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Autore: Adeia Di Elferas    25/04/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Per me è stato un errore! Un gravissimo errore!” sbottò Venanzio, muovendo brevi passi nervosi, che lo portavano a calpestare sempre lo stesso angolino di pavimento, come un cane legato a una catena troppo corta: “Dovevamo restare a Camerino e da lì...”

“Taci!” lo zittì il padre che, fino a quel momento, era rimasto in silenzio, seduto su uno scranno posto vicino al camino spento: “Cosa credi che avremmo risolto? Li hai sentiti, i tuoi cari abitanti di Camerino, inneggiare alla nostra morte! Vedrai! Appena un vessillo papale si alzerà all'orizzonte, apriranno le porte e li lasceranno entrare! Fossimo rimasti là, cosa avremmo risolto? Ci saremmo fatti ammazzare e basta!”

Annibale, le braccia incrociare sul petto, guardò prima il fratello e poi il padre e, preso coraggio, ribatté: “Saremmo morti da uomini, combattendo. Invece che ci facciamo qui a Matelica? Ci nascondiamo dietro il mantello del Conte Ranuccio, pregando che non ci trovino?”

“A questo punto avremmo fatto meglio a seguire nostra sorella Camilla ad Atri, dalle Clarisse!” si mise a stridire Pirro che, dall'alto dei suoi sedici anni si sentiva allo stesso tempo atterrito da tutto quello che stava accadendo e fremente, per il desiderio di imbracciare le armi come avevano fatto i fratelli più grandi.

Molto infastidito nel sentir nominare la figlia, che, in odore di santità com'era andava protetta e salvata a ogni costo, Giulio Cesare fece un gesto stizzito e poi guardò Pirro con commiserazione, commentando: “Vale più una Clarissa di Atri che mille fanfaroni come te! Parli tanto, ma se ti dessi in mano una spada e ti dicessi: corri a Camerino e ammazza il Valentino, cosa faresti?”

“Ci andrei.” rispose prontamente Pirro, deglutendo, però, tanto rumorosamente da togliersi da solo ogni credibilità.

“La verità è che le trattative andavano gestite meglio.” riprese il capo famiglia, scuotendo il capo, abbattuto: “E invece voi avete voluto fare la voce grossa solo perché avete vinto una scaramuccia a Esanatoglia!”

“Noi avremmo potuto vincere la guerra e non solo una battaglia, se solo voi..!” cominciò a dire Venanzio, le gote arrossate e la voce che si incrinava per la rabbia, ma non riuscì a terminare il pensiero, perché nel salone entrò, trafelato e ansante un messaggero.

“I ribelli hanno aperto le porte della città! L'esercito del papa ha preso Camerino!” disse, quasi senza fiato.

Giulio Cesare guardò a uno a uno i suoi figli, come a dire tacitamente che i fatti gli avevano dato ragione, e poi, con un sospiro pesante, si alzò e sussurrò: “Devo colloquiare un momento con il

Conte Ranuccio...”

 

Francesco aveva da poco finito di riassumere a Caterina gli avvenimenti degli ultimi giorni, mettendola anche a parte della riapertura delle porte di Firenze, e della possibilità di tornare a ricevere e inviare lettere con regolarità.

La donna, nel sentire come la minaccia del Borja sembrasse ormai lontana, almeno per una cittadina fiorentina quale lei era, grazie al matrimonio con Giovanni, provò un senso di commozione tanto profondo da non riuscire a parlare per qualche minuto. Con gli occhi arrossati e la gola chiusa, la Sforza prese la mano del piovano, seduto accanto a lei, al tavolo della colazione, e lasciò che il suo silenzio dicesse tutto quello che sentiva nell'animo.

La casa, molto piccola rispetto alla villa di Castello, era sveglia da parecchio e Fortunati era arrivato proprio quando la Tigre e i suoi figli stavano finendo di mangiare qualcosa per affrontare meglio la giornata. La Leonessa aveva fatto uscire Galeazzo, Sforzino e Bernardino e Creobola, che serviva a tavola, in modo che potessero restare soli.

“Ora... Ora posso tornare ai miei, di problemi.” concluse, con un sussurro la milanese.

