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Autore: lainil    24/04/2022    0 recensioni
[Spoiler Tenjiku e Bonten arc.]
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Gli Haitani avevano tanti privilegi all’interno della Bonten.
Ran aveva Rindou e Rindou aveva Ran.
Kokonoi non aveva nessuno.
-
“Non avrei dovuto.”
“Perché?”
“Perché a te piace Inui.”
Il sorriso di Kokonoi era morto e la mano si era fermata, ma senza staccarla dal viso di Ran:
“A me Inui non piace più.
Ho conosciuto Izana e Kakucho, sono stato ammaliato dal loro rapporto, ho ritrovato in loro noi due e ho detto che, forse, un’ennesima possibilità avrei potuta dargliela a me a Inui.
Poi Izana è morto per Kakucho e ho pensato che non volevo finire così, che non dovevamo finire così.
E così l’ho lasciato andare."
-
[Ran x Koko con accenni Sanzu x Rindou]
Genere: Hurt/Comfort, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Haitani Ran, Hajime Kokonoi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Ciao :)
Ormai ho preso il controllo di questa sezione di fanfiction e a breve EFP mi bannerà per tutte le cose che pubblico, ma, purtroppo o per fortuna, sono in periodo in cui scrivo davvero molto e non mi va di tenere questi piccoli lavori nelle mie cartelle del pc a fare la muffa.
Quindi, mi dispiace, ma vi dovrete beccare anche questa piccola One Shot sulla Ran x Koko.
Ship che considero estremamente piacevole e ben equilibrata, con Kokonoi, da una parte, più piccolo e maturo, e Ran, dall'altra, più grande, ma caotico e spesso irresponsabile.
Probabilmente sarebbe dovuta uscire con un finale più angst, invece, per una volta, ho deciso di essere gentile con me stessa e andarci più piano soprattutto con un'anima distrutta come quella di Koko.
Buona lettura!  


Titolo: Like the stars miss the Sun in the morning sky;
Genere: hurt/comfort, malinconico, triste;
Rating: giallo;
Personaggi: Hajime Kokonoi, Ran Haitani
Parole: 6322.
Avvisi: spoiler manga Tenjiku e Bonten arc.

 

Gli Haitani avevano tanti privilegi all’interno della Bonten.

Non si parlava solo del ruolo che ricoprivano, dell’autorità che avevano o del potere che possedevano.

Era un qualcosa di umano che loro avevano e nessun altro, lì dentro, possedeva.

 

Ed era avere loro stessi.

Ran aveva Rindou e Rindou aveva Ran.

 

Da sempre e per sempre era e sarebbe stato così. Ran aveva suo fratello minore sempre al suo fianco e così anche Rindou aveva il maggiore a coprirgli le spalle in ogni contesto.

Non capitava mai che fossero da soli, né a combattere né all’interno del covo della Bonten che, per due orfani senza genitori e senza un luogo dove tornare come loro, era ormai diventata una casa.

È proprio quello a cui pensava Ran, accavallando i piedi sul tavolino davanti alla televisione, mentre Rindou gli stava pettinando i capelli, dopo averli liberati dalle trecce tenute tutto il giorno:

“Quando li lavi?”

“Domani.” Aveva ragionato Ran, pensando che quella sera non aveva proprio voglia di mettersi sotto la doccia e lavarseli: “Me li asciugherai tu, vero?”

Aveva prenotato subito Rindou che aveva alzato gli occhi al cielo, ma non aveva risposto, dando la conferma a Ran che ci avrebbero pensato lui a rispettare quell’abitudine che avevano sviluppato da un po’ di tempo.

Ran odiava lavarsi i capelli.

Gli piaceva tenerli puliti, ordinati e ben curati, ma non aveva voglia di starci dietro.

Quindi, dopo essere sceso a molti compromessi con il fratello, erano giunti alla conclusione che Ran se ne sarebbe preso cura, lavandoli e mettendoci durante e dopo i prodotti adatti, e poi Rindou glieli avrebbe pettinati (abitudine che aveva da sempre, in realtà) e gli avrebbe passato sopra il phon con calma, finché non sarebbero diventati morbidi, asciutti e lisci tra le dita che ci passava in mezzo per assicurarsi non ci fossero nodi:

“Pensi che Draken manchi mai a Mikey?”

“Chi è Draken?”

Ran aveva inarcato le sopracciglia, guardando divertito Rindou e non credendo alle sue orecchie:

“Sei serio?”

Il fratello aveva annuito, ricambiando il suo sguardo con uno confuso, non ricollegando a nessuno quel nome:

“Il ragazzo che stava sempre con lui, Ken Ryuguji, aveva sempre la treccina e un tatuaggio a lato della testa. Ti ricordi?”

“Forse.

Perché dovrebbe mai mancargli? Se non sono più amici non ha neanche senso che gli manchi.“

“Io non ti mancherei se scomparissi da un giorno all’altro dopo un nostro litigio? Il giorno prima siamo lì a combattere insieme e il giorno dopo siamo separati da chilometri, sempre che la causa dell’allontanamento non sia la mia mor-Ahia, piano!”

Si era lamentato, tenendosi i capelli quando Rindou li aveva pettinati con violenza, tirandoglieli:

“Non morirai.”

“No, che non morirò, fai piano con quel pettine.”

“Non dirle più queste cose Ran.” Rindou lo aveva guardato serio e Ran si era dispiaciuto per quell’espressione: non pensava che scherzare su una cosa del genere potesse dare così fastidio a Rindou: “Quando eravamo piccoli mi avevi detto che non saresti mai morto, te lo ricordi? Al massimo moriremo insieme, lo abbiamo deciso, ma nessuno di noi morirà senza l’altro. Quindi non ipotizzarle neanche certe stronzate.”

