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Autore: Adeia Di Elferas    20/04/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Venanzio da Varano si tolse l'elmo, nella speranza di tornare a respirare. La calura, la polvere e, soprattutto, l'ultimo schizzo di sangue rovente uscito dalla gola del nemico gli avevano tolto tutta l'aria dai polmoni.

Strizzò gli occhi contro il sole. Il campo aperto in cui si era combattuto, lì a Esanatoglia, era irriconoscibile tanto la furia della battaglia aveva rivoltato la terra e distrutto ogni cosa.

Ormai nel punto in cui si trovava Venanzio, non c'era più un borgiano vivo. L'ultimo lo aveva sgozzato lui stesso. La colonna di punto dell'esercito dei Varano stava incalzando quei pochi pontifici che ancora si ostinavano a restare.

Venanzio cercava di continuo con lo sguardo il fratellastro Annibale. Lui era stato tra quelli che avevano spinto di più per affrontare in campo aperto gli uomini del Valentino e, per il momento, aveva avuto ragione. Certo, le perdite erano evidenti, ma stavano vincendo.

“Si ritirano...” soffiò il Varano, guardando quasi incredulo l'ultima azione di respingimento, che stava andando a buon fine: “Si ritirano!” esclamò di nuovo.

Finalmente lo vedeva, Annibale, in testa agli uomini che stavano costringendo alla fuga definitiva i pontifici: avrebbe riconosciuto il suo elmo decorato ovunque, specie sotto al sole di luglio, che lo faceva brillare come un gioiello.

Come a rendere ancor più spettacolare quel momento, l'asta di una delle insegne di Francesco Orsini, Duca di Gravina, a comando delle truppe pontificie, si spezzò di netto, facendo ammainare e cadere la bandiera che, sembrava, così da lontano, si avvolse attorno al proprio alfiere, facendolo rovinare al suolo e travolgere dai suoi stessi compagni in fuga.

Animato da un nuovo vigore, Venanzio si mise allora a radunare i soldati che aveva attorno. Voleva che l'esercito fosse compatto, nel momento in cui avessero gridato alla vittoria.

Mentre osservava i suoi armigeri serrare di nuovo i ranghi, un po' confusi e spaventati, come se temessero che quella manovra fosse solo il preludio a un nuovo assalto nemico, il Varano se ne sentiva molto orgoglioso. Non aveva creduto che raccogliere truppe all'ultimo minuto – pagandole in parte con denaro offerto da Guidobaldo da Montefeltro, quando ancora non si riteneva davvero in pericolo – sarebbe stata una mossa vincente, e invece ora sentiva che il campo era loro e si permetteva di sperare di più.

Pensò al padre, Giulio Cesare, che li aspettava a Camerino, magari immaginandoli già sconfitti o addirittura morti... Sarebbe stato fiero di loro: avevano difeso la loro terra e avevano vinto contro un esercito che sulla carta era molto più preparato e ben armato del loro.

Mentre rimetteva in riga gli ultimi e dava disposizione per recuperare i feriti e curarli – e di uccidere i feriti pontifici che fossero ancora vivi in terra – Venanzio pensò a Bologna, dove sapeva che Alessandro e Annibale Bentivoglio avevano ammassato uomini sul confine e preso al soldo quaranta balestrieri, per difendersi da un'eventuale attacco del Valentino. Forse, si disse, quella loro vittoria a Esanatoglia avrebbe dato nuova linfa a tutti gli Stati italiani... Ciò che non era riuscita a fare la Tigre di Forlì due anni e mezzo prima, forse sarebbero riusciti a fare loro...

“Vedi? Nostro padre si sbagliava!” esclamò Annibale da Varano, quando, ricacciati indietro i papalini, raggiunse Venanzio.

Questi, guardando il viso trionfante e impastato di sangue e polvere del fratellastro, aggrottò la fronte e chiese: “In che senso?”

L'altro, l'elmo sotto al braccio e la spada di nuovo nella guaina appesa al fianco, rise per un istante e poi rispose: “Da anni va cercando di convincerci che noi Varano siamo fatti per i commerci, le leggi e l'amministrazione di uno Stato... Io invece dico che oggi abbiamo ben dimostrato di essere fatti per combattere e non per amministrare!”