“Se è per la villa – fece subito il piovano, sicuro di parlare a ragion veduta – secondo me per il momento non te ne devi preoccupare. Lorenzo è stato scelto per accompagnare fuori Firenze Monsignor Engles e al momento tutti i suoi sforzi riguardano il non essere accusato in alcun modo di tradimento da parte della Repubblica. L'eredità di Giovanni è l'ultimo dei suoi pensieri...”

“A proposito – fece lei, lasciando la presa sulla mano di Fortunati e prendendo un pezzetto di pane nero, intingendolo distrattamente nel vino rosso cupo che aveva ancora davanti – hai notizie della villa? Come se la cava De Marzi?”

“Si lamenta di tante cose...” sbuffò l'uomo, ricordandosi di come Alberto gli fosse sembrato un piccolo padrone, quando, il giorno prima, approfittando della riapertura della città, era corso a Castello a vedere come stessero andando le cose: “Tuttavia ha molti problemi a cui far fronte. A proposito, in questi giorni ti sono stati regalati cinque cavalli.”

Caterina, accigliandosi, si fece dire chi fossero i gentili donatori di tante bestie e si sorprese solo in parte nel sentire nomi di suoi vecchi estimatori romagnoli e, perfino, di Luffo Numai, che, però, aveva tenuto a far sì che il regalo giungesse sotto nome fittizio, in modo da non mettere a rischio tutta l'impalcatura di finzioni che aveva costruito fin dall'arrivo del Valentino a Forlì.

“Cinque cavalli sono tanti, da mantenere...” commentò piano la Tigre: “E poi se non posso nemmeno cavalcarli come voglio, che me ne faccio...”

“Tu intanto tienili.” consigliò il piovano, guardandola mentre mangiava il pane grondante di vino scarlatto – un'immagine per lui tanto evocativa, quanto spaventosa – e poi soggiunse: “Ah, quasi dimenticavo... Parlando con Alberto, ieri, abbiamo deciso che sia tempo che sia Franceschino Merenda a fare da intermediario con tua figlia, in convento...”

“Per me non c'è problema, ne avevamo già parlato...” fece la Leonessa, asciugandosi una goccia rossa che stava scivolando dal mento alla gola: “Anche se credevo che tu ti fidassi più di De Marzi che di questo Merenda...”

“Credo solo che sia meglio non mandare Alberto troppo spesso al convento in cui è nascosta Bianca... Per non attirare attenzioni indesiderate... Dopotutto, perfino Lorenzo sa che Alberto è il maggiordomo della villa...” si schermì il piovano, evitando accuratamente di dire che, per quanto lo riguardava, meno le donne di casa Sforza avevano a che fare con il De Marzi, più lui si sentiva tranquillo.

In quel momento, silenziosa come una biscia nell'erba alta, Creobola arrivò alle loro spalle e cominciò a togliere dal tavolo tutto ciò che non serviva più. La Sforza, che aveva finito sia il pane, sia il vino, le lanciò uno sguardo un po' infastidito, ma la lasciò fare.

“Comunque De Marzi fa bene a lamentarsi, come hai detto prima... Quella villa è spoglia come una capanna... Ottaviano e Cesare non fanno altro che parlare male di me a tutta Italia, ma sono io che dovrei parlare male di loro...” cominciò a dire Caterina, senza freni: “Stanno sprecando i nostri pochi soldi e non muovono un dito per accattivarsi Raffaele... Dovrebbero fare in modo che mi vengano date coperte, lenzuola, stoviglie e tutto ciò che manca, e invece di me non si interessano nemmeno per sogno!”

Francesco occhieggiava allarmato prima verso la Leonessa e poi verso Creobola che, anche se impercettibilmente, aveva cominciato a muoversi più lentamente, per allungare il suo tempo di permanenza nella sala e quindi captare più pettegolezzi possibile.

“Anzi, oggi scrivi loro e digli molto chiaramente che se intendono andare avanti così, io posso anche pensare di prendere stabilmente una casa in città.” buttò lì la donna: “Se non ho soldi, so da chi farmeli prestare. Mi basta sapere che quando torneranno, non li avrò tra i piedi! Lascerò la villa a loro, senza né un copriletto né un cucchiaio!”