Ed era tornato a pettinare i capelli tinti del maggiore, senza più fissarlo, ma con un’espressione molto più triste e spenta.

Ran lo aveva guardato con un sorriso appena accennato, genuino come l’aveva di raro e gli aveva fatto spostare il pettine con la mano per poi abbracciarlo di scatto, facendo bloccare Rindou sul posto, odiando questo genere di affetto:

“Non morirò mai, Rindou, non preoccuparti, non potrei mai lasciare il mio amato fratellino da solo.”

“Levati Ran, seriamente, allontanati che queste cose non sono da te e mi fanno vomitare.” E lo aveva distanziato lui con il gomito, rimettendolo al suo posto: “Mi dai proprio fastidio quando fai queste cose da fratello maggiore noioso e falso.”

“Preferisci che ti dimostro il mio affetto portandoti a massacrare qualcuno?”

Il sorriso di Ran si era tramutato in un ghigno, ricambiato prontamente da Rindou che aveva rilassato quell’espressione infastidita e di rabbia che gli aveva indurito il volto:

”Quando vuoi.”

“Anche adesso?”

“Anche adesso.”

Ed erano pronti sul serio ad alzarsi, cambiarsi, togliendosi le tute e rimettendosi le loro uniformi che ancora giacevano sul bordo del divano, quando il portone principale si era aperto e Kokonoi era entrato nel loro campo visivo:

“Koko!”

Lo aveva salutato Ran, pieno di gioia, sia perché amava infastidirlo chiamandolo in quel modo abbreviato, sia perché, in fondo, gli voleva bene sul serio a quel ragazzo, rimasto solo tanto quanto Mikey, ma che si prendeva cura di loro da sempre, molto più del loro capo:

“Hajime.”

Si era limitato invece Rindou, con un gesto del viso, ricambiato allo stesso modo dall’altro appena arrivato:

“Avete mangiato?”

Entrambi avevano annuito e Kokonoi gli aveva sorriso debolmente, tornando subito serio e togliendosi le scarpe, mettendosene un paio più comodo che preferiva usare nel covo:

“Gli altri?”

“In giro.” Aveva mosso il braccio in aria Ran, per poi tirare le gambe al petto, inclinando il viso e tenendoselo con una mano, guardandolo maliziosamente: “Vuoi sapere in qualcuno di particolare? Guarda che sono geloso se guardi altri uomini.”

“Mi fai venire il voltastomaco ogni volta che apri bocca.” Lo sguardo di Kokonoi lo aveva fulminato. Delle volte, semplicemente, non le sopportava quelle battute e quella sera era proprio una di quelle, infastidito già di suo, non voleva sopportare anche quei due: “Dovreste andare a dormire, domani siete in missione, non dimenticatevelo.”

E si era passato le mani sugli occhi stanchi, per poi sfregarsi il viso e dirigersi verso le stanze.

Gli Haitani lo avevano guardato allontanarsi e poi Ran si era alzato, sottraendosi alle cure di Rindou:

“Vai da lui?”

“Finisci domani di pettinarmeli.”

Gli aveva detto il maggiore, seguendo il ragazzo e la strada che aveva preso, facendo capire a Rindou che, quella sera, non avrebbero dormito nella stessa camera:

“Permesso…”

Ran aveva aperto piano la porta della camera di Kokonoi, lasciata aperta, forse nella speranza che il ragazzo lo seguisse.

L’aveva chiusa immediatamente, lasciando fuori tutta la luce del corridoio e cercando il letto di Kokonoi, aiutandosi con la luce della luna che, debole, filtrava dalla finestra.

Non appena lo aveva trovato, aveva delineato con gli occhi la figura del ragazzo e gli si era steso accanto, facendogli passare un braccio sotto il collo, delicatamente, temendo si fosse già addormentato.

Si era coperto e aveva coperto l’altro, girandosi verso di lui e accarezzandogli, con la mano libera, i capelli bianchi, trovandoli così sottili e meno curati dei suoi, seppur, esteticamente, sembravano molto più belli:

“Ti do fastidio se rimango?”

Kokonoi aveva scosso piano la testa, tenendo gli occhi chiusi e non cambiando espressione, lasciando che Ran gli accarezzasse i capelli e si avvicinasse di più a lui:

“Mi racconti cos’hai?”

Questa volta non aveva risposto, si era solo avvicinato di più a Ran che, capendo, aveva spostato piano la testa, permettendo a Kokonoi di appoggiare la sua nell’incavo del suo collo, nascondendosi dal suo sguardo:

“Va bene.”

Aveva accettato Ran, stringendolo maggiormente a sé e accarezzandogli il viso contratto in un’espressione nervosa e triste.

Si era mosso, baciandogli la guancia e la tempia e poi era tornato a coccolarlo, senza insistere nel voler sapere cosa lo avesse reso così stanco e esausto dopo solo mezza giornata fuori.

Di solito, quando Kokonoi tornava, si metteva sempre alla scrivania o al computer, perché non aveva voglia di andare a letto presto, anche se era già mattina, perché per lui il sonno faceva morire le persone e, quindi, finché non crollava esausto, doveva lavorare.

Quella sera, però, Kokonoi si era arreso alla stanchezza mentale e, seppur sveglio, aveva preferito mettersi a letto.

Ran gli aveva osservato il viso, notando come non si fosse neanche struccato, ricordandosi quanto il ragazzo odiasse dormire truccato e quanto tenesse alla cura della pelle.