Lo sprezzo con cui disse quell'ultima parola riaccese anche Venanzio che, in effetti, aveva sempre sofferto l'immobilismo e aveva sempre preferito mettersi in sella e menar le mani: “Hai ragione, fratello!” convenne: “E ora anche il Valentino sa contro che stirpe di guerrieri s'è messo!”

 

Non essendo stato in grado di prendere sonno, Bernardino quella notte aveva accarezzato di nuovo l'idea di uscire di nascosto dalla casa in cui Fortunati aveva nascosto lui, sua madre e due dei suoi fratelli. Aveva aspettato con il cuore che frullava nel petto, aveva perlustrato con attenzione i locali della servitù e quando era stato certo che anche Creobola – l'unica serva, in pratica, oltre a un ragazzo di fatica, che avevano portato con loro dalla villa – era addormentata profondamente, si era avventurato fino alla porta di servizio.

Aveva fatto scattare con lentezza esasperante il chiavistello e poi era uscito con un guizzo fluido, trovandosi di colpo in una stradina buia e sferzata dagli ultimi refoli freschi della notte.

Essendo luglio, già prima dell'alba la temperatura aveva cominciato a salire. La luce era soffusa, ma il Feo ricordava ancora bene le strade di Firenze. Quando era stato con gli altri rifugiato a casa di Alessandra Scali, aveva avuto modo di farsi una mappa mentale della città e, sfruttando la sua innata abilità nell'orientarsi, riuscì in fretta a capire che via imboccare per andare dove desiderava.

Silenzioso e rapido come un topolino, il ragazzino, che avrebbe fatto dodici anni solo il 28 novembre, si spinse fino al Lungarno, dove guardò per un po' i riflessi argentati delle acque tumultuose del fiume. Da lì, respirando davvero per la prima volta da settimane, si inoltro nel cuore pulsante di Firenze. Passò davanti al Duomo, attraversò di corsa la piazza del palazzo della Signoria e poi, con una precisione che lo rese orgoglioso della propria memoria, giunse proprio davanti alla chiesa di San Lorenzo.

Il cielo si stava schiarendo a vista d'occhio e le strade cominciavano a farsi più vive. Bernardino sapeva di avere ancora poco tempo. Malgrado avesse un desiderio irrefrenabile di vedere e vivere e inspirare a pieni polmoni l'aria aperta della città, era altrettanto cosciente del rischio che avrebbero corso i suoi fratelli e, soprattutto, sua madre, se qualcuno lo avesse riconosciuto. Credeva che fosse un'ipotesi remota, ma non poteva essere certo che in tutta Firenze non ci fosse nessuno che in qualche occasione l'avesse visto e avesse memorizzato il suo volto. Se l'avessero catturato, usandolo come ostaggio per piegare la Tigre, cos'avrebbe fatto sua madre?

Mentre camminava rasente ai muri dei palazzi, il Feo riportava alla mente i racconti che aveva sentito fare a volte da Ottaviano. Quando lui non era ancora nato, c'era stata un'occasione in cui la Leonessa di Romagna era stata portata a scegliere tra la propria vita e il proprio Stato e la vita dei suoi figli – in particolare, minacciati proprio davanti a lei, Ottaviano e Cesare – e lei, senza la minima esitazione aveva preferito se stessa e Forlì ai due figli maggiori.

Bianca aveva voluto spiegare più di una volta al Feo che la madre non era stata sincera, in quel frangente, che aveva giocato d'azzardo, sperando in tal modo di salvare sia se stessa sia i figli, fidandosi del fatto che gli Orsi non avrebbero mai ucciso dei ragazzini davanti al popolo forlivese, rischiando di perdere per sempre il favore popolare. Bernardino si era sempre sentito rincuorato da quella spiegazione, eppure, nel profondo, era sempre stato certo che sua madre sarebbe andata fino in fondo comunque, anche se le remore morali dei suoi nemici non fossero state tanto ferree.

Gli mancava ancora qualche passo e poi si sarebbe dovuto staccare dalla parete per andare al portone della chiesa. Guardò cautamente a destra e a sinistra e, proprio appena prima di muoversi, vide una figura che lo indusse a fermarsi.

Avrebbe riconosciuto quel fiorentino ovunque, specie perché in casa ne sentiva parlare molto spesso e aveva ormai interiorizzato i tratti più spiccati del suo volto: il naso schiacciato, gli occhi grandi e rotondi, simili a quelli di un bue, e l'aspetto flemmatico, che, benché ormai il Popolano potesse definirsi magro, gli dava un'andatura lenta e un po' ciondolante, tutt'altro che agile.

