere. I piani erano di partire per la Francia, ma al momento ho bisogno di un po’ di stabilità, e Hogwarts forse non è il luogo più stabile che conosca, ma è casa.»

Elphias gli fece le sue congratulazioni, ma venate di costernazione: probabilmente pensava che quella gravidanza fosse stata una penitenza, il pegno indesiderato di un errore di gioventù come può essere farsi sedurre dalla magia oscura. Albus gli sorrise senza scrutinare il suo disagio. Tutta la tensione dell’ultimo periodo era franata in un oceano di calma, la pasta molle che era la realtà da quando suo figlio era nato e tutto doveva modellarsi intorno a lui, per accoglierlo, attutire gli urti. 

«Sono venuto appena ho saputo…» Elphias si guardò intorno, come se si aspettasse di vedere qualcuno materializzarsi. La stanza vuota lo turbava.

Albus cercò di alleviare la sua tristezza. «Sei stato gentile, Elphias. Vedo che hai preso qualcosa di dolce ad Hogsmeade per me. È tutta l’amicizia di cui avevo bisogno.»

Esistevano desideri più dolci e insieme amari nel suo cuore. Avrebbe voluto che Gellert fosse lì a sincerarsi di quanto lui sia minuscolo e vivo, miracoloso e naturale, di quanto loro due insieme fossero diventati il sonno di pizzo bianco di una creatura che ha appena imparato a respirare. Rendeva l’atto della loro coesistenza qualcosa di tremendamente semplice. Avrebbe voluto che Gellert fosse lì a formulare qualche pensiero bello, lieve e banale di persona che guarda suo figlio, e a stento capisce cosa sta guardando e lo sgomento diventa lacrime, un pensiero che è sola luce. Ma se Gellert fosse stato lì non si sarebbe comportato come Albus voleva, ed era bene che non fosse lì, che non fosse stato al corrente dell’attesa solitaria, che non fosse lì a stringergli la mano e fargli dono di un bacio unilaterale per confondere i suoi pensieri –che non sapesse che la sua carne adesso era nuova carne, che oltre alle fantasie di distruzione ne avevano portata ad essere una di vita, loro due insieme, che qualcosa di buono poteva venire, in fin dei conti. Che non estendesse pretese sull’unico uomo che ha amato e sull’unico figlio che avrà. Anche un amore senza fiducia è una guerra.

Elphias tentennava. «A casa vostra ho trovato Aberforth, ma–»

«Non disturbarlo più per ciò che riguarda me. Ha detto chiaramente che Aurelius fa parte della mia famiglia, e non della sua.»

La voce delicata di Albus aprì una smorfia di dolore sul volto di Elphias. «Ma è assurdo…»

«Non riesce ad accettare il fatto che lui sia vivo e Ariana sia morta. Pensa che io l’abbia sostituita.» Albus interruppe la protesta che l’amico stava per formulare. «Non giudicarlo, Elphias. L’amore storpia la mente, e io lo so bene.»

Pensò a Gellert padre, e l’idea, che fino a diversi mesi prima lo riempiva di tenerezza, gli mise nausea. Affidare di nuovo il futuro di qualcuno di indifeso alle azioni della persona sbagliata. Non siamo tuoi, pensò sfiorando le tende che schermavano Aurelius da un mondo caotico, in cui le persone si amano e si fanno soffrire, in cui l’amore non è abbastanza e nemmeno l’odio è abbastanza. In cui un figlio deve essere separato dal padre per non diventare il suo ultimo errore. 

Elphias si arrabbiò, «non avrebbe dovuto lasciarti solo proprio adesso» ribadì riferendosi a Aberforth. 

«Sono stato io a lasciarlo solo per primo.»

«Tu stai bene?»

Lo stesso, era lì in quella terra neutrale per guarire, in un certo senso, guarire dal bisogno del suo amore. Fortunatamente, le esigenze di Aurelius erano talmente totali da sottrarlo alle proprie. Era ancora sotto effetto della felicità maestosa di averlo messo al mondo, di avergli dato quel mondo, di essere stato forte abbastanza. La sua esistenza era il primo passo per la guarigione. Invece di legarlo indissolubilmente a Grindelwald, l’avrebbe liberato. 