Anche lui ogni tanto se la curava, ma non era un’abitudine così seguita, lo annoiava, gli faceva perdere tempo, non aveva voglia né la pazienza. Allo stesso tempo, però, non avrebbe sopportato Kokonoi la mattina dopo con il viso sporco e ulteriormente poco riposato:

“Dove vai?”

Lo aveva trattenuto Kokonoi quando si era alzato, stringendogli la mano attorno alla maglietta larga che indossava e socchiudendo gli occhi per guardarlo, chiedendogli silenziosamente di rimanere con lui:

“Torno subito, devo prenderti una cosa. Mi aspetti cinque minuti?”

Il più piccolo l’aveva fissato e, piano piano, non convinto, gli aveva lasciato il tessuto, permettendogli di allontanarsi seppur temendo, dentro di sé, che Ran l’avrebbe abbandonato lì, da solo.

Invece si era risvegliato poco dopo con il viso di Ran sopra di lui, la piccola luce della lampada sul comodino accesa e la sua testa appoggiata sulle gambe del maggiore.

Gli stava passando uno dei suoi dischetti struccanti su un occhio e, sentendo l’altro più leggero, immaginava avesse già rimosso il trucco da uno:

“Sei sveglio.”

Gli aveva sorriso tranquillamente, mostrandogli quattro prodotti diversi, tenuti miracolosamente nelle mani:

“Quale metti e in che ordine devo farlo?”

Kokonoi gli aveva indicato i due che usava, nell’ordine in cui doveva applicarglieli:

“Poi uso anche la crema…”

“Ah sì, quello lo so!” Ran sembrava emozionato come se non stesse parlando di un semplice prodotto di skin care, prendendola: “Te l’abbiamo regalata io e Rindou al tuo compleanno.”

“Con i miei soldi.”

Gli aveva ricordato con un sorriso e il maggiore aveva riso:

“Con i tuoi soldi.”

“È stato comunque un bel pensiero.”

“Con tutto quello che tu fai per noi, è il minimo.”

Aveva sussurrato e Kokonoi aveva fatto fatica a capire cosa avesse detto, così, comprendendo non volesse essere sentito, era rimasto in silenzio, mentre Ran si metteva del detergente sulle mani, iniziando a massaggiarglielo sulle guance, sul mento, sul naso e sulla fronte, con movimenti lenti e circolari:

“Ho visto Inui.”

“Sì?”

Kokonoi aveva annuito, sospirando:

“Mikey mi ha mandato a fare un controllo per vedere come stessero i membri della Toman.”

“Li hai trovati tutti?”

“Sì. Stanno tutti vivendo le loro vite al meglio, sicuramente Mikey sarà felice di saperlo.

Due hanno aperto un ristorante, uno ha un negozio di animali a fianco ad un piccolo studio di design di un altro ragazzo ancora. Tutti hanno un ruolo sicuro nella società.”

“E Inui?” Aveva chiesto curioso Ran, visto che lo aveva introdotto l’altro: “Inui che fa?”

Kokonoi aveva sospirato ed aveva taciuto per un paio di minuti, lasciando che Ran continuasse con quelle carezze, sentendo il profumo piacevole dell’ultima crema, ricordandosi solo in quel momento di come avesse saltato uno step:

“Mi sono dimenticato che ti metti anche una maschera, merda.”

“Non importa Ran, lascia perdere.”

Gli aveva assicurato, tenendogli la manica, sentendolo muoversi, probabilmente pronto ad andare a recuperarla. Non solo ormai sarebbe stato tardi e avrebbero dovuto rifare tutto da capo, ma a Koko, davvero, non importava quella sera di fare le cose per bene, voleva solo avere Ran vicino e parlargli dei suoi pensieri:

“Va bene anche così per oggi.” Poi aveva riaperto gli occhi, guardandolo di nuovo: “Inui lavora con Draken. Hanno un’officina assieme e li ho visti fumare mentre chiudevano la saracinesca.

Sembravano così felici insieme.”

“E tu non lo sei, immagino.”

“Se Inui è felice. Lo sono anche io.

Penso.”

Ran non aveva detto niente, aveva aspettato che la crema si asciugasse quel minimo per non avere in bocca quel sapore e si era abbassato a baciargli la fronte confortandolo:

“Hai fatto tutto quello che potevi per aiutarlo, lui te ne sarà grato per sempre.”

Lo pensava sul serio, Ran, quello che diceva. Spesso si immedesimava al posto loro, mettendo lui e suo fratello. Ciò che aveva fatto Kokonoi era stato estremamente coraggioso: lasciare indietro la sua persona preferita in assoluto, sapendo che non avrebbe più potuto aiutarla a stare bene, perché convinta di averla messa in mani migliori delle sue.

Anche lui avrebbe fatto lo stesso per Rindou se fosse stato necessario.

Rindou non lo avrebbe mai lasciato e ne aveva avuto la conferma con la Tenjiku e anche con la Bonten in cui ora si trovavano, ma, se ce ne fosse stato il bisogno, per proteggerlo, era pronto a litigarci furiosamente.

E lui con Rindou non litigava mai, lo voleva sempre al suo fianco:

“Ma tu sei davvero felice di questa scelta?”

Gli aveva poi domandato, accarezzandogli i capelli e stirandogli i vestiti, imponendosi di non toccarlo più in viso per non rovinare quel trattamento che, con fatica, aveva dovuto fargli:

“Saperlo al sicuro è l’unica cosa che mi interessa. Sono sempre rimasto al suo fianco perché mi rendeva felice passare del tempo con lui, quindi penso che chiunque stia con lui sarà contento e renderà sereno anche lui.

