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Autore: Spoocky    21/04/2022    2 recensioni
1804, Napoleone sta espandendo le sue mire su tutta l'Europa, una spia inglese inviata in Spagna viene a conoscenza dei suoi piani e cerca di riportare in Patria le preziose informazioni. Ma qualcuno lo ha tradito.
Riuscirà il messaggio ad arrivare al destinatario?
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Periodo Napoleonico
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Carissimi, stavolta non ho impiegato un'infinità per aggiornare, spero per vostro gradimento.
Purtroppo, ho una vita molto impegnata che mi sta lasciando pochissimo tempo ed energie per scrivere. Se tutto va bene, nelle prossime settimane il ritmo dovrebbe allentarsi un poco.
Mi dispiace moltissimo avere dei tempi così lunghi, anche se non dipende dalla mia volontà.
Un ringraziamento particolarmente sentito, dunque, a chi ha avuto la pazienza di restare a seguire questo racconto, che d'ora in poi spero di poter aggiornare con maggiore frequenza.

In questo capitolo entreranno in gioco alcuni personaggi storici reali. Le azioni e le decisioni che imputo loro non hanno alcuna pretesa di essere reali, solo verosimili dato il contesto storico d'appartenenza. E' possibile che abbiano fatto o pensato qualcosa del genere ma la Storia non ne ha serbato memoria, quindi ho lavorato di fantasia. A parte la storia del Bragadin, quella è vera.

Buona Lettura ^^



Il rumore del secchio riverberò come il suono di una campana a morto quando Ernesto lo colpì con il bastone. Attese paziente che smettesse di vibrare prima di colpirlo altre due volte.
A qualche passo di distanza, ritto in piedi con le braccia incrociate sul petto, Rafael osservava l’operato del cugino con occhio critico: Ernesto era di poche parole, anche con loro parlava poco e difficilmente apriva bocca se non interrogato, e questo lo rendeva particolarmente affidabile.
Aveva anche un talento fuori dall’ordinario per qualsiasi compito pratico gli venisse affidato e, soprattutto, era molto creativo.
Specie se si doveva far parlare qualcuno che non ne aveva voglia.
Dopo aver assestato un colpo particolarmente potente al secchio, Ernesto aspettò che si assestasse e, con calma misurata, lo sfilò dalla testa del suo attuale cliente.

L’uomo, il francese che aveva supervisionato la tortura di Nathan, scivolò giù dalla sedia e si accasciò faccia a terra.
Pedro si mosse per ricacciarlo in piedi di forza ma Rafael gli fece cenno di aspettare: “Dobbiamo avere pazienza. Troppo tempo sotto torchio e non parlerà mai più. Diamogli il tempo di riprendersi.”
“Rafi, non abbiamo tempo!”
“Lo so, ma è la nostra unica possibilità di capirci qualcosa. Se muore, potremmo non venirne mai a capo, e il ragazzo avrebbe sofferto per niente.”
Quell’argomentazione fu sufficiente a convincere Pedro che, pur recalcitrante, si mise tranquillo in un angolo a preparare un pasto spartano per tutti. Ernesto, invece, si lasciò cadere sulla poltrona imbottita, la stessa che aveva accolto Nathan la notte precedente, e, incrociate le mani sulla pancia, allungò le gambe, mettendosi a dormire.
Rafael sedette dirimpetto a Pedro, ed iniziò a controllare la corrispondenza che aveva trovato nei cassetti dei sequestratori, sperando di trovare un qualche indizio importante.

Si mise a parlare con il fratello, come faceva di solito quando aveva bisogno di riordinare i pensieri: “A questo punto, ormai mi sembra chiaro che questi signori siano l’ultimo anello di una lunga catena che ha le sue radici ben più in alto.”
“Tutti spagnoli?” chiese Pedro addentando una fetta di pane e formaggio.
Rafael annuì: “La maggior parte piccoli criminali o lavoratori a giornata a cui era stata messa in mano un’arma ed una moneta d’oro senza che sapessero cosa stessero difendendo e da chi, tranne due francesi: uno lo ha ucciso Hancock per liberare Bertrand, l’altro è questo qui.”
“Sicuramente un pesce piccolo.”
“Lo penso anch’io. Ma non è comunque l’ultimo arrivato: hai visto come si comporta.”
“Ernesto riuscirà a farlo parlare.” lo rassicurò il fratello, tendendogli la sua porzione di pane imburrato e prosciutto.
Rafael l’accettò scuotendo la testa: “Lo so, ma ci sta mettendo troppo. Di solito ci vuole molto meno.”
“Certi agenti sono addestrati per sopportare la tortura, hermano, e tu lo sai.”
“Proprio questo mi preoccupa: se questo qui è così ben addestrato vuol dire che non è qui per caso e, di sicuro, non è solo. E non sto parlando di quello che abbiamo seppellito stamattina: ci dev’essere per forza qualcun altro in giro.”
“Non mi piace dire ‘te l’avevo detto ’, ma te l’ho appena detto: il tempo stringe. Se c’è un altro di questi brutti ceffi nei paraggi, gli inglesi sono ancora in pericolo. Non li lasceranno tornare indietro. Non senza aver tentato tutto il possibile. Ogni minuto che passa è un punto a favore di Napoleone.” sputò per terra, come se il solo pronunciare quel nome gli avesse lasciato un sapore amaro in bocca.
Rafael sospirò: “Uomo morto non racconta storie, Pablo. Non abbiamo scelta: dobbiamo aspettare che si riprenda per farlo parlare.”
“E parlerà, ve lo assicuro.” intervenne Ernesto, senza disturbarsi ad aprire gli occhi “Che lo voglia o no.”
 