“Caterina...” cominciò a dire lui, per calmarla, ma la milanese non aveva alcuna intenzione di tacere, malgrado la presenza della serva.

“Sono loro, lo sai bene, che a Venezia non hanno fatto altro che incolpare me della caduta del nostro Stato. Sempre loro sono quelli che si lamentano che io li faccio vivere in povertà, quando sarebbero loro, che ormai sono uomini adulti, a dover provvedere a me!” inveì la Tigre, mentre Creobola, che ormai aveva sparecchiato tutto, non aveva più scuse per trattenersi, e spariva silenziosa oltre la porta: “Cesare se ne tornerà a Pisa, e di questo sono felice. Ottaviano invece, non ha né arte né parte. Cosa farà, quando avrà finito i soldi e si sarà stufato di essere via? Tornerà a piangere, attaccandosi alle mie sottane pretendendo soldi e protezione! Devi scrivergli e fargli capire che io non ho più nessuna intenzione di badare a lui come se fosse un neonato!”

La sfuriata aveva tolto il fiato e le forze a Caterina che, dopo quell'ultima esclamazione, si trovò abbandonata contro lo schienale della sedia, pallida e debole, scossa come se avesse appena affrontato a mani nude un cinghiale enorme. Detestava sentirsi così, ma si rendeva conto sempre di più che, malgrado non potesse definirsi vecchia – aveva trentanove anni – il suo fisico non era più capace di sopportare bene certe fatiche.

Affranto nel vederla tanto abbattuta, il piovano propose: “Vuoi andare un po' a stenderti?”

“Prima finisci di dire quello che dovevi dirmi. Lo so che hai ancora qualcosa da riferirmi e che hai paura della mia reazione. Ti si legge in faccia...” soffiò con tono stanco la donna.

Il fiorentino, in effetti, aveva ancora una novità da riferire alla Tigre, e, dopo l'ultima sfuriata, si pentiva di non avergliene parlato subito. Forse, pensava, avendola trovata non ancora arrabbiata, si sarebbe risparmiato altre grida e improperi...

“Ti ricordi le bestie e i servi che avevi fatto partire affinché raggiungessero Ottaviano e Cesare?” fu la domanda di partenza del piovano.

Corrucciandosi, sorpresa di sentir nominare quella questione, la milanese annuì.

“Ecco... Allora devi sapere che mi è arrivata questa...” fece Francesco, prendendo una lettera un po' sgualcita dalla bisaccia scura che teneva allacciata in vita.

Caterina, perplessa, prese la missiva, ma, prima di leggerla, cercò la firma in calce. Quando riconobbe la grafia e il nome di Giovanni da Casale, lanciò subito la lettera sul tavolo, come fosse infetta, come se il solo contatto con quella pagina potesse ucciderla.

“Cosa c'entra adesso lui?!” chiese, ritraendosi un po', reagendo in modo eccessivo, ma non riuscendo a controllarsi.

Ostentando una calma che in parte aveva perso anche lui, Fortunati riprese il messaggio e, rileggendo nella mente le parti principali, riassunse: “Ebbene, lui adesso vive a Piz...”

“Non mi interessa.” la voce era uscita appena udibile dalle labbra di Caterina, ma era stata sufficiente a frenare la lingua del fiorentino.

Sorvolando quindi su quel dettaglio, l'uomo riprese: “Sembra che abbia intercettato le tue bestie appena prima che raggiungessero i tuoi figli a Piacenza e che ora le abbia con sé e le stia trattenendo.”

“E perché..?” la domanda della Sforza era sinceramente sbigottita.

“Immagino che l'abbia fatto affinché tu, con la scusa di chiedere indietro quanto trattenuto, gli scriva...” rispose il piovano, picchiettando la punta delle dita sul tavolo: “In effetti è da quando sei stata liberata che ti scrive e tu non...”

Non riuscì ad aggiungere altro, perché, come prevedibile, la Leonessa cominciò a ruggire. Le bestemmie si intrecciavano agli insulti rivolti a Pirovano e tutto il discorso, alla fin fine, girava sempre e solo attorno alla rabbia profonda che la Leonessa provava verso il suo vecchio amante per averla, a suoi occhi, tradita in modo imperdonabile.