Anche Lorenzo Medici sembrava aver deciso che quella fosse la mattina giusta per andare sulla tomba del defunto Giovanni. Arrivava sicuramente dal suo palazzo, che era proprio lì accanto, e quando giunse al portone di San Lorenzo, Bernardino non ebbe più dubbi sulla sua identità.

“Messer Lorenzo...” lo salutò infatti un uomo ben vestito che stava passando di lì.

Il Popolano ricambiò con un distratto cenno del capo e poi sparì nella chiesa. Al Feo non restava che aspettare lì fuori: sarebbe stato davvero troppo rischioso seguirlo. Anche se probabilmente il Medici non sarebbe stato in grado di riconoscerlo, era probabile che l'avrebbe notato. Essendo poi tutt'altro che stupido, avrebbe potuto intuire chi fosse, o, almeno, averne un sospetto flebile, ma sufficiente a prendere qualche decisione sgradevole.

Così, sperando che il fiorentino dicesse in fretta le sue orazioni, il ragazzino si mise in un angolo d'ombra ad aspettare, ripromettendosi che se la sosta di Lorenzo fosse durata troppo, sarebbe corso via, per tornare dalla madre prima che questa si accorgesse della sua assenza.

Il Popolano, però, aveva tutt'altro che fretta. Entrato in chiesa, si era tolto il capello e si era inginocchiato verso l'altare. Con passo rigido, era andato fino alla tomba del fratello e lì si era fermato. Non sapeva nemmeno lui perché fosse lì: ultimamente era arrabbiato anche con Giovanni, che, con la sua condotta sconsiderata, sposando una donna ingannatrice e crudele come la Sforza, lo aveva messo in un pasticcio enorme di cui non avrebbe avuto nessun bisogno.

In realtà, forse, se si era svegliato tanto presto e si era rintanato lì, soffocato dall'odore dell'incenso, era stato per pensare un momento. La situazione politica di quei giorni lo aveva travolto e distrutto, e lui vagava come una trottola in cerca di un punto fisso cui aggrapparsi.

Nessuno, in tutta la Repubblica, sapeva dire di preciso come stessero andando le trattative di Soderini, ripartito ormai da qualche giorno per andare a colloquiare con il Valentino, però le notizie che arrivavano dal casentino e non solo lasciavano pensare alla gente di Firenze che qualche cosa si stesse muovendo davvero.

Innanzitutto, Giampaolo Baglioni ed Ercole Bentivoglio si erano incontrati con il comandante francese Imbault Rivoire che, portavoce degli avvertimenti del re di Francia, aveva convinto entrambi a ritirarsi verso Perugia.

I più informati sostenevano che quel ritiro non fosse solo frutto delle sagge parole del Rivoire, ma che fosse soprattutto dovuto a una fortissima somma di denaro data proprio dalla Repubblica al Valentino in cambio di un suo ordine perentorio ai suoi due condottieri.

Imbault non si era fermato lì: agendo in totale autonomia, senza neppure contattare il commissario fiorentino Giacomini, aveva in una sola notte attaccato e riconquistato Arezzo. In seguito a quella scottante sconfitta, Vitellozzo Vitelli e Piero Medici avevano restituito ai francesi le terre prese un mese prima, ed erano anche stati costretti a consegnare in ostaggio un nipote proprio del Vitelli e un figlio di Giampaolo Baglioni.

Un paio di giorni prima, poi, proprio lì a Firenze era arrivato il Capitano francese Monsignor Engles, inviato espressamente da re Luigi per contrastare l'eventuale avanzamento del Borja.

Quel francese aveva già fatto partire parte dei soldati che si erano stanziati in città, tuttavia Lorenzo sapeva che quel 18 giugno la Signoria gli avrebbe affidato un compito delicato, al solo scopo di metterlo alla prova, dubitando della sua lealtà. Engles andava accompagnato fuori da Firenze, verso Montevarchi, e con lui doveva partire tutta l'artiglieria.