Era una tranquilla giornata d’autunno.
Il sole già alto aveva portato con sé gli ultimi strascichi d’estate, diffondendo un gradevole calore. I gabbiani si rincorrevano nel cielo terso, e le loro grida si mescolavano con lo scrosciare delle onde che s’infrangevano sulla scogliera in cima alla quale era arroccato il monastero di Sant’Agostino.
Le sue spesse mura risuonavano dei canti dei monaci che cantavano la Messa. Le loro voci sembravano vibrare a tono con i suoni del vento e del mare, come se avessero avuto il potere di rendere il Creato in completa armonia.

Nella cella che era appartenuta ad un nobile abate tanti secoli prima, i suoni della natura e i canti giungevano attutiti, come se anch’essi si facessero riguardo per la vita fragile che le sue pareti custodivano.
Un fuoco vivace crepitava nel camino e costituiva la principale fonte di luce nella stanza.
Per non disturbare il sonno del ferito, gli scuri della finestra erano stati chiusi quasi del tutto, e solo qualche timido raggio di sole raggiungeva il pavimento.
Nathan Bertrand giaceva immobile, come abbandonato. Il suo magro torace s’alzava e si abbassava sotto le coperte con movimenti lenti e irregolari, ogni respiro accompagnato da un rantolo profondo, come se avesse avuto qualcosa incastrato nel petto che non gli permetteva di respirare bene.
Era molto pallido, e le gocce di sudore che gl’imperlavano il viso rilucevano alla luce della fiamma. Gli avevano bendato le mani con delle garze immacolate, e le macchie arrossate dove gli erano state strappate le unghie sembravano più scure di quanto non fossero.

Su una sedia di legno al suo capezzale, Conrad lo fissava con l’intensità di un falco.
La luce del sole non arrivava che ai piedi del letto ed il suo volto era nascosto nella penombra, appena sfiorato dal calore delle fiamme.
Sedeva incurvato in avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia, mento e labbra premuti contro le mani intrecciate, del tutto immobile.
Era in quella posizione ormai da ore, non sentiva nemmeno più il fastidio dei muscoli che si erano irrigiditi da tempo. Era abituato a rimanere immobile per tanto tempo, appostato come un cobra in attesa di un bersaglio inconsapevole o nascosto in un angolo buio con l’orecchio teso ad ascoltare conversazioni a cui non avrebbe dovuto assistere.
In quel momento tutti i suoi sensi erano all’erta, pronti a captare ogni minimo cambiamento nella figura che giaceva di fronte a lui. Il suo giovane agente, in quelle condizioni, era più che mai vulnerabile, del tutto indifeso. Non si sarebbe mai perdonato se gli avessero fatto altro male.

All’improvviso, Nathan sussultò. Il suo respiro, già affaticato, si fece ancor più superficiale. Era troppo debole per muoversi, e il laudano che gli avevano somministrato per alleviare il dolore delle sue numerose ferite gli aveva lasciato una pesantezza innaturale nelle membra.
Socchiuse gli occhi, e Conrad vide che erano velati dalla droga e dallo sfinimento: non era cosciente di dove fosse. Si chinò su di lui, cercando di non intimorirlo.
Prima che potesse fare nulla, un sussurro tremante uscì dalle labbra screpolate del giovane: “Cosa succede?” le sue iridi saettarono sotto le palpebre livide, sembrava terrorizzato “Cosa volete farmi?”
Avvezzo a scene simili, Conrad gli sistemò addosso le coperte, gli passò piano una mano su un braccio e gli parlò con un tono calmo, rassicurante: “Non preoccuparti. Sei qui con me. Sei al sicuro. Va tutto bene.”
Continuò a ripetere quelle parole, come una litania, mentre tergeva con delicatezza il sudore dalla fronte del ferito, tamponandolo con la pezzuola umida. Per tutto il tempo gli tenne l’altra mano sul braccio, senza interrompere il contatto.
A poco a poco, Nathan si rilassò di nuovo, abbandonandosi sul cuscino.
“Bravo ragazzo. Va tutto bene, vedi? Riposa, ora. Riposa tranquillo.”
Conrad non tornò a sedersi finché il respiro del giovane non gli fece capire che si era riaddormentato, ma, anche allora, continuò a tenere una mano sulla sua.
 