Mentre Caterina continuava la sua filippica, alzandosi e toccandosi inconsciamente più e più volte la cicatrice che le deturpava la coscia e che aveva segnato la fine della sua resistenza a Ravaldino, Francesco rimase immobile e in silenzio, in attesa che la furia sbollisse.

Osservava la donna che amava senza avere la forza di interromperla e senza, in realtà, pensare che farlo fosse utile. L'aveva vista altre volte preda della rabbia e sapeva che, una volta passata la tempesta, sarebbe tornata a ragionare più lucidamente.

Impassibile perfino davanti alle peggiori bestemmie che coinvolgevano Dio e tutti i Santi possibili, il piovano aspettò esattamente il momento in cui la Tigre restò senza più parole e tornò a sedersi, accaldata e rossa in viso, gli occhi ancora spersi e le mani che tremavano appena.

“Queste bestie le rivuoi o preferisci lasciargliele, pur di non averci a che fare?” chiese, senza inflessioni, a puro scopo esplorativo.

“Non gliele lascio sicuro.” ribatté lei, la voce arrochita e il respiro ancora irregolare: “Scriverò ai miei figli. Se ne occuperanno loro. Tanto, credo che quel verme non abiti lontano da Piacenza, se ha fatto in modo di rubarmi gli animali...”

“Non li ha rubati... Li ha solo...” provò a dire Fortunati, ma venne bruscamente interrotto.

“Io quell'uomo l'ho amato.” ammise Caterina, ormai sfinita: “Mi sono umiliata, per lui. Gli ho perdonato errori che non avrei perdonato ad altri... Ho messo da parte ogni dignità, pur di riaverlo, quando mio zio Ludovico me lo voleva strappare. E lui mi ha ripagato tradendo la mia fiducia e costringendomi a diventare una preda del figlio del papa... Quindi. Quindi... Quindi non provare, per nessun motivo, a scusarlo o giustificarlo o difenderlo.”

Francesco si morse il labbro e fece un breve cenno, come a dire che aveva capito. Non gli piaceva sentire la Leonessa parlare dei suoi vecchi amanti, e Pirovano non faceva eccezione. Tuttavia lo disturbava tutto quel rancore, tutto quell'odio, a distanza di così tanto tempo...

“Ricordami chi c'è al seguito di Ottaviano e chi... E chi è con le bestie...” fece la donna, come se ritenesse chiuso ogni altro argomento: “Voglio capire cosa ordinare di preciso ai miei figli... Perché qualcuno dovrà pur andare fisicamente a prendere quegli animali...”

Il fiorentino si trattenne ancora circa un'ora, parlando di tutte le questioni in sospeso della sua donna. Una volta che entrambi ritennero sviscerati gli argomenti più importanti, la Leonessa chiese a Fortunati se volesse fermarsi un po' con lei.

Tentato, l'uomo titubò un momento. Erano giorni che agognava la compagnia della donna che amava, ma vedendola ancora distratta, probabilmente troppo impegnata a ripensare a Giovanni da Casale, preferì declinare, adducendo importanti impegni, tra cui la lettera da inviare a Ottaviano.

“Vuoi anche che risponda a Pirovano?” domandò, quando già era alla porta.

“Sì.” annuì lei, con decisione: “Digli di andare all'inferno.”

Il piovano strinse le labbra e rispose che l'avrebbe fatto, anche se con parole meno dirette. Lasciato il palazzo, quasi corse al suo alloggio, per mettere nero su bianco tutto ciò che sentiva doveroso riferire ai figli della Sforza.

Voleva insistere con Ottaviano affinché capisse che Caterina non era in condizioni eccellenti e che era molto più influenzabile di quanto non fosse mai stata in vita sua e che fosse, quindi, di vitale importanza sostenerla e capirne le bizze che, perlopiù, erano da implicare all'ascendente avuto da Alberto De Marzi – che l'aveva convinta a lasciare momentaneamente la villa – e anche proprio alla condotta sconsiderata dello stesso Riario.