Probabilmente con lui sarebbe stato presenta anche Benedetto Nerli, forse più per controllarlo, che non per coadiuvarlo davvero. I sospetti sulle sue ingerenze filo francesi erano ormai così radicati, nella Signoria, che il Popolano non si sarebbe nemmeno sorpreso di scoprire che quella altro non era se non un'imboscata, atto a coglierlo in qualche discorso sconveniente con Monsignor Engles.

Se solo Soderini fosse già tornato con delle notizie certe da parte del Valentino...

Il Popolano sollevò gli occhi tondi verso la lapide del fratello. Quasi lo invidiava: lui non aveva dovuto vedere Firenze in pericolo, minacciata tanto dal figlio del papa, che avrebbe potuto prenderla con le armi, tanto dai francesi, che già, in parte, la stavano comprando con il ricatto...

Con un sospiro pesante, l'uomo abbassò un momento il volto, si diede una sistemata al giubbone e poi camminò, questa volta velocemente, quasi avesse davvero fretta, verso l'uscita. Voleva arrivare prima di tutti al palazzo e voleva cercare di capire che vento tirava tra i notabili di Firenze. Forse quell'incarico, da lui tanto sofferto, poteva trasformarsi nell'opportunità tanto attesa di scagionarsi davanti all'opinione pubblica.

Quando il Medici uscì da San Lorenzo, non si accorse del ragazzino che ancora aspettava in silenzio in un angolino in ombra della strada.

Bernardino attese con pazienza che l'uomo svoltasse in via Larga, ben lontano dalla sua portata e poi, veloce come un gatto, entrò a sua volta in chiesa. Ormai il tempo era poco, ma ci tenne a fermarsi un momento davanti alla tomba di Giovanni, un uomo che per lui era stato come un padre, anche se per troppo poco tempo.

Si fece il segno della croce e poi, proprio mentre uno dei chierici si avvicinava accigliato, probabilmente per chiedergli chi fosse, il Feo si mise a correre, in barba alla sacralità del luogo, e uscì all'aria aperta in una manciata di secondi. Anche fuori, non smise mai di correre. Senza avere quasi più fiato, raggiunse di nuovo il Lungarno. Aveva attirato qualche sguardo curioso, lo sapeva, ma era stato così veloce e così bravo a scegliere strade secondarie, che di certo a nessuno era venuto in mente di seguirlo.

Sentì battere l'ora e si accorse con un singulto che era più tardi di quel che aveva creduto. Per lui, che aveva faticato molto a imparare a leggere l'ora segnata dalle lancette della Torre Pubblica di Forlì, era molto complicato fare il calcolo delle ore con il metodo usato a Firenze, così complicato e diverso...

Ricominciando a correre, senza davvero fermarsi più, arrivò alla casa in cui si nascondeva parte della sua famiglia e infilò la porta di servizio. Era rosso fuoco, per via della corsa e del sole che già bruciava, con il fiato corto e i capelli spettinati dal vento e appiccicati al collo dal sudore.

Provando a calmare il respiro, si arrischiò fino alle scale, sperando di non incontrare nessuno, e solo quando fu a metà rampa sentì la voce di Galeazzo sussurrare concitata: “Dove ti eri cacciato?!”

Seguendo il fratello, che gli faceva segno di raggiungerlo al piano di sopra, il Feo tossì un paio di volte, continuando a fare del suo meglio per riprendersi dalla lunga corsa, e poi chiese, con la voce gracchiante: “Nostra madre..?”

“Dove sei stato?” chiese di nuovo il Riario, questa volta con ancor più fermezza.

“Sulla tomba di messer Giovanni.” rispose Bernardino, senza guardare il fratello.

Come in un lampo di memoria, Galeazzo ricordò di quando, anni prima, era andato a recuperare il fratello minore a San Girolamo, trovandolo rannicchiato a terra, in lacrime, accanto alla tomba di Giacomo Feo. Quel parallelismo gli bastò per non arrabbiarsi.

“Non devi farlo più.” lo rimproverò comunque: “O almeno – aggiunse, in uno slancio di magnanimità – se vuoi farlo, avvisami prima. Questa casa è piccola e nostra madre...”

“Si è accorta che non c'ero?” chiese, in ansia Bernardino, mentre il Riario, con gesti decisi, ma a modo loro affettuosi, gli sistemava i capelli e gli abiti: “Mi ha cercato..? Si è arrabbiata?”

