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Autore: drisinil    26/04/2022    3 recensioni
[Kurotsuki - rapporti a distanza] ]Il rapporto fra Tsukishima Kei e Kuroo Tetsturou è sempre stato "a distanza", ma per anni hanno covato l'illusione che un giorno avrebbero vissuto insieme, prima o poi.
E quando quel giorno arriva, viene fuori che i desideri quasi mai si avverano nelle forme che uno si era immaginato e bisogna di nuovo cambiare, di nuovo adattarsi. Va a finire che nella vita ti fregano sempre i dettagli, la tenerezza (o la crudeltà) delle piccole cose.
Questa storia ha vinto il contest Wattpad "La distanza tra me e te" del profilo @WattpadFanFictionIT
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kei Tsukishima, Tetsurou Kuroo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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«Hai carta e penna?»
«Eh?»
«Carta e penna, Tsukki, per segnarti una cosa.»
«Certo, come no, tengo carta e penna nel buco del culo apposta per te, sia mai me li chiedi all'improvviso, mentre piove e il cazzo di autobus non passa.»
«Ma ci stanno carta e penna nel tuo culo? Cioè, io lo conosco abbastanza e secondo me proprio non... »
«Crepa! Hai un cellulare in mano, mandami un messaggio!»
«No, questa cosa te la devi segnare. È importante.»
«Questa cosa cosa?»
«51212102»
«Ma fai sul serio? Che cazzo è?»
«Dai che ci puoi arrivare, Tsukki.»
«Tetsurou: piove a dirotto. L'autobus non passa. Ho fatto cinque ore di lezione, quattro di allenamento e ho ascoltato mezz'ora di lamentele di mio fratello sul fatto che Kokoro con una pancia di otto mesi continua a fare volontariato e lui non riesce a tenerla a casa. Ora ti ci metti anche tu con i codici del cazzo?»
«Esatto! È un codice. Con Koko vuoi che ci parli io?»
«Okay. Sei un caso disperato. Conto fino a tre e poi ti lascio, trovati un altro.»
«Naaa, non puoi vivere senza di me.»
«Uno.»
«Dove lo trovi un altro così fantastico a letto?»
«Due.»
«È la combinazione di casa nostra.»
«Tre.... come?»
«La combinazione della serratura di casa nostra.»

Casa nostra. Casa nostra.

«Kei? Sei vivo?»

Casa. Nostra.

«E tu per casa nostra, qualsiasi cosa significhi, hai scelto una combinazione a caso? Così siamo sicuri di chiuderci fuori?»
«Non è a caso! È il giorno del nostro anniversario. Ma scritto alla rovescia.»

Quindici dicembre duemiladodici.
Casa nostra. Casa nostra. Casa nostra.

«Stai facendo sul serio?»
«Sì, da cinque anni. Non dirmi che non te n'eri accorto!»
«Crepa! Dove sarebbe questa casa nostra? A metà strada fra Tokyo e Sendai, così ci facciamo un'ora e mezza a testa di andata e altrettanto di ritorno tutti i giorni, senza contare la metro?»
«È a Sendai.»
«Ti svelo un segreto: tu lavori nella cazzo di Shibuya. Sono tre ore di andata e tre di ritorno, sempre senza contare la metro. Pratico. E anche economico.»
«Il mio lavoro è flessibile.»
«Ah, flessibile. Aiutami un attimo: flessibile significa essere spediti in trasferta nei buchi di culo più assurdi del Giappone ogni due per tre?»
«Significa che posso vivere dove mi pare, tra un buco di culo e l'altro.»
«E dove ti pare?»
«Con te. Qui.»
«Qui dove?»
«Qui. Due isolati dopo la fermata dove ti stai inutilmente bagnando in questo momento. Perché non ti porti mai l'ombrello.»
«L'ho lasciato da te a Tokyo.»
«Sbagliato. È qui, a casa, nell'ingresso.»
«Tetsu, se questa cosa è una cazzata, giuro che ti lascio senza contare fino a tre.»
«Dai, muoviti. Ho portato il pollo karaage di Akaashi. Ti aspetto a casa.»
@38.2267396,140.8831336   Kuroo_Tetsurou ha condiviso la sua posizione.