Perciò intinse la penna nell'inchiostro e poi l'appoggiò alla pagina, scrivendo: 'La vera servitù mia fora de ogni merito mi stringe a fare intendere alla S. come Mad.a Vra. matre per queste pazzie d'Alberto et mali tractamenti sua mossa da vre. S. se è resoluta in tutto et per tutto partirse da voi, et credo che a questa hora habia tolto una casa et va assestando tutte cose sue per starsi da se. Con tanta passione et dolore verso vostre S. che è una cosa incredibile, et fa venire ciaschuno che la ode in maxima compassione de' facti sua'.

Sospirò, si grattò il mento e poi riprese con altri rimproveri, arrivando anche a sottolineare quanto la rabbia della Tigre nei confronti di Ottaviano e Cesare ne stesse compromettendo anche la lucidità: 'non si può dar pacie, et dice la più pazze cose contro di V. S. che la natura creassi mai.' e a quel punto trovò appropriato ricordare quanto fosse importante riallacciare concretamente l'amicizia con il Cardinale Sansoni Riario, che da troppo tempo, ormai, aveva chiuso i lacci della sua scarsella e non forniva più sostegno economico alla Leonessa: 'Io non ci posso più perché l'offesa è sì pubblica che lei nolla vuola inghiottire né rimettere, et sono certissimo che lei ha ad incorrere in qualche grande inconveniente se le S. V. non sono preste a provedervi, o in persona, che lo potete fare sicuramente o con lettere di monsignore Rev.mo Cardinale vostro, altrimenti ogni cosa va in ruina: et credimi li S. V. che questa sarà maggior rotta et perdita per voi che quelli delli stati et farete contento chi male vi vuole che mai non ha expectato altro'.

Proseguì raccomandandosi più e più volte con i due Riario affinché smettessero immediatamente di parlar male della madre, dato che non potevano sapere quali orecchie li ascoltavano.

Poi passò a riferire, tra le righe, che sarebbe stato Franceschino Merenda a occuparsi di Bianca in quel periodo così strano, e che tramite lei, avrebbero cercato di far avere stoviglie e biancheria alla Tigre, affinché un po' si placasse. Raccontò anche loro delle difficoltà avute di recente nell'ospitare Scipione Riario alla villa, che, arrivato senza preavviso, si era quasi visto messo alla porta da Alberto, che non sapeva come provvedere a lui. Riprese il discorso dell'insofferenza di Caterina per tutta quella situazione di indigenze e per la loro indolenza nel provare a porvi rimedio, e poi concluse la lettera con un accorato: 'Hora io non so che dirmi più alle S. V. Quelle sono prudentissima, governino con prestezza questa cosa et ponganvi quello nono termine desiderano et non altrimenti, et Dio vi dia gratia la pigliate bene et con salute. Raccomandandomi alla S.V.'.

Chiuse, con un profondo sospiro, apponendo luogo e data: Florentie 22 Julii 1502.

 

Lucrecia non aveva ascoltato le sue dame di compagnia nemmeno per un minuto, mentre l'accompagnavano nelle sue stanze, quel pomeriggio. Immaginava che stessero parlando dell'epidemia di febbri che sembrava essere scoppiata dentro le mura di Ferrara, ma non le interessava.

Da giorni, a più riprese, non faceva altro che interrogarsi sul proprio stato. Aveva interpellato giusto quella mattina una levatrice, che non aveva escluso l'ipotesi che fosse incinta, eppure la Borja era lo stesso scettica. Anche se aveva sintomi simili a quelli patiti durante le prime due – anzi, tre, calcolando anche quella finita prima del tempo – gravidanze, c'erano dettagli che non le quadravano affatto.

Innanzi tutto, pur non avendo più sanguinato in modo regolare, aveva avuto delle perdite che l'avevano confusa. In più, a dispetto di quanto le era accaduto in precedenza, non avvertiva nessuna sensazione strana... Aveva avuto delle nausee, si sentiva un po' stanca e aveva il seno gonfio, ma nulla di più.

La levatrice, in uno slancio di sincerità, aveva anche ammesso a voce alta che certi sintomi potevano dirsi legati al mal francese, ma poi si era quasi rimangiata tutto, precisando che in pochi conoscevano l'esatto decorso della malattia nelle donne.