Quindi immagino di sì?”

“Mhm.”

Ran aveva annuito, guardando fuori dalla finestra e cercando di ipotizzare che potessero essersi ormai fatte le tre del mattino e che, forse, da Rindou potesse anche tornarci per passare la notte con lui, non volendo disturbare ulteriormente Kokonoi, che aveva decisamente bisogno di stare un po’ da solo con i suoi pensieri in merito a Inui:

“Senti se…”

“Ti va di rimanere stanotte?”

Avevano parlato in contemporanea, ma Ran si era bloccato subito, mentre Kokonoi aveva detto tutto, per poi rendersi conto di avergli parlato sopra:

“Dimmi.”

“Nulla. Vuoi che rimanga?”

“Se non hai di meglio da fare.”

Kokonoi si era imbarazzato a doverlo indirettamente ripetere.

Kokonoi si imbarazzava facilmente quando doveva tirare fuori il suo lato più debole e sensibile.

Con Ran si sentiva spesso a suo agio nel farlo, poteva abbassare le barriere che alzava ogni volta, ma era pur sempre uno dei due Haitani di cui si stava parlando; impossibili da imbarazzare, ma facile che loro lo facessero con gli altri. Quindi la preoccupazione che potesse ricevere una frase di scherno in risposta, era bella alta:

“Va bene.” Aveva scrollato le spalle Ran: “Più che non avere niente di meglio, non ho proprio nulla da fare. E mi piace dormire con qualcuno, quindi accetto volentieri.”

E gli aveva offerto il sorriso più bello e sincero che avesse visto, da tempo, sul viso del ragazzo:

“Non dormi con Rindou ogni tanto?”

“Dormivo. Ora che forse è interessato a Sanzu, gli fa strano dormire con me, nonostante lo abbiamo fatto fin da quando siamo piccoli.” Un sospiro sereno aveva lasciato le sue labbra: “Il primo amore gli sta dando alla testa.”

Kokonoi aveva riso leggermente, rimettendosi prima a sedere e poi tornando a sdraiarsi nel suo letto, facendo spazio a Ran che, come quando era arrivato quasi un’ora prima, aveva allungato un braccio per permettergli di sdraiarsi lì e lo aveva stretto a sé quel minimo per evitare di metterlo a disagio:

“Buonanotte?”

Gli aveva quasi domandato, più che augurato, e Koko non aveva risposto, aveva sbattuto un paio di volte le palpebre e poi l’aveva guardato:

“Pensi che Inui abbia capito le mie scelte?”

“Penso che Inui non sia stupido.”

Ran era sincero con quelle parole, riteneva Inui, per quel poco che aveva avuto modo di conoscerlo, un ragazzo forse non esattamente brillante, ma neanche eccessivamente idiota. Capiva le cose che accadevano e, soprattutto, era molto sensibile ai cambiamenti di Kokonoi, capendoli poi e agendo di conseguenza.

Forse all’inizio non ci arrivava subito e necessitava un aiuto e un consiglio, ma poi avrebbe capito.

Così anche per Koko.

Forse all’inizio aveva sofferto il suo allontanamento, non era chiaro perché lo avesse lasciato indietro, per inseguire chissà quale strada, sicuramente sbagliata, ma senza di lui.

Che avesse fatto lui qualcosa di sbagliato?

No, Draken poi gli avrebbe spiegato la situazione e Inui avrebbe unito i tasselli mancanti, capendo che Kokonoi lo amasse più di quanto potesse mai immaginare:

“Mi perdonerà?”

“Cosa dovrebbe perdonarti?” E aveva ripreso ad accarezzargli i capelli bianchi, facendoli passare tra le lunghe dita: “Non hai fatto nulla di sbagliato.”

“Il fatto che stia andando avanti anche senza di lui. Abbiamo sempre fatto tutto insieme da quando siamo entrati nel mondo della delinquenza e ora ci ritroviamo divisi, lui si trova diviso da me, io l’ho fatto consapevolmente. Io gli ho fatto del male.”

Kokonoi stava buttando fuori, tutto d’improvviso, ogni sentimento negativo che si era tenuto dentro fino ad ora. Si era portato le mani alla bocca e socchiuso gli occhi, sentendoli pizzicare, mangiato vivo da quei pensieri e da quelle preoccupazioni che Ran riteneva infondate, essendosi, proprio il ragazzo, assicurato che Inui stesse bene:

“Hey.” Lo aveva richiamato, cercando la sua attenzione per distrarlo: “Se piangerai tutta la fatica che ho fatto per metterti le creme non sarà servita a niente.”

Aveva scherzato, ma, allo stesso tempo, tentava con le dita di asciugargli gli occhi prima che iniziasse davvero a piangere.

Ran si sentiva a disagio vicino a gente che piangeva, ringraziava che Rindou piangesse di raro, forse mai ad essere sinceri.

Era da tempo, in fondo, che Ran non si trovava a consolare qualcuno sul serio:

“Ohy, Hajime…” Lo aveva richiamato, accarezzandogli il viso e fregandosene delle creme e della sua promessa fatta poco prima di non toccarglielo più: “Guardami e respira, va tutto bene.”

Era delicato nei modi di fare, non voleva farlo stare peggio di quanto già stesse. Aveva praticamente costretto l’altro ad aprire gli occhi e a cercare il suo sguardo:

“Rilassati, sono qua con te. Hai fatto le migliori scelte per proteggere Inui, non hai sbagliato niente, hai sempre calcolato tutto nel modo migliore e, se non avesse funzionato, avresti avuto con te i soldi per cambiare le carte in tavola. Di cosa ti stai incolpando? Di ciò che non hai fatto? Hai fatto tutto, te lo assicuro.”