Gellert, infatti, non si sarebbe commosso. Avrebbe detto che la nascita è un gesto oscuro e potente. Avrebbe visto in una creatura così piccola un tramite –un vincolo. Avrebbe dato un senso contorto a qualcosa che era informe e potenziale –come aveva fatto con Albus un anno prima. 

Hai lasciato morire Ariana per avere il figlio di Grindelwald, aveva detto Aberforth. C’era una stilla di verità. Albus sapeva di averlo cercato come il figlio di Gellert, un pezzo di Gellert, Gellert indecifrabile e incompleto, da catturare e possedere. 

Ma con l’amuleto che aveva creato, Albus aveva liberato Aurelius dall’essere il figlio di Grindelwald e gli aveva restituito una parte intonsa del proprio destino. Avrebbe scelto i propri errori da solo. 

Elphias guardò la foto sul comodino: dell’estate scorsa, due ragazzi felici, forse un po’ spocchiosi, ma perdutamente infatuati del sogno che è la loro unione. «Gli dirai la verità?»

«A Gellert?»

«Al bambino.»

Albus lottò contro il nuovo sentimento che aveva in corpo, e che lo supplicava solo di pensare in termini elementari, primari, di protezione, e risponde di sì. Lo sguardo di Gellert lo sfidava dalla fotografia. Gli insegnerai a odiarmi? Ma Albus sapeva già la risposta. Gli insegnerò ad amarti. Come ho imparato a farlo io, nonostante tutto, in un modo che mi permettesse di rimanere vivo senza impazzire. 

 

***

 

L’ho cercato per tutto il pomeriggio, poi l’ho trovato. Gellert stava seduto cavalcioni sul muro di cinta del cimitero, addentava una mela selvatica e guardava la distesa erbosa e costellata di lapidi. Era una visione alquanto edenica.

Avevamo quasi-litigato. “Le persone che cambiano il mondo non pensano come te”, mi aveva detto il giorno prima. “Allora magari somigliano a te”, avevo replicato. Non so come avevo trovato l’audacia di rispondergli, con tutta la paura di perderlo che avevo. 

Potremmo farla noi, la storia della magia dei prossimi centocinquant’anni, ha detto quando mi ha sentito arrivare. Forse era compiaciuto che fossi andato alla sua ricerca, o forse si sentiva solo di umore clemente.

Non ci ameremo così a lungo, ho risposto. Mi sono odiato per averlo detto, per stare innescando gli stessi meccanismi di difesa di Gellert, mettere le mani avanti per non soffrire. 

Non ha ribattuto niente. Se quelle parole l’avevano colpito, non lo dava a vedere. Ha tirato la mela ammaccata per metà nel prato, e l’ho fissata in balia di una fascinazione innaturale. 

Non riesco ad accettare che qualcuno di cui mi sono innamorato così intuitivamente sia tanto inabile ad amare. Anche lui se ne rende conto. Una notte in cui i confini tra noi erano particolarmente labili, in cui sembravamo liquidi rovesciati insieme, mi ha chiesto scusa. La sua tristezza è un dolore così raro che non ci sono abituato e mi ha ferito di sorpresa. Non importa, ho detto. Invece importa. Però è anche colpa mia. Pretendo tanto da lui. Pretendo tutto. 

Gellert ha guardato verso la mia reticenza con attenzione. «Mi lanceresti mai un incantesimo contro?» Aveva una voce strana nel chiederlo.

Abbiamo fatto sesso in un cimitero. 

 

 

***

 

Albus ripone nel collo della camicia il primo patto –che rappresenta già tutto, amore e fine dell’amore, sottomissione e sopruso, fedeltà o agonia– e ne appoggia sul tavolo, tra loro, uno diverso. Una piccola gemma di quarzo rosa incastonata in un anello. Gellert non distoglie lo sguardo, perso in una specie di avidità. «Non ho mai pensato di usarti in quel modo, mentre tu avevi già pensato ad usare me. Chi dei due è quello deplorevole?»

Albus ammette con se stesso che c’è stato un periodo nella vita in cui non faceva altro che pensare a come contenere Gellert e non lasciarlo andare, come convertire il suo disamore in valore. «Lo vuoi? Prendilo. Sarà monito del fatto che non puoi distruggerlo.»