Lucrecia stava ragionando di nuovo sulle strane perdite che aveva avuto e sui fastidi che a volte provava, nel giacere con Alfonso, malgrado apprezzasse sempre molto la sua compagnia, quando un nome pronunciato da una delle sue dame di compagnia la riscosse un momento.

“Certo, se quell'Astorre di Faenza è morto davvero a quel modo orribile...” stava dicendo l'ancella.

La Borja aveva già sentito della presunta morte del Manfredi e anche delle modalità in cui, probabilmente, era stato ucciso e, più ci ragionava, più le sembrava ovvio che fosse stato Cesare a togliergli la vita.

“Non parliamo di queste cose.” disse la figlia del papa, con un po' di freddezza, mentre entravano nei suoi appartamenti: “Mi mettono di cattivo umore e non mi va. Parliamo d'altro.”

Le dame si guardarono l'un l'altra per un po', mentre la loro signora si andava a sedere, in attesa che si occupassero di lei, com'era loro dovere.

A un certo punto, come se avesse avuto un'idea geniale, una cominciò: “Avete sentito della moglie di Alessandro Bentivoglio?” chiese, con aria cospiratrice.

“Ippolita Sforza?” domandò Lucrecia, cercando di concentrarsi su quell'argomento al solo fine di non pensare alla nausea che stava rimontando.

Aveva sentito molto parlare della figlia del defunto Carlo Sforza. Anzi, una volta l'aveva anche intravista a una festa. Era una giovane molto bella e si distingueva tra le folla. Il fatto che la Tigre di Forlì fosse sua zia, poi, bastava alla Borja per provare per lei una strana curiosità.

La dama di compagnia, felice di aver trovato un argomento che interessasse la sua signora, annuì subito e cominciò ricordando a tutte le presenti come le terre di Ippolita Sforza – Casteggio soprattutto – fossero cadute nelle mani dei francesi all'inizio dell'invasione. Da lì passò a spiegare come il re di Francia, in quel momento a Pavia, avesse più e più volte espresso il desiderio di conoscere una 'donna Sforza', avendone sentito parlare sempre meravigliosamente. I bolognesi, ben felici di avere un modo per mettersi in mostra con Luigi XII avevano subito fatto sì che Alessandro portasse la moglie al cospetto del sovrano e lei non aveva perso tempo.

“Ha ballato con lui per una serata intera! E poi... Ebbene, sono andati in un'altra stanza a discorrere per il resto del tempo...” rivelò la dama di compagnia, mentre pettinava i lunghi capelli biondi di Lucrecia: “E nessuno sa cosa abbia detto o fatto, ma alla fine il re le ha restituito tutte le terre che erano state sue e l'ha lodata pubblicamente per la sua 'lombardissima grazia' e la sua piccata cultura e intelligenza!”

“Se l'avesse sentito mia cognata Isabella – ironizzò la Borja, senza riuscire a trattenersi – di certo le sarebbe andata la cena di traverso: non può essere, per lei, che esista in tutta la Lombardia, o, meglio, in tutta Italia, una donna più colta di lei...”

Le dame, come guidate da un segnale invisibile, risero tutte. Quel suono ricordò alla giovane moglie di Alfonso Este il chiocciare di cento galline. Infastidita, mentre alla nausea andava a sommarsi un fortissimo mal di testa, la Borja si alzò, scansando le mani di quella che le stava sistemando i capelli. Forse era anche colpa del caldo, un caldo, quello di Ferrara, che era sempre appiccicoso e indolente, molto diverso da quello che aveva conosciuto nella sua infanzia e nella sua giovinezza a Roma...

“Ora io... Vorrei stare un po'... Veramente non...” balbettò, ma, appena si alzò le parve che tutta la stanza attorno a lei cominciasse a girare e, prima che potesse capire cosa le stesse accadendo, vide tutto nero e si trovò sorretta dalle braccia delle sue dame che gridavano in preda al panico, cercando aiuto.

