Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: MadLucy    23/04/2022    2 recensioni
[Albus/Gellert | summer of 1899 | angst | Gellert!centric]
«Se solo i fallimenti che siamo combaciassero come le nostre dita.»
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Soltanto dopo aver disfatto la valigia, dopo Godric’s Hollow, Gellert si era reso conto che Albus aveva scambiato alcuni dei loro libri. Non scambiato dei titoli per altri, ma gli stessi identici titoli. Così, quando non voleva pensare a lui, si ritrovava i suoi appunti che si arrampicavano sui margini, costeggiando i paragrafi, torturando le parole stampate. Sembrava un antipatico maleficio. Gellert non riusciva a credere fossero stati incidenti. Albus doveva sempre rendere qualsiasi cosa incrociasse la sua traiettoria terribilmente propria. Di punto in bianco si ritrovava i suoi pensieri in testa; era ironico che arrivassero a flusso proprio quando non li voleva più, ma sensato, una litania malevola e invasiva. Per zittirla, si circondava di alcol e chiasso, entrambe cose che Albus odiava. Aveva imparato ad amare le cose che lui odiava, come forma di ribellione, come Albus aveva amato vincere, dimostrare di avere ragione, Incantarlo per dimostrargli che gli ubriachi sono vulnerabili, e se voleva combinare qualcosa nella vita non avrebbe mai dovuto farsi sorprendere vulnerabile. 

L’Albus di diciassette anni, ormai, viveva solo nella sua memoria, come uno spiritello infestante, e da nessun’altra parte, perché Ariana era morta e Aberforth era peggio che morto. Quell’Albus era suo soprattutto perché era sgradevole e a nessun altro piaceva. Era incattivito, competitivo e intransigente. Sembrava più piccolo della sua età, con capelli selvaggi e asociali, che ostentavano diversità e misticismo claustrale. Quando erano stati presentati, i suoi occhi chiari come polle lo avevano sezionato, incasellato. Dava l’impressione di sentirsi in una posizione privilegiata per giudicare tutto, e così lo aveva giudicato: attraente in modo banale e borioso in modo volgare.

«Tua zia dice che sei bravo.» 

Lo aveva Disarmato. Gellert non ricordava di esserlo mai stato, dopo il primo anno a Durmstrang. 

«Non sembri bravo, però.»

«Facciamo una sfida vera.»

Albus gli aveva mostrato un sorriso di divino distacco. In quel momento Gellert si era ripromesso che l’avrebbe masticato e risputato a proprio piacimento, che l’avrebbe posseduto tanto quanto Albus l’aveva appena fatto suo. 

Per impressionarlo aveva dovuto spacciare un paio di incantesimi forti per cose da nulla, ma ci era riuscito, e finalmente Albus era sceso dalla cattedra per aprirgli le porte della propria carbonaia interiore. In sostanza, covava rancore per i residui della propria famiglia. «Loro sono persone qualunque» spiegava, accorato, «mentre io no. Questo non è giusto. È come se sentissi di non porter mai davvero ottenere qualcosa, perché ci sarà sempre la loro mediocrità che ricorda da dove derivo, a cosa devo tornare.» E come lampeggiavano di indignazione, i suoi occhi di cielo, mentre lo diceva. «Mia sorella non sarà mai autosufficiente, Gellert. Per cosa vive davvero? Vive, e questo è un dato di fatto, ma vivere non basta.»

Le sue parole avevano un veleno che lo faceva rabbrividire, di piacere e spavento. Di una cosa Gellert era sicuro. Ariana era un’innocente. Albus no. Albus era consapevole e pronto ad affermare la propria esistenza. Era qualcosa che non si conciliava con l’innocenza. 

Scriveva, scriveva lettere in continuazione. Riempiva convulsamente e ossessivamente fogli e fogli di idee, e meno di idee, immagini, e descrizioni dettagliate di come quelle immagini lo facevano sentire. Era abituato ad ascoltarsi con un’accuratezza snervante. Sapeva sempre cosa pensava, e sapeva illustrarlo come fosse già sistematizzato nella realtà. Mi chiedo come ci definiranno. Siamo una coppia strana, non siamo fratelli, non siamo compagni di scuola, di fatto non siamo niente. Le persone hanno bisogno di un nome con cui chiamare le cose, e se noi siamo qualcosa insieme, ci serve un nome. Cosa siamo? Mi piaci, Gellert, e a me non piacciono molte persone. 