Cercava di tranquillizzarlo come poteva, massaggiandogli la schiena con lenti movimenti circolari come faceva con Rindou quando si agitava per qualcosa che non era riuscito a fare.

Anche quello capitava di raro, ma Rindou era molto più vittima rispetto a lui della vita che vivevano e succedeva che, a volte, ricordava i visi delle loro vittime, sognandoli e svegliandosi di soprassalto dagli incubi. Ran, che aveva già di per sé il sogno leggero, lo sentiva sempre e, piano piano, scendeva dal suo letto e si metteva in quello di Rindou ricordandogli che lui fosse lì oppure, al contrario, aspettava che fosse il minore a raggiungere le sue coperte, per farsi consolare e assicurare che non fosse solo in quella vita.

Kokonoi era un animo ben più tranquillo di suo fratello, non aveva morti sulla coscienza, non era una persona così distrutta, non soffriva così tanto.

Eppure era irrimediabilmente più umano di Ran e molto più solo.

Già.

Ran aveva Rindou e Rindou aveva Ran.

Kokonoi non aveva nessuno.

Nessuno all’interno della Bonten aveva qualcuno con cui condividere realmente il dolore.

Mikey non aveva più Draken.

Takeomi non aveva più i Black Dragons.

Sanzu aveva Mikey, ma chiaramente il loro rapporto non era neanche da considerarsi valido.

Mochi era solo.

Kakucho aveva perso Izana, sua bussola nel buio.

Solo loro due avevano l’altra persona, un spalla su cui piangere, un alleato fidabile, un compagno con cui stare, una casa in cui ritornare quando quel mondo diventava troppo pesante.

Kokonoi aveva perso Inui, lo aveva lasciato indietro e ora era rimasto solo.

E, oltre alla sua solitudine, si preoccupava anche che gli altri non rimanessero da soli, ignorando la sua di situazione.

Ran aveva sempre notato questa cosa, questa attenzione silenziosa che Kokonoi avesse per tutti e lo ammirava sinceramente.

Lui metteva sempre al primo posto il bene di Rindou e, dopo la morte di Izana, aveva preso anche Kakucho sotto la sua ala, comportandosi con lui come un fratello maggiore. Degli altri non gli importava, a dire il vero, ma non aveva mai smesso di notare che a Kokonoi non interessasse avere un motivo (come per Kakucho, che era stata necessaria la morte di Izana a farlo smuovere) per prendersi cura, sottilmente, delle persone.

Non capiva perché lo facesse, a che fine, visto che erano semplicemente delle persone distrutte, unite sotto un unico nome, uno più falso dell’altro, eppure sembrava che lui lo facesse con piacere.

Ma chi si prendeva cura di lui?

Se l’era domandato spesso e, senza volerlo, si era ritrovato lui a farlo.

A volte aspettava Kokonoi quando era fuori in missione, quelle rare volte che aveva impegni che lo costringessero all’esterno del loro covo. Ran si sedeva sul divano davanti all’entrata e lo attendeva sveglio oppure, se sapeva l’orario in cui sarebbe tornato, gli preparava del latte o una camomilla o, addirittura, un pasto mediamente completo, in caso non avesse cenato.

Non sapeva cucinare chissà cosa, a dire la verità, però un po’ se la cavava, in qualche modo aveva pur dovuto sfamare lui e Rindou negli anni passati da soli.

Kokonoi ringraziava, ma non chiedeva mai perché lo facesse. Si sedeva al tavolo, e Ran con lui, e mangiava in silenzio.

Ran gli medicava anche le ferite, quelle rare volte che le aveva, non chiedendone mai la provenienza, perché, in fondo, non era affar suo, se lo avesse voluto spiegare, avrebbe parlato lui.

Si lavavano i denti insieme senza dire niente e, quello era successo poche volte, Kokonoi gli permetteva di pettinargli i capelli perché Ran gli aveva spiegato che era importante farlo prima di andare a dormire, Rindou glieli pettinava sempre, districandogli i nodi dopo averli tenuti raccolti tutti i giorni.

Hajime non li raccoglieva, li teneva lisci, ma il più grande pensava ugualmente fosse importante e allora l’altro glielo lasciava fare.

Erano davvero piccole cose, ma ciò li aveva avvicinati.

Anche a colazione Kokonoi si metteva più spesso vicino a lui oppure Ran trovava sempre apparecchiato un posto al suo fianco, qualora fosse il primo ad arrivare al tavolo. Non lo invitava, ma sapeva che quel posto fosse il suo. Era l’unico, Ran, che mangiava della frutta e un succo, raramente beveva del caffè o del tè e, infatti, la trovava già tagliata su un piatto e il succo già spremuto dalla frutta e versato nel bicchiere.

Non si ringraziavano mai a vicenda, ma sapevano perfettamente che quelle piccole cure miglioravano loro le giornate.

Ran non lo vedeva però, come un fratello minore, come potevano essere Rindou o Kakucho.

Lo vedeva più come una persona da proteggere, distrutta più di lui, vittima delle sue ossessioni e che si auto sabotava ogni volta che aveva la possibilità di farlo, forse sentendosi non meritevole di qualunque cosa.

Ran era l’esatto contrario.

Non faceva nulla, eppure pretendeva tutto. Si innalzava, teneva lontano i vizi e le distrazioni, non faceva mai errori e, se succedeva, non si faceva scoraggiare.

Kokonoi era l’esatto opposto.

Ed era questo che attirava una mente curiosa come Ran.