Casa.
Nostra.

(E lo scemo l'ha affittata senza consultarlo.)

***

 

La prima cosa che Kei vede quando si sveglia è il libro abbandonato sul comodino con uno scontrino infilato in mezzo (morirebbe se usasse un segnalibro?).
Apre gli occhi nella luce incerta del mattino, si massaggia il naso, si strofina la fronte e mentre riprende coscienza lo sguardo inciampa su quel cazzo di libro. Ogni giorno. Che poi è Dazai Osamu, e quindi neanche può prendersi la soddisfazione di dire che è una merda.

È colpa del libro, è chiaro. Ma non solo del libro.

Ci sono anche le pantofole. Che sono due, naturalmente, ma il loro rapporto non era solido e hanno divorziato: una vive all'ingresso, esattamente dove dovrebbe, e l'altra, in crisi esistenziale, passa il suo tempo infilata sotto il bordo del letto basso che è il simbolo del compromesso fra i due inquilini della casa: scomodo come un futon tradizionale, ma con spigoli aguzzi contro cui si possono sbattere le dita dei piedi e imprecare a piacimento. Il che è molto moderno e anche un bel po' occidentale.
Ogni mattina, con gli occhi ancora gonfi di sonno e gli occhiali storti, Kei guarda male la pantofola (qualche volta la insulta), ma non la sposta.
Lo faccio domani, dice a se stesso, scavalcandola. E sa che è una bugia. Poi impreca, perché ha sbattuto il mignolo contro lo spigolo.

In casa c'è troppa roba, comunque. Un sacco di inutili doppioni.

In bagno, per esempio, ci sono due asciugamani, due accappatoi, due spazzolini da denti e un solo tubetto di dentifricio (spremuto male, accartocciato e con quel sapore merdoso di erba marcia).
Ora, è una verità universalmente riconosciuta che un adulto non dovrebbe possedere uno spazzolino da denti colorato, con i dinosauri. E invece eccolo lì, inclinato nel bicchiere, uno spazzolino giallo e verde con sopra un diplodoco. Perché ovviamente è un diplodoco: non un brontosauro, non un apatosauro e meno che mai un brachiosauro, figuriamoci.
Almeno su quel punto, dopo mesi di discussioni, lo scemo si è dovuto arrendere: non alla laurea in paleontologia che Kei prenderà fra otto mesi (inutile simbolo di conformismo e decadenza morale) ma all'autorevolezza di suo nipote Leo-chan, che ha solo cinque anni ma ha riconosciuto subito il diplodoco (sveglio, il ragazzo!). E quello spazzolino assurdo comprato apposta per lui non l'ha voluto: lo vuole elettrico. Però gli piace vedere suo zio che si lava i denti con il diplodoco. Anche a Kei piace.
L'acqua della doccia scorre sul corpo magro di Kei, mentre fissa quello stupido spazzolino. Fanculo diplodoco! E pensa (perché se c'è uno che non sa smettere di pensare quello è Tsukishima Kei) che dopotutto è normale, deve esserlo, lavarsi i denti abbracciati.
Chissà quante coppie lo fanno.
Loro lo fanno. Ed è una di quelle cose che non si vanno in giro a raccontare.