“Sto cominciando a perdere la pazienza.” sibilò Rafael, chinandosi sul prigioniero seduto di fronte a lui. Nel farlo, ebbe cura di pesarsi sulle mani del suddetto, che Ernesto aveva già conciato a dovere: gli aveva rotto quattro dita a mani nude, arrotolandole e schiacciandole nel palmo della mano. Una piccola parte dell’escalation di tormenti a cui lo avevano sottoposto.
Il francese, che avevano inteso chiamarsi Pierre, si ritrasse con un suono acuto, una specie di squittio: ”Per favore.” singhiozzò “Ne va della mia vita.”
“Non ti sei fatto scrupoli con il ragazzo.” lo interruppe Pedro nella sua lingua, bloccandogli le spalle contro lo schienale della sedia a cui lo avevano legato “Anche se scommetto che lui non urlava come te.”
Il francese non rispose, chinò solo il capo per la cocente umiliazione.
Rafael si piegò sotto di lui, costringendolo a guardarlo negli occhi: “Come ti ho detto, sto perdendo la pazienza. E sono sicuro che nemmeno a te piace stare qui con noi. Vero o no?”
Tremando, il francese scosse il capo.
“Allora ti dirò come andrà a finire: tu ci dirai quello che vogliamo sapere. Puoi scegliere se farlo e sopravvivere o dircelo in punto di morte. Per noi non cambia.”

“Lascia perdere.” Brontolò Ernesto, mentre affilava un coltello, accertandosi di essere nel campo visivo del prigioniero “Questo qui è come il Bragadin: vuole fare il martire.”
“Chi?” balbettò il francese, sconvolto.
“Marcantonio Bragadin. Un generale veneziano che fu catturato dai Turchi a Famagosta.” l’informò Rafael, fingendo indifferenza “Prima gli tagliarono il naso” e torse quello del suo prigioniero fino a romperlo “poi le orecchie” Pedro gli tirò le orecchie tanto forte da fargli male “poi lo lasciarono a morire di stenti in una gabbia. Siccome non voleva convertirsi, gli diedero cento frustate e lo scuoiarono vivo, partendo dalla testa. Nostra nonna ci raccontava sempre la sua storia, per farci paura. Da allora, Ernesto è rimasto curioso di sapere cosa succede quando uno viene scorticato. Che dici, lo accontentiamo?”
Di nuovo, il francese squittì, cercando di farsi più piccolo.
“Non preoccuparti.” Lo rabbonì Pedro, un tono rassicurante, massaggiandogli le spalle “Con te non inizieremo mica dalla faccia. Partiremo dalle dita dei piedi, che tanto quelle non ti servono: così potrai dirci quando fermarci.”

Ad un suo cenno, Ernesto si piegò a sfilare uno stivale del prigioniero, che lo interruppe con un grido, nonostante il sangue che gli colava dal naso rotto gli finisse in bocca: “Voi non capite! Lui non me la farà passare liscia! Si rifarà sulla mia famiglia!”
“Dovevi pensarci prima di intraprendere questa vitaccia.” Lo sfotté Pedro, impietoso.
“Comunque possiamo proteggerti, se tu ci vieni incontro.” intervenne Rafael, più tranquillo.
“Voi non capite!” gridò di nuovo Pierre “Lui sa sempre tutto! Ha appoggi dappertutto, arriva dappertutto! Mi troverà anche in capo al mondo!”
“Ma chi è questo lui?!” Gli urlò in faccia Rafael, per scompensarlo del tutto.
“Talleyrand!” Rispose il francese, ormai scosso dai singhiozzi.
Incredulo, lo spagnolo fece un passo indietro: il gran ciambellano di Napoleone era la stessa persona che si era messa in contatto con loro per informare gli agenti inglesi dei piani futuri del generale corso sull’Europa. A quella rivelazione, i catalani ammutolirono, sgomenti.
Non ebbero tuttavia bisogno di fare altre domande: il francese era ormai un fiume in piena: “Qualche giorno dopo aver allertato voi, Monsieur è riuscito a far accettare al Papa di benedire l’Incoronazione a Imperatore di Bonaparte e ha rivalutato le sue speranze di conquistare la Spagna. Noi eravamo a Roma come agenti dormienti. Ci ha convocato di persona per ordinarci di intercettare gli agenti inglesi prima che fossero messi al corrente della situazione. Siamo arrivati tardi e, come sapete, non abbiamo avuto modo di recuperare le informazioni. Questo è quanto.”
Chinò il capo, continuando a piangere in silenzio, mentre i catalani cercavano di digerire quel macigno.
 