Gellert a volte se ne andava a dormire senza rispondere, perché era troppo tardi o perché non aveva i pensieri fastidiosamente tersi quanto i suoi. Il mattino dopo però Albus non aveva voglia di parlare. Le parole correvano sulla carta, nella solitudine, nei saloni della mente, e poi rimpicciolivano, si seccavano. «Non mi ricordo più cosa volevo dirti.» Deludere Albus era facile, e a volte Gellert lo faceva di proposito, per ferirgli quel cuore assurdo. A momenti Albus si sentiva vittima del mondo, in altri voleva esserne il volenteroso martire. Le sue posizioni morali sembravano dettate dall’umore. «Dobbiamo salvare i Babbani da se stessi.» Un’ora più tardi si parlava di torture. Salvezza e dolore si alternavano nei suoi occhi senza scurirli. A volte sembrava un mostro, un istante più tardi optava per la redenzione di parole più tenui. Dei due si considerava quello moderato, però poi, quando vedeva suo fratello, lo guardava in un modo che faceva venire a Gellert la pelle d’oca. I suoi sentimenti erano completamente scompensati. Forse l’instabilità di sua sorella l’aveva cambiato, aveva spostato qualcosa che il resto delle persone hanno saldo. 

Quando ce ne andremo da qui, Gellert, dove andremo? Sono felice di non aver fatto quel viaggio intorno al mondo, sono contento di vedere quei pezzi di mondo con te. Adesso anche la morte di mia madre ha un senso. Incideva il simbolo dei Doni in calce, nero e profondo come un solco, una ferita. Era drammatico e un po’ autodistruttivo in quell’ebbrezza estiva, ma il cuore instabile era connesso ad una mente performante che spazzava via dimensioni di senso e ne erigeva altre, un’intelligenza così brillante da sembrare aliena e posticcia all’insieme organico delle sue emozioni, invece, oscuramente umane. Gellert sapeva che doveva prenderselo o ucciderlo, perché un mago così nella propria stessa generazione o gli apparteneva o lo eclissava. Scelse di prenderselo. 

In un certo senso, sentiva di doverlo difendere da lui stesso. Albus sapeva farsi del male. Il trattamento ascetico che pretendeva di riservare alla propria anima, e sempre quell’esigenza di espiazione, quell’oscurantista senso di colpa. Gellert non sapeva quale parte di Albus lo riguardava, se quella ferita o quella che feriva.

«Mi capita di volerli ucciderli tutti e due. I miei fratelli.»

Gellert si era accollato il peso di quell’ammissione inaccettabile e glie l’aveva tolto. Aveva accolto il suo male come un confessore, gli aveva fatto spazio in camera. Lo aveva accarezzato come per calmare un animale atterrito. Lo aveva reso leggero, confuso. Gli aveva sistemato una ciocca dietro l’orecchio, mentre il respiro assumeva consistenza tra loro come condensa.

«Non ci riesci, vero?» Aveva provato a leggergli la mente, e si era ritrovato lo schermo del suo sorriso serafico, suadente. «Non ti fidi di me, Gellert?»

Gli aveva infilato la lingua in gola. Si era aspettato una resistenza che non c’era stata. Albus sapeva diventare di colpo remissivo, accomodante. Si era lasciato prendere sul pavimento senza quasi muoversi. Mentre lo scopava, Gellert aveva cercato di leggerlo di nuovo e aveva fallito. Avrebbe giurato di averlo sentito ridere, senza divertimento, in quel modo meschino che contrassegnava la sua patologia emotiva. 

Il volume delle lettere cresceva, aumentava esponenzialmente, inchiostro schizzato, carta che frusciava nel buio, piume consumate, lacrime di cera molle. Gellert. Gellert. Gellert. Gellert si addormentava a metà delle sue lettere, il volto affondato nei fogli, e sognava la continuazione. Albus proseguiva a parlare incessante nel suo sonno, ad annodarlo di parole. Tenerlo fuori era impossibile. Sgusciare la sua mente, aprirla, altrettanto impossibile. 

«Cosa vai cercando nei miei pensieri?»

«Quello che tu mi stai nascondendo.»