Ran era sadico, un maledetto sadico che godeva del dolore altrui, che rideva a vedere gli altri pregare di lasciarli in vita, che gioiva alla vista del sangue che usciva dalle ferite e dalla bocca di quelle persone piene di preghiere. Non aveva incubi su chi ammazzava, dormiva sereno perché, in fondo, ogni persona era cattiva.

E così pensava anche di Kokonoi all’inizio.

Poi aveva scoperto di Inui e, piano piano, aveva collegato i pezzi, aiutandosi anche con le poche cose che Kokonoi gli diceva quelle rare sere in cui si fermavano a parlare, seduti sul davanzale della sala principale, con una sigaretta a testa nelle labbra, i capelli raccolti e la mente libera.

Hajime era innamorato di Seishu?

Questo non l’aveva mai capito.

Forse lo amava quanto lui amava Rindou. Un amore sano, sicuro, quasi materno, ma che non sfociava in alcun modo nel romantico, in piani futuri di una vita insieme, nella felicità eterna.

No, si limitava ad una protezione molto forte e attenta, che metteva l’altra persona prima di se stesso.

Ran l’aveva inteso così, ma ora, con Kokonoi che piangeva tra le sue braccia per quel ragazzo, qualche dubbio gli era venuto.

E allora perché, si domandava, il ragazzo cercava quella sicurezza così fisica in lui?

Perché le sue mani stringevano in quel modo la sua maglietta? Perché il suo viso era nascosto nel suo collo? Perché il suo respiro sembrava così irregolare contro le sue spalle? Perché il petto di Kokonoi si alzava e abbassava così velocemente contro il suo?

Perché sembrava aver disperatamente bisogno di lui e non di Seishu?

Ran era sadico, una bestia, un combattente senza emozioni o tutto quello che, negli anni, si era sentito dire da chiunque.

Però per lui il consenso era una cosa seria, sotto qualunque aspetto, e mai – mai – come in quel momento si era sentito spregevole ad allontanarsi il giusto da Kokonoi per afferrarlo con più sicurezza e baciarlo d’improvviso.

No.

Lui non rimaneva sveglio ad aspettarlo perché era nella sua indole di fratello maggiore, perché intanto Rindou dormiva da solo e le loro serate insieme erano diminuite a causa di quel nuovo “impegno”.

Lui non si impegnava a trovare nuove ricette per far felice quella specie di nuovo “fratellino”, perché ci aveva già provato con Rindou ed era stato un continuo fallire, mentre con Kokonoi tutto sembrava venire perfettamente come desiderava.

E no, lui non pettinava i capelli ad Hajime perché sennò si sarebbe svegliato con i nodi, li pettinava perché amava quanto fossero lunghi, ben curati, lisci e di quel colore meraviglioso che incantava i suoi occhi, come lo incantava il profumo che il ragazzo si spruzzava due volte per polso, tre sul collo e, ogni tanto, anche dietro le orecchie; lo incantavano gli orecchini che, grazie a quella scusa del pettine, poteva notare da vicino, ammaliato dalla cura dei dettagli e dei colori scelti e lo incantava il piercing alla lingua che il ragazzo si era fatto fare quando Sanzu, che ne voleva uno al sopracciglio, lo aveva convinto a sopportare con lui il dolore.

Non vi era fratellanza verso una persona di cui voleva conoscere il sapore delle labbra, quanto morbide fossero e se fossero disposte ad accettare le sue in quel bacio inaspettato che gli sarebbe costato, ne era certo, tutto il rapporto con Kokonoi.

Gli chiedeva scusa con il pensiero.

Scusa per aver sfruttato quel suo momento di debolezza, scusa per averlo fatto sapendo che, probabilmente, il suo cuore non gli apparteneva e mai lo avrebbe fatto, scusa per aver sminuito il suo dolore mettendo prima se stesso e scusa per mille altre motivi che cacciava in fondo alla sua mente per non sentirsi ulteriormente in colpa.

Non aveva il coraggio di allontanarsi e la sua mente non voleva realizzare che nemmeno Kokonoi si stava allontanando, non lo stava rifiutando, non si muoveva e basta.

Ran era sempre stato convinto delle sue azioni e, dove tutti si trovavano in uno stato di agitazione o, peggio, di ansia, lui si sentiva a proprio agio, rideva, usava battute sarcastiche e sottile ironia per mascherare i suoi veri sentimenti.

Eppure, in quella stronzata che aveva fatto, il suo cervello aveva smesso di funzionare e, totalmente fuori dal suo personaggio, la sana preoccupazione della sua persona aveva vinto.

Quando si era staccato dalle labbra di Kokonoi, aveva abbassato lo sguardo, dopo averlo incrociato con lui per mezzo secondo, ed era stato il suo turno di nascondersi nel petto dell’altro, diventato di colpo un luogo sicuro:

“Scusami.”

Aveva semplicemente detto, sentendosi così debole rispetto a come sembrava sempre sicuro di sé.

Non poteva credere a se stesso e si sentiva uno schifo.

Ran Haitani, che a 13 anni aveva preso, insieme a suo fratello, il controllo di un intero quartiere, ammazzando un uomo e ferendone gravemente un altro, quasi tremava all’idea di aver baciato qualcuno.

Era solo una questione di consenso negato? O era perché, in fondo, gli era piaciuto davvero tanto quel bacio e aveva sentito il bisogno fisico di prenderselo?

“Ran.”

La voce seria di Kokonoi lo aveva raggiunto, ma lui non si era mosso nemmeno quando le mani dell’altro lo avevano circondato, stringendolo più a sé.

“Ran.”