 

Dopo che Fortunati se n'era andato, Caterina aveva trascorso il resto della giornata da sola, senza voler vedere nessuno dei tre figli che erano con lei. Aveva ragionato su tante cose, e aveva cercato di far sbollire la rabbia che l'agitava, al fine di scrivere a Ottaviano e Cesare delle lettere che non grondassero rancore e rimproveri.

Stando chiusa per la maggior parte del tempo nella sua stanza, a tratti si era sentita di nuovo in cella, anche se, paradossalmente, quella sensazione le aveva dato quasi sicurezza. Malgrado di quando in quando riaffiorassero delle immagini dei lunghissimi mesi passati a Castel Sant'Angelo, le bastava guardare un attimo fuori, scostando appena gli scuri, per ricominciare a respirare e rendersi conto che non era più rinchiusa, non in senso stretto almeno.

Aveva trascorso lunghi minuti a dirsi che il Valentino non era più alle porte di Firenze, che quell'uomo non l'avrebbe mai più toccata, anzi, non l'avrebbe nemmeno mai più vista. Tutto il male che le aveva fatto, la vergogna di cui l'aveva coperta, tutto ciò che le aveva tolto... Si trattava di cose passate, a cui la Tigre non voleva più pensare.

Si era messa a ripensare anche a Baccino da Cremona. Lo sapeva al sicuro, con un buon impiego presso un padrone che lo trattava bene, però le mancava la sua presenza. Spesso si era trovata a desiderare di averlo ancora vicino. Lui, più di tanti altri, avrebbe saputo consolarla in certi momenti, avendo vissuto al suo fianco tante cose, compresa la caduta di Forlì. Tuttavia la Leonessa sapeva bene quanto fosse ancora troppo pericoloso richiamarlo a sé: il papa era troppo imprevedibile. Cosa avrebbe potuto fare, solo per danneggiarla, nel caso avesse finalmente capito quanto Baccino fosse importante per lei?

Era stata interrotta nelle sue elucubrazioni solo una volta, quando, nel pomeriggio, Creobola era andata a bussare alla sua porta.

“Hanno consegnato questa, da parte di messer Fortunati, che vuole che sia consegnata a voi.” le aveva detto la serva, porgendole una lettera.

La Sforza l'aveva ringraziata e poi, rimasta sola, aveva letto avidamente le parole vergate dalla mano precisa del Cardinale Raffaele Sansoni Riario. Questi le chiedeva notizie sul suo stato di salute e le parlava amorevolmente di Cesare, citando anche Ottaviano, e poi, in tono molto magniloquente, prendeva le sue difese, chiedendole, anzi, di mostrare il messaggio a Lorenzo Medici o a chi di dovere, affinché tutti sapessero che lui parteggiava per lei e che l'avrebbe difesa volentieri anche legalmente in merito alla questione ereditaria, in particolare circa il possesso della villa di Castello.

La Tigre trovò interessante quella sua presa di posizione, ma decisamente inutile. Anzi, forse in un tribunale fiorentino, in un momento del genere, la missiva di un Cardinale sarebbe stata controproducente. Invece di scriverle tante belle parole, avrebbe fatto molto meglio a inviarle del denaro.

Solo a tarda sera, quando ormai faceva buio anche fuori, la donna trovò la calma necessaria per mettersi alla scrivania. Aveva acceso più candele di quante non servissero davvero, ma non sopportava più l'oscurità, specie in un momento come quello.

Dopo essersi presa ancora qualche istante, decise di cominciare con la lettera che più le pesava, ovvero quella per suo figlio Ottaviano. Non sapendo come approcciarlo, iniziò con qualche frase vaga, con direttive di ordine generale. Proprio in virtù del tono pratico che stava dando a quell'incipit, decise di affrontare subito la questione riguardante Pirovano.

Dato che nemmeno lei sapeva quanto sarebbe durato ancora il viaggio di Ottaviano e Cesare, preferì dare due diverse possibilità al figlio, sia nel caso fosse tornato presto, sia nel caso in cui, invece, fosse rimasto via ancora a lungo: 'Et se ritornate de qua menatene la mula et l'altre mie bestie che sono in casa Messer Joanni da Casale, et fate chel Melozzo se faccia dare conto de quello che lui ha speso in substentarle con la mia brigata, perché gliene voglio fare bono in ogni modo: et menate con voi el ragazzo e il famiglio di stalla.' dopo aver dato qualche disposizione in merito al famiglio, concluse: 'Et se per caso non tornassi subito, rimandatemi la mia mula et l'altre mie bestie col Melozzo et col ragazzo et Ioanni Maria famiglio di stalla.'.