C’erano anche bei momenti. Ma i bei momenti erano così stupidi. 

Per Gellert, almeno. Non aveva mai amato in modo tanto stupido qualcuno di tanto intelligente. Trascorrevano le ore sdraiati in un prato, a lasciarsi stordire dal sole e baciarsi disciolti in un tempo estivo, spanto, interminabile, più luce che tempo. Quando Gellert lo guardava con i suoi capelli così lunghi e i polsi così sottili e pensava: le cose terribili le farò io per te. Luciderò il tuo cervello come un diamante e ti impedirò di danneggiarlo con quelle emozioni pericolose. Lo pettinava, persino. 

Albus prendeva tutto sul serio. La sua felicità era sempre un affare complicato, impegnativo. Gli corrugava la fronte. 

«A cosa pensi, Albus? A me?»

«Non penso mai solo a una cosa.» Sic.

In seguito avevano contaminato tutto, anche le cose belle; era l’ultima cosa che avevano fatto insieme. 

Gellert cercava di prendergli il mento nel palmo, di fermarlo in un punto, di trattenerlo, di afferrargli il viso in una presa di orientamento. Tu sei qui, o sei qui con me. Albus era elusivo. Non riottoso, ma vigile nella sua presa, senza ammorbidirsi, senza affidarsi. Rispondeva al suo sguardo, senza perdere l’equilibrio. Rispondeva ai baci. Voleva le redini. Voleva tutto senza compromessi. Era sempre una gara. 

«Lo creeresti mai un Horcrux?»

Gellert sorrise, sardonico. «Il mio Horcrux sei tu.»

Facevano l’amore più in pace di quando invece dovevano usare parole, schiacciando margherite sotto di loro o accanto alle tazze di tè e miele e ai libri aperti, in disordine, senza guardare che ora fosse, senza ricordarsi di respirare. 

Albus fissava il soffitto, riprendeva fiato profondamente. «Hai mai lanciato una Maledizione Senza Perdono?»

Gellert rimase enigmatico, «forse.»

«La lanceresti a me?»

«A te, no.»

«Nemmeno se ti insultassi?»

«No.»

«Codardo.»

Voleva solo fare un gesto per prenderlo in giro, ma appena toccò la bacchetta fu respinto dal suo controincantesimo. 

Gellert scosse la testa. «Come faccio ad amare uno così?»

Albus guardava di nuovo il tutto e il niente. «Non mi ami, infatti. Ma ti sono utile.»

Gellert si sentiva rimestare dentro un astio che odiava provare. Cosa vuoi da me? Cosa sei tu, di così specifico, che io dovrei dirti se amo oppure no? Ci sono delle cose che amo, altre che non capisco e non voglio sopportare, e tu nemmeno, per questo ti riscrivi come se tu fossi una tua stessa lettera. Era faticoso stare dietro alla sua percezione di sé, vittima, carnefice, governatore del mondo, fratello indegno. Gellert si chiedeva quando Albus avrebbe iniziato a disprezzare anche lui. 

«Facciamo un patto di sangue.» Non gli disse che lo temeva. Aveva paura delle sue prese di iniziativa, del suo cuore inconsulto, del suo mento che non restava immobile tra le dita. Della sua magia, forse più forte. Forse no, o magari invece sì.

Come frutto dei tagli sui palmi, un gioiello e una catena d’argento avvolta alle braccia. Albus lo osservava con meraviglia. Non assomigliava al loro rapporto. Aveva gli occhi lucidi. Se solo i fallimenti che siamo combaciassero come le nostre dita, era il pensiero che Gellert gli attribuì. Era un incastro morbido, naturale, senza dolore, carne riconciliata e quieta. «Cosa succederebbe al trasgressore?»

«Un traditore merita una morte dolorosa», e Gellert non si fidava della sua mente intelligente e bugiarda, ermeticamente chiusa. «Sempre se è eseguito correttamente. Anche i tuoi incantesimi a volte falliscono.»

Albus sembrava esausto. «È un nostro incantesimo. Non fallirà mai.» Era la cosa più romantica che avesse mai detto. Non era rimasto vero nemmeno questo.

I litigi diventavano sempre di più. 

«Devi rispettare il fatto che io voglia starti accanto senza darti il controllo.»