“Ha finto di non accorgersene.” rispose l'altro, sollevando un sopracciglio: “Ho preso tempo. Ora, però, vai da lei e fatti vedere.”

Il ragazzino annuì, ma attese paziente che il fratello finisse di rimetterlo in ordine. Galeazzo, che era sempre impeccabile come un disciplinatissimo soldato, sapeva certo meglio di lui come renderlo presentabile alla Tigre.

“Se proprio vorrai fare di nuovo una cosa del genere – si lasciò scappare il giovane, ragionando su come conciliare quel bisogno ineluttabile del Feo con la situazione in cui si trovavano – fallo quando nostra madre è distratta da Fortunati.”

Bernardino non disse nulla. Anche se i suoi fratelli, Bianca e Galeazzo, non gli avevano mai spiegato nel dettaglio cosa ci fosse tra la loro madre e il piovano, il Feo l'aveva capito benissimo. Il tempo passato tra i bassifondi e la rocca di Ravaldino, le abitudini della Leonessa e le chiacchiere con cui aveva sempre dovuto convivere, gli avevano permesso di non avere alcun velo sopra gli occhi e di vedere bene le cose per quelle che erano.

Una volta che fu pronto, Bernardino ringraziò il fratello, che gli fece presente di averlo scusato, con la madre, dicendo che stava facendo esercizio con le posizioni della scherma.

“Ho immaginato – spiegò Galeazzo – che saresti tornato qui scarmigliato e sbuffante... Dovevo trovare una scusa che reggesse.”

Il Feo annuì e partì in direzione della stanza della Sforza. Trovò la porta socchiusa, ma appena vi si avvicinò, la madre lo chiamò dentro, come se lo stesse aspettando al varco.

La trovò pallida e assorta, come spesso era ultimamente, in piedi in mezzo alla stanza. Teneva le braccia incrociate sul petto e le labbra strette in un'espressione che al figlio parve di disappunto.

“Madre...” cominciò a dire lui.

“Non farlo mai più.” ribatté lei, fredda: “Non senza il mio permesso.”

“Io...” balbettò Bernardino, tentato di scappare, ma, allo stesso tempo, impossibilitato a muoversi.

Anche se era per un motivo spiacevole, era felice di avere per sé l'attenzione della madre. Anche se non gli faceva mancare nulla – in base alle loro possibilità – e anche se a volte si sforzava di passare del tempo con lui, insegnandogli delle cose, ascoltandolo e condividendo con lui alcuni suoi pensieri, per il Feo era sempre come se la Tigre vivesse in un mondo parallelo al suo, che a tratti lo sfiorava, ma che mai lo abbracciava veramente.

Caterina, di contro, faceva fatica a rivolgere lo sguardo al figlio nato dal suo grande amore. Era ogni giorno più simile a Giacomo, nell'aspetto, ma aveva nel petto quella fiamma che lei riconosceva come propria. Temeva che l'unione di quelle due caratteristiche lo portasse a perdersi presto.

Era ancora piccolo, ai suoi occhi, ma la Leonessa era cosciente di quanto la vita che aveva fatto fare a suo figlio lo avesse portato a crescere in fretta. Quando lo guardava negli occhi, non vedeva un ragazzino di nemmeno dodici anni: era molto più sveglio della maggior parte dei suoi coetanei, e proprio quel disincanto poteva essere un grosso rischio.

La Sforza sapeva bene quali false promesse potesse fare una città come Firenze a un ragazzino ancora tanto giovane eppure tanto irrequieto. Tanto per cominciare, c'erano bande di bambini e giovani uomini che altro non facevano se non ubriacarsi e fare a botte, e Bernardino aveva dimostrato già da piccolo di essere abbastanza incline a cedere alla violenza, quando si trovava in gruppo. Poi c'era anche chi, vedendo un ragazzino tanto bello, avrebbe potuto fargli del male al solo scopo di togliersi una voglia. E poi, tra le tante altre cose, la Leonessa non riusciva a non pensare al numero sicuramente notevole di lupanari in cerca di clienti anche molto, molto giovani, che, mossi dalla curiosità, fossero polli facili da spennare con facili promesse e da trasformare in clienti assidui. Non voleva che nessuna di quelle cose lo sporcasse davvero, non ancora, almeno, non finché non aveva la capacità di comprendere scientemente fin dove davvero volesse spingersi...