Gellert ora fissa il cucchiaino girare dentro il suo tè. «Sul serio, non immaginavo saresti arrivato a tanto. Concepire un erede mi sembra un piano piuttosto elaborato –e piuttosto politico. Non è stata la svista di un adolescente troppo appassionato. Avevi previsto tutto alla perfezione, perché sapevi benissimo cosa fartene.»

Albus cerca di pattinare via veloce –per non assimilare– sopra il gelo chirurgico e strumentale del suo linguaggio. «Il cedimento ad una debolezza terribilmente umana… Un bisogno di legarti a me, e di trasformarti nella persona che volevo diventassi. Non volevi dare un senso al nostro amore, così glie l’ho dato io. Non sei riuscito a lasciarmi da solo, Gellert.»

A quel tempo, le implicazioni di dolore nel modo in cui lo amava erano belle, perché erano tracce, e le tracce scandivano la sua vita. Avere suo figlio sembrò quello, lasciare una traccia definitiva, così profonda tra le costole come una lama, da richiamare Gellert con l’odore del sangue, come uno squalo. Sapeva che avrebbe amato quel gesto. Adorava le grandi manifestazioni di sacrificio, e adorava in modo speciale quelle dedicate a lui. 

Dove lui cammina, Gellert marcia. «Mi stai dicendo che l’idea del suo potere non ti ha nemmeno attraversato la mente?»

«È inquietante che ti risulti così impossibile crederlo, ma prevedibile.»

Tenta di afferrare il suo sguardo, di inchiodarlo. «Quello che hai fatto non riguarda solo te. È anche mio. Hai privato un padre della possibilità di toccare suo figlio.» Tocca l’anello con un’unghia. «Non posso scagliargli incantesimi, forse, ma non posso neanche dirgli che gli voglio bene.»

Albus era pronto a un attacco sul proprio fronte, non si lascia intenerire. «Il tuo errore è stato non ritenermi in grado di una cosa simile. Forse non sono quello che credi. Quando anteponesti te stesso a noi, la mia priorità divenne mettere in salvo da te ciò a cui tenevo, a costo di pagare un prezzo a me stesso.»

Allora Gellert si sporge in avanti, contro quella tavola apparecchiata e decente, e affiora il vero lui, il profilo scabro e statuario della sua rabbia. «Pensi di poterne impunemente fare il tuo discepolo, la replica di te stesso? Ti credi molto migliore di me, Silente? Volevi essere un passo avanti e vincere?»

Albus reprime un sorriso intenerito per il ragazzino che non è più e sembra ancora. «No, e lo sai. Non ti ho mai mentito» Gellert apre la bocca per replicare, «quando a te è sempre venuto così naturale che, quando dicevo di amarti, non mi hai mai creduto.»

Gellert ghigna, perché non ha nessuna intenzione di lasciarlo essere l’unico a ridere. «Certo che non ti ho creduto. Che mi amassi è la tua favola della buonanotte. Io ti servivo per accarezzare il tuo ego, come tu facevi con il mio.» C’è una meschinità inutile in quelle parole che Albus si scrolla di dosso con un movimento delle spalle. 

«Credevo a tutto ciò che ti ho detto.»

«E cosa non mi hai detto, invece? Che tramavi alle mie spalle per mettere al mondo l’arma con cui annientarmi?»

Albus analizza con lucidità la sua stizza, e ha la conferma, per l’ennesima volta, di aver fatto la cosa giusta. «Il necessario.» Non ha mai trovato prova del contrario.

Gellert guarda ancora il suo tè, come se volesse renderlo veleno. «Non avevi il diritto di prendere questa decisione.»

«Forse non la soluzione ideale, ma l’unica riparazione possibile.» Albus gli offre un frollino, che Gellert accetta e mette in bocca –vorrebbe ucciderlo, e invece intanto si mangia i suoi biscotti, quella è la strana intimità della loro violenza. «Avevo intenzione di dirtelo. L’avevo appena scoperto e mi rigiravo quel segreto tra le mani come un giovane idiota qualsiasi. Quella notte, la notte in cui Ariana è morta e tu sei fuggito e nostro figlio era ancora un sogno appena formato, ho avuto un’intuizione di colpo chiarissima, che non sei in grado di prenderti cura di qualcosa. Soprattutto, e questa è stata la mia illusione più grande, non puoi prenderti cura di me. Pretenderlo è stato infantile.»