Cose che non si raccontano ne fanno parecchie insieme. E lo stato di frustrazione fisica di Kei è perenne. La nostalgia che la mente tenta di sminuire, di relegare a un dolore cronico di sottofondo, il corpo, con le sue prosaiche esigenze, la grida a gran voce a ogni occasione: nel sonno interrotto, nell'appetito ondivago, nelle erezioni a tradimento se si sofferma un momento di troppo su pensieri (solo in apparenza) ordinari. E poi la voce. La voce immorale dello scemo al telefono. Basta che rida in un certo modo, che schiocchi le labbra, che strascichi le sillabe finali delle parole che gli piacciono, o che mandi una stupida foto (e ne manda a dozzine) con un dettaglio delle mani, del collo, delle braccia. Sa sempre cosa mandargli, per ridurlo a uno straccio. Sa sempre cosa dire. Dove premere, cosa accarezzare e quanto, e come.
Del corpo di Kei, Tetsurou possiede tutte le mappe, conosce tutti i segreti. Le impronte dei suoi passaggi, Kei le porta addosso come abiti comodi.
«Falli dove posso vederli.»
E li guarda infatti, li tocca, li sente sotto i polpastrelli, nel cervello e come una scarica elettrica in mezzo alle gambe. Marchi nuovi, appena i vecchi spariscono. Che poi non è vero che spariscono; si schiariscono, si riassorbono, scivolano in silenzio sottopelle e vanno a depositarsi da qualche parte al confine fra i sensi e i sentimenti. Kei li massaggia insieme all'erezione che stringe fra le dita, li strofina, li tormenta.
Tutto il corpo di Tsukishima Kei è un unico marchio di possesso, un monumento (grottesco e delirante) allo smarrimento, alla resa, alla debolezza della carne, alla perdita di sé.
All'amore, forse? Kei se lo chiede mezzo secondo prima di venire contro le piastrelle bianche della doccia. All'amore no, che cazzo!
E invece sì, all'amore.

Doppioni inutili di tante cose e invece un unico armadio, perché l'appartamento che possono permettersi è piccolo.

L'affitto è interamente pagato dalla JVA, nella duplice forma dello stipendio da impiegato di Tetsurou (assunto da poco più di un anno) e del contratto da giocatore professionista di Kei (da tre anni, in seconda divisione, una miseria). Le uscite sono innumerevoli, la capacità di amministrarsi in crescita, ma passibile di miglioramento.
Il totale annuo dei loro proventi ha fatto sgranare gli occhi di Bokuto come padelle e poi l'ha fatto ridere forte: pensava fosse uno scherzo, lui guadagna quella cifra in un paio di mesi, solo di sponsor.
Comunque, se a Kei proponessero di sponsorizzare qualcosa, risponderebbe con il dito medio ben alzato. Quindi, meglio condividere l'armadio e continuare a litigare per le mensole occupate, le invasioni di campo, le mutande piegate male e finite nel cassetto sbagliato.
«Guarda che non ce l'ho messa io!»
«Ha le gambe? C'è andata da sola?»
«L'avrai fatto tu: hai un feticismo per le mie mutande.»
È abbastanza vero, visto che se ne sta giusto infilando un paio non sue (grigie, bellissime), ma è comunque molto irritante.
E restano solo cinque camicie pulite. Fanculo.

L'odore del caffè riempie la casa.

Chicchi costosi, macinati fini, perché Tetsurou, da quando sua sorella vive in Francia, ha una fissazione per il caffè europeo fatto con quel diabolico aggeggio che fischia e ribolle. Ogni volta che è Kei a fare il caffè, è sempre troppo lungo o troppo forte o troppo annacquato o del tutto bruciato.
Kei pesca un dorayaki confezionato dalla scatola di latta azzurra, ammaccata sull'angolo (per via di quella volta che l'ha scagliata contro il muro) e si versa una tazza di caffè fumante. È lungo, annacquato e fa cagare (letteralmente, talvolta). Ma il profumo è buono.
Seduto a tavola, Kei beve in silenzio, prestando orecchio all'eco di tutte le parole, le risate, gli insulti che tappezzano le mura di quella stanza, insieme all'odore del tamagoyaki dolce e degli anpan appena sfornati.
Una volta ci hanno anche fatto l'amore, ed è stato incredibilmente scomodo, in qualche momento persino demenziale. Nel complesso, un gran bel ricordo.
Solleva la tazza e brinda da solo, con l'ultimo sorso.

Sul balconcino ci sono tre vasi di fragole; anche nel loro rifiorire è custodito un ricordo.