Gellert dava calci alle cose, e Albus naturalmente disprezzava questo con lo sguardo. «Tu mi vuoi controllare. Tu mi vuoi abbandonare.»

«E tu temi di essere abbandonato da un complice, non da un amante.» La sua voce si era spezzata su quell’ultima parola. Quindi sei un innamorato, Silente, non uno stratega, non uno stronzo che mi vuole sotto scacco?

«Questo non lo puoi sapere, perché neanche tu leggi la mia, di mente.»

«Me la farai leggere?»

«Hai già avuto da me tutte le prove di fiducia che potevo darti.»

«Il tuo sangue, Gellert, e la tua bacchetta legata; la tua fiducia, mai.» Parlava, parlava, e poi si zittiva, sconfitto dalle proprie stesse parole. Gellert gli aveva incollato in bocca un bacio d’accatto, bisognoso e coercitivo. Albus l’aveva scacciato, carico di pietà per entrambi, già gravato dal proprio destino sacrificale.  

Poi tutto era successo. Gellert non si era mai tolto Albus di dosso. Le sue lettere gli erano rimaste ovunque. Nella valigia, nell’interno delle palpebre, nel ritmo dei sogni, nel silenzio interno al chiasso. La sua grafia alata e ingenua, i suoi significati sferzanti, il suo delirio di onnipotenza. La sua adolescenza d’ombra e tè al miele. Il suo patto di sangue lo strangolava, perché sognava di ucciderlo, di porre fine al suo ascendente –e non erano incubi. Poi si svegliava, e realizzava se lui muore, nessuno al mondo mi capirà più, perderò il codice che mi interpreta, diventerò un alfabeto muto. Così scoprì che era la sua paura più grande –la conseguenza di un atto che desiderava nelle viscere.

Albus gli aveva lasciato in dote tutta la propria oscurità. Era un pezzo di lui che solo Gellert possedeva ancora. Si teneva stretto il suo male come un amuleto, come un custode. Era diventato un pozzo profondo per non lasciarlo uscire.

Con gli anni, scoprì che Albus si era barricato a Hogwarts, «una scuola di deboli, di maghi impauriti da loro stessi.» Lo aveva trasformato nel proprio trespolo, nel proprio sepolcro. Aveva chiuso il mondo fuori. 

Riusciva quasi a sentire la risposta. «Le cose deboli possono essere belle, Gellert. Come lo era l’equilibrio tra noi, prima che decidessi di calpestarlo con la forza.»

«Serve la forza per proteggere la bellezza, Albus. La forza viene prima. Capisci, adesso? Esigevo controllo, lo esigevo perché temevo che facessi ciò che hai fatto… che mi lasciassi solo.»

Albus avrebbe provato tenerezza per la sua sopravvissuta capacità di essere vulnerabile, quella che lui stesso aveva ferito, allora. «Ho provato a proteggere tutti, tranne te. Mi sembravi così forte, invincibile… Se ti avessi saputo amare meglio, sarei riuscito a fermarti, quel giorno. Ci saremmo fermati insieme.»

Gellert pensò al prato. Ora pensò al prato come qualcosa che potesse durare per sempre. 

Era un pensiero buono ma che faceva ubriacare, come un profumo troppo forte. 

«Non credo al tuo rimorso, Albus. Credo al feticismo per il tuo orgoglio, la tua vanità, la tua ricerca di approvazione.»

Un piccolo sorriso. «Però credevi al mio cuore.»

«Oh, già, il tuo cuore innamorato, il tuo cuore addolorato… e, alla fine della storia, così incredibilmente inutile.»

A questo, nemmeno il vero Albus avrebbe saputo replicare. 

Nei suoi sogni, Gellert gli ripeteva sempre le stesse cose. Capisci adesso? Albus, capisci? Capisci? Vieni con me. Io non sono come quegli ingrati che vogliono un guru, un salvatore, un idolo immaginario. Io posso perdonarti. Io posso concederti qualsiasi cosa, se sei con me. Insieme siamo migliori di tutti loro. Insieme siamo felici. Albus. Perché non l’hai capito?

Il diciassettenne Albus dei suoi sogni sorrideva cattivo, imbattuto, con la mente inviolabile e il sorriso condiscendente, sorrideva perduto. 

 

 

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: MadLucy