Gellert risponde con uno sguardo fisso, sospettoso, immaturo. «Cosa avrebbe detto Ariana di questo?»

«Insieme ad Ariana è morta la parte migliore di tutti noi» risponde Albus pacatamente. «La tua, e la mia.» Ad Ariana lui piaceva così tanto. Era il prestigiatore che spezzava la sua monotonia di convalescenza perenne.

Gellert è infastidito dal tono paternalistico. «E quando l’avresti vista, la mia parte migliore? Durante l’estate in cui hai conosciuto un ragazzino di diciassette anni? Forse non sapevi nemmeno chi io fossi, di certo non sai cosa sono ora, e non sarai mai in grado di capire cosa diventerò.»

Sarebbe una giustificazione fin troppo facile, dire: non lo avevo capito. È stato solo un malinteso. Mi sono innamorato di un altro. Un ragazzo biondo, bello e sincero, che non era lui. «Sto parlando della tua anima, Gellert.» Che è una cosa ineffabile e dolce, a diciassette anni, una poesia che poi si inquina di realtà, di intrusioni.

«Non parlarmi di anime» taglia corto. «La tua anima non mi interessa. La tua irresolutezza, la tua continua guerra santa morale contro te stesso.»

Albus sa che è insieme al genocida, insieme al dittatore, insieme alla mano che ha torturato e ucciso, che è andato fino in fondo, fino a confondere l’identità, fino a guastare il futuro. Ha amato le cose belle che diceva senza alcun impegno, le cose terribili che diceva senza nemmeno accorgersene, la stupidità emotiva della sua intelligenza e i crateri irruenti della sua bellezza –il peggio di Gellert non come un sacrificio, ma come un dono. Non sa ancora se si è fermato in tempo oppure no. 

«Il sangue non è qualcosa con cui tu possa giocare» gli rammenta Gellert, infilandosi l’anello di quarzo nel pollice, «e quel bambino ha il mio. Le cose andranno come devono andare, e al di là del tuo controllo.»

Albus finisce il tè. «Forse non posso, e non devo, impedirti di toccarlo, o di dirgli che gli vuoi bene, ma posso e devo impedirti di fargli del male.»

«Io so cosa vuoi davvero.» Gellert sfila l’anello e lo lascia dov’era, in mezzo a loro. «Sarai tu a tornare da me.»

Albus sorride. «Che cosa voglio davvero, tu non te lo sei mai chiesto.» È stato dopo tutto quello che era successo che Albus ha cominciato a interessarsi ad un oggetto come lo Specchio delle Brame; uno in cui non si vede riflessa la propria immagine, ma le proprie mancanze. Uno che Gellert avrebbe detestato, lui che ama gli specchi, come una bella bambina, come un’anima innocente e crudele. Lui per cui l’amore era un’eterna estate, fosforescente e contronatura; lui che per amore non perdeva mai il respiro, il senso di sé e certamente non la testa. Prendersi qualcosa non implicava mai dare qualcosa in cambio. 

«Me lo riprenderò» risponde Gellert, semplicemente. Poi se ne va.

 

 

***

 

«Odio l’Inghilterra» è una delle prime cose che gli ho sentito dire, con un certo piglio, come se stesse sfoggiando un abito di taglio sofisticato, e il primo sentimento che ho imparato a riconoscergli addosso è l’odio. Gellert ama odiare. Sa impiegarci la determinazione necessaria. Lo dimostra in modo diverso dagli altri, con un sorriso rilassato e placido, come se misurasse già lo slancio predatorio con cui annientare, e quindi si risparmiasse il livore. L’ho visto odiare agganciandosi a motivazioni trascurabili. I sentimenti meno intensi lo spazientiscono, non ha la cura di rallentare per curarli. Sono rimasto ferito negli spazi di quell’esasperazione così tante volte. Altre volte ho solo trattenuto il fiato e le parole, paralizzato dal timore che non rispettasse quei sentimenti, e che non sarei stato in grado di sopportarlo. Che avrebbe preferito lasciarmi per terra che tendermi la mano. La sua indifferenza, molto spesso, era una prospettiva molto più angosciante del suo odio. Ma non glie lo dico. Ora so che, se gli dico tutto, userà quella conoscenza e mi punirà, spezzandomi per dimostrare che può farlo. 