Nella penombra della cella, Nathan aveva ripreso ad agitarsi sotto le coperte.
L’effetto del laudano stava scemando e, insieme al dolore, gli stava salendo la febbre. In quelle condizioni, gli era impossibile riposare: il suo respiro era rapido e superficiale, il volto pallido e sudato contratto in una smorfia di sofferenza mentre le mani artigliavano le coperte all’altezza del petto.
Seduto sul letto accanto a lui, Conrad guardava di continuo l’orologio sul comodino, in spasmodica attesa del momento di somministrargli un’altra dose del farmaco, che però sembrava non arrivare mai. Poiché anche il minimo contatto fisico sembrava causargli dolore, l’agente non poteva far altro che passargli la pezzuola umida sul viso e parlargli per cercare di distrarlo.
“Ti ricordi il tuo primo incarico? Avevamo portato quel tale in una bettola sulla riva sud del Tamigi. Sapevamo che era un agente in incognito ma non ne voleva sapere di sbottonarsi. Lo hai fatto ubriacare tanto che alla fine si era quasi spogliato completamente e cantava La Marsigliese in piedi sul tavolo. La vera sfida è stata portarlo via da lì prima che lo linciassero.”

Un angolo della bocca di Nathan si tese in una specie di sorriso, che però fu subito seguito da una brusca inalazione e da un gemito di dolore.
“Tranquillo.” Cercò di rassicurarlo Conrad, premendogli lo straccio sulla fronte sudata “Respira. Respira piano. Va tutto bene.”
Gli prese un polso tra le dita, contando a mente i battiti, mentre continuava a cercare di rassicurarlo. Continuò così finché il meccanismo nell’orologio scattò e la sveglia l’avvertì che era il momento di somministrargli la medicina.
Versò le gocce necessarie nel bicchiere e allungò il farmaco con l’acqua. Passò una mano dietro la nuca di Nathan: “Cerca di bere questo, allevierà il dolore.”
Obbediente, il giovane mandò giù qualche sorso, poi, però, scosse il capo per indicare che non ce la faceva più.
A malincuore, Conrad dovette insistere: “Tutto.” Lo incoraggiò, premendogli il bordo del bicchiere sulle labbra “Devi berlo tutto. Coraggio, fa’ un piccolo sforzo. Poi potrai riposare.”
Guidato dalle sue parole, Nathan finì la medicina, anche se con grande fatica.

Il laudano fece effetto in pochi minuti, durante i quali Conrad continuò a carezzare piano i capelli e la fronte del ferito, per aiutarlo a prendere sonno.
Quando si fu riaddormentato, gli aggiustò con cura le coperte sul petto, attardandosi a lisciare delle pieghe inesistenti, e gli sistemò le mani sul copriletto, perché fosse più comodo. Intinse la pezzuola nella bacinella d’acqua tiepida, la strizzò e gliela stese su fronte ed occhi, per lenire il calore della febbre che saliva inesorabile.
Gli sistemò i cuscini sotto la testa per aiutarlo a respirare meglio e, alzandosi, si assicurò che le coperte fossero in ordine e, di nuovo, s’attardò a sistemare delle pieghe inesistenti.
Si premurò di mettere altra legna sul fuoco e ravvivarlo prima di tornare alla sua veglia silenziosa.

Tutta la premura dell’agente Hancock non gli garantiva il dono dell’onniscienza.
Non poteva in alcun modo sapere che, proprio in quel momento, una figura incappucciata era scivolata da sotto il carro di un contadino entrato al monastero per far provvista di fieno.
Il suo viaggio era stato lungo e difficile, ma pareva non averne risentito affatto. Sgusciò in silenzio, senza farsi notare, nell’ombra del chiostro.
Teneva il cappuccio calato sul visto, sicché sarebbe stato impossibile riconoscerlo e, sulla tonaca da monaco agostiniano, portava il simbolo di chi sceglieva di fare il voto di silenzio.
Certo che nessuno avrebbe osato rivolgergli la parola, avrebbe potuto agire indisturbato.


 
  
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