“Dove sei stato?” domandò infine la donna, rompendo il denso silenzio che si era creato tra loro.

Bernardino si dondolò per un momento sul posto. Di colpo avrebbe voluto dirle tutto, avrebbe voluto raccontarle di come si era sentito abile e astuto a uscire di casa senza che nessuno lo vedesse, di come era stato orgoglioso di sé nell'accorgersi di sapersi muovere per Firenze senza una guida, e anche di come fosse stato bravo a non farsi vedere da Lorenzo Medici.

Invece tutto quello che riuscì a dire fu: “Sulla tomba di messer Giovanni.”

Caterina occhieggiò fulminea verso di lui. Di tutte le mete in cui il Feo avrebbe potuto recarsi, la milanese non aveva minimamente preso in considerazione quella.

Sentendo in cuor suo che quella era la verità, la Tigre si ammorbidì all'istante: non se la sentiva di arrabbiarsi con il figlio per un motivo del genere. Bernardino, in fondo, si era attaccato molto a Giovanni, così come avevano fatto i suoi fratelli...

“Dal modo goffo con cui tuo fratello Galeazzo ha cercato di coprire la tua assenza – borbottò la Sforza, ancora molto arrabbiata, ma anche molto sollevata – credevo fossi andato a cercare qualche rissa in cui infilarti... O qualche bordello che non rifiutasse i ragazzini.”

Il Feo, con il viso in fiamme e gli occhi fissi al suolo, si sentì in dovere di fare l'eco: “No, non ho cercato nessuna rissa e no, non sono andato in nessun bordello...”

“Meglio così.” concluse Caterina e poi, come se stesse facendo una considerazione tra sé, soggiunse: “Anche perché, come età, sarebbe più normale che fosse tuo fratello Galeazzo, a scappare di casa per una notte per cercare qualche donna...”

Il ragazzino non commentò, valutando tra sé che Galeazzo, per come lo conosceva, non si sarebbe mai accollato il rischio di uscire senza permesso per un motivo del genere. Aveva tanti pregi, specie ai suoi occhi di bambino, ma non era molto disinvolto, con le giovani donne. Anzi, se avesse dovuto fare un paragone con Ottaviano, che invece sembrava quasi incapace di pensare ad altro da che il Feo aveva memoria, Galeazzo sembrava quasi aver deciso di imboccare la strada della vita monacale.

Bernardino stava pensando a come sarebbe stato il fratello negli abiti di un qualche ordine monastico guerriero, quando la madre parlò di nuovo: “Mi raccomando: non farlo mai più.”

Mentre diceva quelle parole, la donna gli si avvicinò, inducendolo a sollevare lo sguardo verso di lei. Assomigliava a Giacomo, quello era sempre più indubbio, eppure la milanese vedeva in lui anche qualcosa di sé, ma, soprattutto, notava una somiglianza netta con i bei tratti di Tommaso Feo.

“Se proprio senti questa urgenza di uscire, sia mentre siamo qui, sia quando torneremo alla villa, parlamene e vedremo cosa si può fare.” concluse, chiedendosi se, crescendo, Bernardino avrebbe guadagnato anche solo un briciolo della disciplina che era stato per tanti anni un tratto distintivo dello zio Tommaso.

“Anche se avessi urgenza di andare al bordello?” il tono del ragazzino era chiaramente scherzoso, eppure, nell'immediato, lasciò basita la Leonessa.

Non appena realizzò l'intento del figlio e notò la sua espressione divertita, stette al gioco ribattendo, seria: “Certo, soprattutto per quello.”

Quella luce, che più che maliziosa la si sarebbe potuta definire scaltra, che illuminava il viso del Feo compiacque la madre, perché era una netta differenza rispetto all'atavica ingenuità che aveva sempre caratterizzato la bellezza di Giacomo. Forse, si permetteva di sperare, il figlio avrebbe saputo affrontare la vita meglio di quanto non avesse fatto il padre.

“Adesso torna nella tua stanza.” fece la Leonessa, sentendosi di colpo stanca e desiderosa di starsene da sola: “Anche se Bianca non è qui con noi, e nemmeno frate Lauro, non sei esentato dai tuoi esercizi di latino... Anzi, lo sai benissimo che Sforzino è felice di insegnarti qualcosa...”