Dopo un po' di esitazione, ci tenne a sottolineare un dettaglio, quasi a voler prendere le distanze da Pirovano anche agli occhi di Ottaviano: 'et non mi voglia riprehendere se la bestia con la brigata mia sono stati ad casa messer Ioanni da Casale, perchè io non ve le indirizzai mai, ma sibene a vostra S. et chi ne è suto causa voi sapete: ma poi ch'io non ho male se non da' mia proprii, et dishonore, io l'ho auto ad caro, perchè pure sono stati substentati insino ad qui – a questo punto non si trattenne oltre e sferrò l'affondo che, se fosse stato scritto solo qualche ora prima, sarebbe stato ancora più violento – ma la vergogna Sig. mio, è quella che mi havette fatta voi, et permesso che altri me la faccia: ma sia con Dio, et anche ad questo ho trovato rimedio. Io mi trovo alle spalle 24 boche: 5 cavalli et tre muli et a tucti ho ad fare le spese, et non ho uno soldo: et qui non ho trovato bene alcuno, né persona me ha voluto subvenire pure da uno bicchiere d'acqua'.

Continuò nell'elenco delle mancanze che l'affliggevano, per poi concludere, con una vena drammatica con cui sperava di riscuotere un po' il suo flemmatico primogenito: 'che poi ch'io nacqui non fu mai si male contenta, né offesa quanto al presente.'.

Dopo un altro paio di lamentele sul comportamento dei figli, concluse con un lapidario: 'Dio vel perdoni, che io vi contenterò.'.

Firmò in calce con un semplice: 'Florentie die 22 Julii 1502 Caterina Sfor. Manu Propria.'.

Rilesse tutto un paio di volte e poi sigillò la lettera. Immaginando che fosse stato Cesare a prodigarsi di più per ottenere un'intercessione di Raffaele, quando iniziò a scrivere la lettera destinata a lui, volle subito chiedergli di ringraziare il Cardinale da parte sua, e tuttavia volle aggiungere: 'non ho voluto presentare la sua a Lorenzo per non alterare più questa causa de Castello quale pare posata'.

Anche per il secondogenito arrivò il punto dolente: 'quella harano possuto intendere in che mala contentezza io mi trovi per tristi portamenti de ciaschuno, non replicharò altro, salvo che io sono peggio tractata hoggi che el primo dì, et non posso havere pure un lenzuolo o una tovaglia'.

Accennò alle difficoltà che c'erano state alle villa – come riferitole da Fortunati – nell'ospitare Scipione Riario proprio per la mancanza ormai imbarazzante di suppellettili e arredi e poi, in modo simile a come aveva chiuso la lettera per Ottaviano, concluse: 'Idio vel perdoni che io vi contenterò presto.' e firmò.

Stanca, come se avesse appena sostenuto una delle fatiche di Ercole, la donna chiuse anche quel messaggio e poi lasciò la sua stanza, per andare a cercare Creobola. La trovò addormentata. La svegliò senza troppe cerimonie e le ordinò di far recapitare quelle lettere a Fortunati, che avrebbe saputo come indirizzarle.

La serva, con gli occhi ancora cisposi, annuì subito e poi, la lingua resa più sciolta dello stato assonnato in cui si trovava, domandò: “Quando torneremo in villa? Là almeno non era tutto sulle mie spalle...”

La Sforza non riprese Creobola per quel commento fuori luogo. Anche lei, anzi, cominciava a credere che fosse meglio rientrare al Castello, ora che la minaccia del Valentino si era allontanata e che Lorenzo sembrava avere ben altri problemi per il capo, piuttosto che farle guerra per l'eredità. E poi aveva anche voglia di tornare a far visita a Giovannino...

Così, mentre la serva ancora sbadigliava, la Tigre le disse: “Spero presto. E questa volta spero di potermici davvero sentire a casa.”

   
 
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