Sei un bambino viziato, gli ho detto. Non se l’è presa. Si è messo a ridere.

Mi sono chiesto cosa si provi ad essere odiati da Gellert. Se ci si senta di più, o di meno, dentro il cono di luce della sua considerazione. Più o meno nello stesso periodo, ho iniziato a studiare un incantesimo per portare in grembo suo figlio. 

È stato il primo segreto che gli ho nascosto. 

 

 

***

 

«Volevo presentarti una persona» disse Albus aprendo la porta. Una camera da letto graziosa, antiquata, con stelle d’oro ricamate sul baldacchino.

Newt osservò basito il ragazzino biondo, dal caschetto scattante di biondi capelli lisci, che si voltò per scrutarlo intensamente. Aveva degli occhi sottili, un po’ scandinavi, e una figuretta impettita, solenne per la sua altezza. «Sei un po’ magro per fare il Magizoologo. Come fai con i Tuoni Alati?»

«Aurelius» lo introdusse Silente, con il tono di chi offre una spiegazione. 

Newt si abbassò sulle ginocchia, ponendo la sua valigia in mezzo a loro. «Conosci i Tuoni Alati, bene. Conosci altre creature?»

«Mettimi alla prova!»

«Sai cos’è uno Snaso?»

Il test non fu giudicato all’altezza da Aurelius. «Ne volevo una difficile!»

«Guarda un po’.» Newt aprì la serratura ed estrae un piccolo Snaso fulvo, così piccolo da stare sul suo palmo. 

Finalmente questo riuscì a disegnare un’espressione di rapimento del tutto puerile sul viso di Aurelius. «È per me?!» La cosa doveva apparirgli talmente incredibile che si girò verso il genitore, e Silente fece un ulteriore cenno di assenso, consentendogli di prenderlo tra le mani. 

Mentre Aurelius giocava, il tono di Newt si fece più confidenziale. «È cresciuto qui… a Hogwarts?»

«Certo. Riesci a immaginare un posto migliore in cui crescere?» Albus fece un sorriso amareggiato. «O più sicuro?»

Newt si morse il labbro inferiore, comprendendo il suo dissidio interiore. «Non gli è mancato niente.»

«Forse no, ma ha bisogno del mondo. Anche la gabbia più bella che esista rimane una gabbia. Sono stato troppo protettivo con lui.»

«Hai fatto l’unica cosa che avresti potuto fare.»

«Ho sbagliato, invece. Ho trasformato nostro figlio in una sfida, e Gellert odia perdere.»

Quel tono trasmise un brivido a Newt. «È solo un bambino.»

«Per te è un bambino» lo corresse Albus. «Per lui è un erede. Riesci a comprendere la differenza?»

«Una sua… emanazione.»

«Se c’è un valore che Gellert rispetta, è quello della proprietà.» Interruppero lo scambio per guardare Aurelius, l’energia della sua gioia che necessitava solo di un pretesto, di una compagnia. «Mi ricorda Ariana alla sua età. Sveglio, suo malgrado, e affamato di normalità. Anche Aberforth lo ama, da quando ha accettato di incontrarlo.» Lo sguardo di Albus era liquido, cangiante, sul confine che separava passato e presente, come sulla superficie del Pensatoio. «Ma Aurelius non è Ariana. Non sarà vittima della mia negligenza.» 

Newt notò un dubbio scalfirgli la fronte. Si chiese se, guardandolo, vedesse anche Grindelwald, o almeno il raggio buono di lui che meritava uno spicchio di amore. «Newt… Promettimi che Aurelius avrà anche te, se dovesse–»

«Non ti succederà nulla» intervenne Newt, inquieto, «Albus.»

Non ne parlarono più.