Bernardino non se lo fece ripetere. Benché detestasse il latino – per lui una lingua oscura e incomprensibile – non osò lamentarsene a voce alta, non sentendosi nelle condizioni di avanzare pretese ed essendo, anzi, anche troppo felice di essersela cavata senza scatenare del tutto l'ira della madre.

“Comunque, se volessi andare in un postribolo, sappi che io per ora di soldi non te ne darei – si trovò a precisare la donna, mentre il ragazzino già usciva dalla stanza – ti farebbero pagare solo per guardare, e sarebbe un modo stupido di spendere denaro...”

 

Cesare Borja si versò da bere, di malavoglia. Non gli piaceva subire ingerenze dall'alto, tanto meno quando questo 'alto' era rappresentato da suo padre e dal re di Francia.

Tuttavia si sentiva molto intelligente e abile nel dissimulare. Se avesse potuto, si sarebbe dato una pacca sulla spalla e un premio in denaro sonante per come aveva preso per i fondelli Soderini.

Era stato molto più semplice del previsto ospitarlo lì a Urbino, usando il palazzo che era stato dei Montefeltro come se fosse il suo, e fingersi magnanimo e incline alla collaborazione, promettendo salvezza per Firenze, rigirando ogni cosa a proprio favore e mostrandosi come un Dio misericordioso.

Di certo quello stupido fiorentino non avrebbe mai capito che quell'improvvisa cedevolezza era dovuta a ordini categorici arrivati dal papa e da Luigi XII. Gli era bastato vedere il modo ossequioso in cui, qualche giorno addietro, gli aveva baciato le mani ringraziandolo della sua grandezza di spirito.

Mentre vuotava il calice in un solo sorso, il Valentino guardava dritto verso le fiammelle delle candele accese sul tavolo. Quando gli parve di vedere tutto bianco, fissò un punto della parete e si perse per qualche secondo in quell'illusione che lo estraniava dal mondo.

Forse, continuava a dirsi, era stato un bene dover rinunciare – per il momento – a Firenze. Non era forse stata la vera rovina di papa Sisto IV, cercare di mettere il nipote Girolamo Riario sullo scranno più alto della Repubblica? Ecco, a lui quell'errore, quel peccato di fretta era stato risparmiato.

Inoltre, così, aveva più tempo per concentrarsi su altro: Camerino, tanto per cominciare.

Alzandosi da tavola, con lo stomaco in fiamme per il troppo vino e la testa che girava come se si fosse trovato in nave, il Duca di Valentinois diede una breve risata nel pensare a sua cognata, lassù, a Mantova, che gli aveva chiesto con tanto candore alcune statue dei Montefeltro proprio mentre li aveva ospiti in casa propria. Secondo i suoi calcoli, almeno il Cupido doveva essere nei pressi del Marchesato proprio in quelle ore, a dorso di mulo, avvolto in mille stracci, pronto per prendere il suo posto nello studiolo di Isabella, o dovunque ella volesse metterlo, con buona pace dei vecchi signori di Urbino...

“Mio signore.” uno dei suoi paggi era entrato senza annunciarsi, ma Cesare non lo sgridò, tanta era la suggestione che lo portava a sentirsi come una sorta di Messia dedito al perdono e alla magnanimità.

Prese con un gesto elegante il messaggio che il ragazzo gli aveva portato, e poi lo congedò senza dire una parola. Ruppe il sigillo e cominciò a leggere. Dovette mettersi seduto per far sì che le parole non si ingarbugliassero davanti ai suoi occhi, ma quando comprese il succo del messaggio rise deliziato.

Oliverotto era riuscito a prendere il borgo di Camerino, punendo l'arroganza dei Varano, che avevano creduto di poter vincere la guerra solo perché vincenti a Esanatoglia...

“Ancora un giorno o due – esclamò Cesare, tornando a versarsi da bere – e anche la città di Camerino cadrà e dopo di lei tutte le altre e io sarò il nuovo Giulio Cesare e nessuno potrà più dirmi cosa devo o non devo fare! Aut Caesar, aut nihil!”

Con quello che aveva scelto come suo motto, una frase che per lui riassumeva un mondo intero – o Cesare, o niente – il temerario figlio del papa appoggiò la fronte al tavolo e vinto dalla tarda ora e dal vino in eccesso, si addormentò all'istante e cominciò a russare fragorosamente.

   
 
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