Aveva riprovato, salendo ad accarezzargli i capelli e Ran provava un disagio incredibile in quel momento, non si riconosceva più, non riconosceva la sua ironia venire a meno, le sue provocazioni che non uscivano dalle sue labbra e il suo schernire per scambiare i ruoli.

Era come bloccato, incapace di reagire:

“Per favore, puoi guardarmi o ti sei già pentito?”

La voce di Kokonoi suonava più preoccupata di prima e questo era bastato a far scattare Ran, allontanandosi dalle sue braccia e guardandolo, per ritrovare un’espressione preoccupata e sofferente sul viso del ragazzo:

“Mi dispiace.” Si era scusato di nuovo, stavolta guardandolo, sincero come poche volte era: “Non avrei dovuto farlo così d’improvviso. Lo so.”

Kokonoi non aveva parlato e questo non aveva fatto che peggiorare le preoccupazioni di Ran.

Aveva alzato una mano, piano, accarezzandogli poi la guancia al più grande e lui si era appoggiato a questo contatto, cercando il calore che il palmo e quelle dita morbide gli stavano dando e che realizzava di aver tanto desiderato in quei mesi:

“Va tutto bene.” Gli aveva sorriso Kokonoi: “Sembri tu quello che ha bisogno di consolazione ora.”

Quasi aveva riso, passandogli il pollice ad accarezzargli sotto l’occhio e guardandolo meglio.

Ran era abbastanza in imbarazzo e il fatto che non fosse da lui lo faceva ridere ancora di più:

“Non avrei dovuto.”

“Perché?”

“Perché a te piace Inui.”

Il sorriso di Kokonoi era morto e la mano si era fermata, ma senza staccarla dal viso di Ran:

“A me non… Non piace Inui.”

“Non ti preoccupare.” Gli aveva sorriso Ran, non credendo a quella bugia alla quale non credevano neanche gli occhi di Kokonoi che cercavano, in tutti i modi di distogliersi dai suoi: “Dormiamo, che sono stanco.”

Aveva mentito, spostando gentilmente la sua mano, in modo totalmente diverso a come aveva fatto, ore prima, con quella di Rindou, togliendola in modo scherzoso e affettuoso, mentre con Hajime c’era solo il bisogno di allontanarlo, senza creare ulteriore disagio.

Era tornato a sdraiarsi vicino a lui, prono, senza offrirgli per la terza volta il braccio, non si sentiva molto bene a stare lì e non voleva crearsi ulteriori problemi. Il suo viso, inoltre, era girato dalla parte opposta a Kokonoi sperando che l’altro spegnesse al più presto la luce, per dormire sopra a tutta quella situazione.

La mattina dopo Ran sarebbe uscito dalla camera il prima possibile per andare a svegliare Rindou e entrambi si sarebbero dimenticati di quella strana notte.

Sarebbe andata così.

Nella sua mente tutto tornava.

E sarebbe andato bene.

Allontanarsi e negare i suoi veri sentimenti era ciò che sapeva fare meglio.

Poi però aveva sentito il braccio di Kokonoi circondargli il corpo e stringersi a lui, incapace di avvicinarlo, perché la mole di Ran era troppa da spostare e non ne aveva neanche mentalmente la forza. Così si era limitato ad appoggiarsi alla sua spalla con la fronte e accarezzargli poco la schiena con la punta delle dita:

“A me Inui non piace più. Ho capito di non poterlo avere molto tempo fa, quasi un anno fa.” Aveva iniziato a raccontare, neanche sicuro Ran lo stesse ascoltando, ma il ragazzo stava sentendo tutto, aveva gli occhi aperti e guardava le stelle, immaginando le sue parole prendere forma: “Quando stavamo entrambi nei Black Dragons mi piaceva tanto, lo ammiravo, lo consideravo una mia metà, qualcuno che potesse comprendermi, chiudermi le cicatrici, farmi passare il dolore, distrarmi dai miei pensieri opprimenti, ma poi…” Aveva sospirato: “Poi ho capito che non potevo trascinarlo nel baratro con me e ci separammo, anche se ai tempi era sembrato un obbligo e un po’ lo era, dovevo salvare almeno lui.

Durante il mio breve periodo nel Tenjiku, ho conosciuto Izana e Kakucho, sono stato ammaliato dal loro rapporto, ho ritrovato in loro noi due e ho detto che, forse, un’ennesima possibilità avrei potuta dargliela a me a Inui.”

Aveva taciuto per lunghi secondi, forse ragionando su cosa dire e Ran non aveva aspettato che il continuo, sapendo dove sarebbe arrivato:

“Poi Izana è morto per Kakucho e ho pensato che non volevo finire così, che non dovevamo finire così. E allora ho diviso le nostre strade e non ho avuto bisogno di parlargliele o del suo parare. L’ho incrociato dove sapevo sarebbe passato, nella strada dove abbiamo camminato così tanto a lungo da saperne ogni dettaglio e gli ho detto che quella che avrei percorso sarebbe stata la mia e mia sola e che lui non c’entrava più niente con me, perché i nostri interessi non combaciavano ormai da tempo.

E così l’ho lasciato andare.

E con lui anche tutto l’amore che provavo nei suoi confronti, che era ormai diventato un qualcosa di limitante, quasi un’ossessione: il bisogno di stare vicino a lui per sentirmi vivo e felice. Non è una cosa normale e me ne sono reso conto conoscendo altre persone.”