 

 

***

 

«Ariana… Ariana… Ariana…»

Era stato quella notte, quando Aberforth ripeteva quel nome, scuoteva la nostra sorella-bambola che della bambola aveva assunto le fattezze definitive, portando via il suo male con sé –portando via l’immagine di Gellert il principe e lasciando solo Grindelwald. La notte del mio più grande fallimento, quella della fine delle illusioni, l’ho sentito. Il palpito impercettibile della vita che cresce. C’era qualcosa di più forte, più indipendente di Gellert Grindelwald e dei suoi piani per il mondo, per me, per noi. 

Quello non era il figlio che avrei dato a Gellert per farmi tenere, né un monumento ad un amore finito. Era il futuro, informe, imprevedibile. Sono rimasto in silenzio, ma nel mio cuore ho accettato il responso, quello della vita e quello della morte, le loro logiche asimmetriche. Ho promesso.

 

 

***

 

C’era un momento esatto in cui Gellert soffriva, soffriva davvero, senza mentire –ed ingenuamente, come se non avesse mai saputo prima d’ora cosa fosse il dolore, per sé e per gli altri– ed era quando la realtà lo deludeva, si scontrava con le sue accurate, monumentali visioni e gli dava un risultato che non si addiceva alle sue aspirazioni, recapitandogli un conto a suo dire troppo severo. Albus si stupì di ritrovare quell’epifania di sofferenza genuina e ingannata, tanti anni dopo, quando Gellert non aveva più diciotto anni, molte cose erano accadute e il conto era ormai incalcolabile. 

«Solo noi possiamo farlo, Albus.»

«Perché solo noi?»

«Che domanda stupida.»

Il volto di un ragazzino bloccato davanti a una domanda stupida. 

«Ecco, sei venuto a uccidermi. Lo sapevo.»

«Ho promesso ad Aurelius che non ti avrei ucciso» precisò Albus, sondando la sua nebulosa indignazione. 

«Sembra che ti impegni a mantenere le promesse di tutti tranne le mie, Silente. Anche io avevo bisogno di te, ma te ne sei infischiato.»

Albus ricordava in modo cristallino le parole esatte di allora. Starò benissimo senza di te, sei tu che non riesci a stare senza di me.

«Ti stai mettendo in competizione con tuo figlio, Gellert?»

Gellert lo fulminò con lo sguardo. «Oh, risparmiamelo. Quanti anni avrà, settanta?»

«Quarantacinque, lo sai bene.»

«Appunto… Non gli ho torto un capello al tuo moccioso. Cos’altro vuoi da me? Vuoi umiliarmi con la tua superiorità?»

E Albus se ne convinse davvero, che lì dentro ci fosse ancora, da qualche parte, l’adolescente smarrito che premeva la testa contro di lui e diceva non può essere stato per niente, non ho paura di morire Albus, ho solo paura che non sia servito a nulla.

«Non voglio umiliarti. Ti amo ancora.» Non era doloroso ammetterlo, portava solo pace. 

«Credi di avere l’esclusiva della sofferenza?» Gellert lo affrontò con uno sguardo rabbioso, che era diverso dai suoi antichi sguardi d’odio affamato. «Anche io volevo bene ad Ariana. Perché credi che me ne sia andato, quella notte…» Deglutì, non si muoveva bene in quel terreno pericolante di emozioni distruttive. «Io e te avremmo potuto riportarla indietro.»

Rubare alla morte; le mitomanie di due diciottenni, ma Gellert non era mai cresciuto, era rimasto quel ragazzo dal cuore acerbo rigonfio di orgoglio, di forze indomite. Albus non riuscì a non provare affetto. 

«No, Gellert, non avremmo potuto.» 

Avrebbe voluto confortare la versione di lui giovane e in lacrime che ancora ricordava bene, che si affacciava stordita su quel percorso già al termine come dire: tutto qui? «Se solo avessi accettato di ricostruire qualcosa insieme a me, sarebbe stato tutto così diverso.»

Ma per Gellert le possibilità si erano chiuse, e non importavano più. «Hai ragione tu. Non sono in grado di prendermi cura di niente. Hai fatto bene a starmi lontano. Avresti dovuto fare di meglio e dimenticarti di me, Albus.» La sua voce non era mai suonata così stanca. «Ormai è troppo tardi, e adesso dobbiamo chiudere i conti. Ma io non ho promesso niente a nessuno: se vinco, io ti ammazzo.»

Albus sorrise.

 

 

 

  
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