Kei tasta il terreno e decide di innaffiarle, anche se il meteo prometteva pioggia.
Alle previsioni del tempo Kei dà più o meno lo stesso credito che darebbe a un cartomante. Ha seguito persino un corso di meteorologia all'università (era obbligatorio, per quanto abbia tentato, non è riuscito a sostituirlo con un'interessantissima monografia sulla letteratura Edo) e tutte quelle insipide pagine di equazioni non lo hanno affatto convinto che le variabili del mondo possano essere ricondotte, o anzi ridotte, a pochi semplici modelli.
Quindi non pioverà.
All'ingresso stazionano tre ombrelli. Kei li fissa con una certa ostilità, ne prende uno (nero all'esterno, all'interno blu scuro con le costellazioni boreali, un regalo di Akiteru) e poi lo appende nuovamente al gancio, sbuffando.
«Prendi l'ombrello, il meteo dice pioggia.»
«Fanculo al meteo, non ci credo.»
«Benvenuti nell'era Kamakura. Dai, ti accompagno in macchina.»
Lo specchio gli restituisce l'immagine di un volto pallido, occhiali rettangolari, capelli biondi troppo lunghi. Ci passa in mezzo le dita e, solo per un attimo, quella mano non è la sua. Chiude gli occhi, li riapre: dovrebbe tagliarli, davvero. Sono scomodi, si sporcano prima, gli finiscono sempre in faccia quando si allena e non c'è una sola possibilità al mondo che lui si metta in fronte una di quelle ridicole fasce di spugna che porta Kogane-kun.
Dovrebbe tagliarli, punto e basta; questa faccenda di tenerli lunghi solo perché allo scemo piacciono così deve finire. Li taglierà, ha deciso, e lo farà oggi.
O magari domani.

Kei esce dal portone e non sta piovendo.

La città è intrappolata in se stessa, oppressa da un cielo grigio e uniforme: niente nuvole, niente luce. Tutto è sospeso, immobile, appannato, in attesa di qualcosa che forse arriverà. Non si sa cosa, non si sa quando.
Kei conosce bene la sensazione: sei anni di sospensione, di fiato tirato, di apnee dolorose fra un treno e l'altro, fra un bacio e l'altro, ingoiando grandi boccate d'aria e di luce ogni volta che si può, e poi imparando a farsi bastare le briciole, i ritagli. Una vita costantemente messa in pausa, col cuore in letargo mentre il tempo intanto corre, il pianeta gira e loro restano indietro.
Ne vale la pena?
Sul serio, ne vale pena?
Cazzo, sì. Purtroppo, o per fortuna.
Kei si volta indietro prima di svoltare l'angolo. Lo fa sempre; quando Tetsurou è a casa, lo saluta dalla finestra (in mutande, mentre sbadiglia e si gratta il fianco sotto l'elastico).

L'autobus è l'anticamera dell'inferno (Kei è abbastanza sicuro di finirci, ma è abbastanza sicuro che ci finirà anche Tetsurou e quindi, alla fin fine, sarà solo un trasloco).

All'inferno, forse, farà un po' più caldo, ma di certo l'odore non sarà peggiore. È impossibile.
In realtà, quando Kei immagina l'inferno, ha sempre l'aspetto dell'aeroporto di Sendai, partenze nazionali. Tetsurou che sparisce oltre i tornelli del metal detector con la mano alzata (ma senza voltarsi) e all'improvviso l'universo perde un grado di libertà, si appiattisce in un groviglio insensato di facce vacue, tubi d'acciaio, vetri sporchi e pareti grigiastre. Kei si aggira come un dannato in quel cazzo di posto e ormai ne conosce ogni anfratto, negozietto, panchina e cesso. Sollievo non c'è n'è mai da nessuna parte (e i cessi li odia proprio).
Ma questo è solo un autobus: maleodorante, affollato e banale.
Di fronte a lui, due ragazzini in gakuran si guardano. Nonostante siano pigiati in mezzo a tutti gli altri, loro non si sfiorano. Anzi, uno fa da scudo all'altro, stando ben attento a non toccarlo.
Però si guardano, con un'ostinazione sfuggente (e struggente) che Kei conosce (e riconosce). Non è fissarsi, ma al contrario schermirsi, cercarsi, ritrarsi.
E sperare.
Sperare che l'autobus freni di colpo. Sperare che nessuno, lì fuori, si accorga di come ti senti dentro, sperare di non portarlo scritto in faccia. Sperare che ti passi, prima o poi. Sperare che la sua ragazza - perché ne ha una per forza - cada in un burrone. Sperare di sbagliarsi, o di non sbagliarsi. Sperare di tenersi addosso quello sguardo ancora per un attimo e non morire d'infarto. Sperare di guarire e tornare sano di mente.
E poi di nuovo, che l'autobus inchiodi al prossimo semaforo.
Quando è successo, che ha smesso di sentirsi così?
Non ha smesso. Non riesce a smettere; con le droghe pesanti non si esce mai dal tunnel.