La mano di Kokonoi si alza dalla schiena di Ran, andando ad accarezzargli i lunghi capelli bicolore e guardandoli passare tra le sue mani, osservando tutte le sfumature:

“E ho pensato che al mondo non esiste solo Inui. Il mondo è pieno di persone che non gli assomigliano, che non me lo ricordano e che non lo conoscono. Ho pensato davvero che fossi uno stupido ad essermi affidato a lui e ad aver affidato così tanto la mia felicità a qualcuno. Inui era alla mia altezza, ma io non ero alla sua.”

E le sue carezze si erano fermate, notando come il viso si Ran si era spostato e ora lo stava guardando attento al suo racconto:

“E ho pensato che fosse un bene averlo lasciato indietro, che sarebbe stato al sicuro anche senza di me e stasera ne ho avuto la certezza.

Inui sta bene.

Ero io la ragione del suo male.

Lui ora è libero.”

Questa volta Ran non lo aveva evitato in tempo, Kokonoi stava piangendo, stringendo le labbra per non singhiozzare.

Si era sfogato definitivamente con il più grande che non aveva detto niente. Gli aveva circondato la testa con il braccio, appoggiando la mano sulla sua nuca e l’aveva fatto rimettere sulla sua spalla, in modo che piangesse nascosto tra i suoi vestiti, che urlasse quanto necessitasse, che soffrisse quanto ne sentisse il bisogno, perché andava bene così, lui non era nessuno per giudicare.

Kokonoi e Inui non avevano nulla da spartire con lui e Rindou. L’amore c’era, era molto vicino ad essere platonico, ma vi erano implicazioni romantiche che agli Haitani mancavano. Quindi Ran non poteva capirlo a pieno, ma non riusciva nemmeno a immaginare il dolore che avrebbe provato lui, se avesse lasciato andare Rindou per il bene di entrambi.

E allora non lo avrebbe giudicato, l’avrebbe fatto piangere quanto avrebbe voluto.

Poi sarebbero andati a dormire, una volta che le lacrime di Kokonoi sarebbero finite e si sarebbero seccate sulle sue guance e dopo che Ran gliele avrebbe asciugate per l’ultima volta, baciandogliele con il permesso che l’altro gli avrebbe concesso.

E Ran pensava che Kokonoi fosse davvero bello sotto quella nuova luce e non parlava dell’orario, perché che fossero le due, le tre di mattina, ma anche le sei di sera o mezzogiorno con il sole alto nel cielo, lui rimaneva bello uguale.

Parlava della luce della debolezza e dell’umanità che nascondeva dietro all’egoismo, all’amore – che non provava in realtà – per i soldi e per la ricchezza e a quella finta facciata di freddezza che impediva a chiunque di entrare.

Quella lo rendeva davvero bello:

“Stai meglio?”

Gli aveva domandato, quando aveva smesso di tremare e di singhiozzare, mentre Ran non aveva ancora fermato la mano con cui gli accarezzava i capelli.

Kokonoi aveva annuito:

“Non chiedermi scusa.” Lo aveva interrotto non appena aveva visto la sua bocca aprirsi: “Sennò continueremo a scusarci in eterno.” E gli aveva sorriso sereno, accarezzandogli questa volta lui il viso ancora bagnato dalle lacrime: “Andiamo a dormire che ne abbiamo bisogno.”

“Rimarrai con me?”

“Fino a quando ne avrai bisogno.”

Gli aveva assicurato, mettendosi meglio sotto le coperte e girandosi su un fianco, questa volta, verso di lui. Kokonoi gli aveva sorriso in risposta e, senza chiederglielo, si era messo vicino a lui, lasciandosi stringere dalle braccia di Ran, che aveva ripreso, piano piano, la sua sicurezza dopo quel momento di debolezza.

Si sentiva a suo agio nell’aver visto e sentito che Kokonoi era fragile tanto quanto lui e il suo cuore si era alleggerito.

Tutti nella Bonten mentivano, tutti dicevano di stare bene e di essere forti.

La realtà era però che neanche lui che aveva Rindou e Rindou che aveva lui stavano bene, non c’era nulla che li facesse stare bene e non era nemmeno quel privilegio di non essere soli a farli vivere meglio.

La loro era una vita scoordinata, senza senso, che avrebbe portato solo alla morte, ma andava bene così, loro tutti l’avevano scelta non riuscendo a trovare in altre realtà che non fossero quella.

Eppure Ran voleva darsela una possibilità.

Voleva darla a Rindou, suo fratello di sangue e con il quale condivideva i ricordi, il dolore, la sofferenza, il tatuaggio e le cicatrici che non si vedevano ad occhio nudo, troppe profonde per chiudersi.

Voleva darla a Kakucho che aveva perso Izana e non aveva più una strada da percorrere, porgendogli la mano.

E ora voleva darla anche a Kokonoi, devastato mentalmente, incapace di distinguere il bene dal male, accecato dai soldi di cui sentiva il bisogno perché erano l’unica cosa, infondo, che lo facevano stare bene. Voleva diventare anche lui, non ragione principale, ma motivo per farlo stare bene, motivo di distrazione, di pausa dalla velocità a cui andava la loro vita; un treno in corsa nel quale Ran poteva essere un vagone tranquillo e vuoto.

Ran voleva questo.

Non poteva impedire che Kokonoi soffrisse, perché quello era impossibile, non solo perché umanamente irrealizzabile, in quanto l’uomo è destinato a soffrire, ma perché lui stesso non era in grado di evitarselo, quindi figurarsi agli altri.

Ma poteva accontentarsi, in cuor suo, di alleviare il più possibile quel dolore, per permettere a Kokonoi di riemergere dall’oceano di dolore e preoccupazioni in cui stava in apnea, per riprendere fiato ogni volta che lo necessitasse.

   
 
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