Il tempo è un tiranno volubile, accelera e rallenta con dispotica malevolenza: le giornate si consumano in un battito di ciglia fra i ritorni e le partenze di Tetsurou e arrancano con esasperante lentezza fra le partenze e i ritorni, in una perpetua, estenuante aritmia dei sentimenti.
Quale sia il ritmo giusto per vivere, Kei non lo sa più. Sa che il mondo inizia e finisce dove (e quando) le distanze si annullano, in quel letto scomodo che a volte è troppo piccolo per contenere gli impeti e le corse e i sospiri e le risate, nel punto esatto in cui inizia la prima persona plurale e tutti gli altri pronomi (e il resto del mondo) se ne vanno elegantemente affanculo.
Ha anche due misure, il tempo. Lento, per l'assenza di chi lo rende veloce, ma scoordinato, sincopato, per cui esistono giornate sfiancanti che non passano mai e comunque si riesce a essere in ritardo. Come oggi.
Kei guarda sconfortato l'orologio e salta giù dall'autobus. Allunga il passo, la facoltà è pochi passi dalla fermata.

Il telefono squilla mentre la prima goccia di pioggia lo colpisce sulla nuca.

«Kei.»
Basta questa parola. Kei si sente proiettato all'istante oltre il baratro della distanza. Un'ascesa vertiginosa, che gli spinge il cuore contro il diaframma, gli spezza il respiro, gli aggroviglia lo stomaco (come quando aveva sedici anni e qualche volta, solo qualche volta, gli è persino spuntata una lacrima all'angolo dell'occhio. Piccola. Piccolissima. Insignificante.)
Torna. Torna, ti prego.
Kei non lo dice. Lo pensa con violenza, lo urla internamente, ma dalla bocca esce un normale saluto, una punta di sarcasmo.
Per un po' restano zitti ad ascoltarsi respirare.
Il silenzio misura il vuoto e lo trasforma in nostalgia. Perché, Kei ormai lo sa, la nostalgia che gli divora la vita non è altro che questo: l'incarnazione sentimentale di una distanza.
Una distanza che si colma sperando. E ridendo. E allungando le dita verso il futuro.
Tetsurou ride al telefono. Con gli occhi socchiusi, il mento in alto, le spalle che sussultano, Kei riesce a vedere ogni dettaglio di quella risata e, uno per uno, li accarezza col pensiero, indugiando sulle armoniche del suono, sulla curva delle labbra, sui denti bianchi, sulle pieghe agli angoli degli occhi e su tutta quella luce chiara dentro.
Si colma così la distanza, spingendo l'immaginazione fino ai limiti del dolore.
Si colma parola dopo parola, costruendo con pazienza ponti effimeri, trasformando la solitudine in aspettativa, deformando il bisogno in attesa, contando il tempo alla rovescia e intanto proiettandosi in avanti, incanalando la frustrazione in propositi e i propositi in progetti, dando all'attesa la forma di tutti i desideri.
Ed è una forma sola: quella dell'altro.

Kei chiude la chiamata. È in ritardo. Ed è bagnato fradicio. La lacrima insignificante dev'essere pioggia.

 

   
 
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