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Autore: kitsune999    06/09/2009    1 recensioni
Una guida maldestra figlia di un jet-lag devastante e di un senso di marcia inverso. Un kotatsu caldo e accogliente da condividere mentre fuori il paesaggio si veste di bianco. E un'autrice o pseudo tale che fa una fatica boia a trovare delle frasi introduttive decenti da scrivere qui.
[Step 3 • Inverno]
_______________________________
[Kojirō ✘ Jun]
Raccolta "stagionale" di one-shot dementi dedicate al mio secondo OTP per eccellenza.
Genere: Commedia, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jun Misugi/Julian Ross, Kojiro Hyuga/Mark
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Vabbè, mo' ci dò a mucchio, non posso farci più niente ora che il mononeurone mi ha chiuso per ferie. *Alza lo sguardo e si accorge del pubblico* Oh? Ah!! Ahem *tossicchia imbarazzata* Salve! *parte la logorrea* Invoco la vostra grazia ultraterrena per perdonare questa mia storia, frutto di uno sclero a base di ettolitri di Estathè ghiacciato, il mio rimedio prediletto – beh, oltre all'aria condizionata e al nudismo in domus mea, chiaro - per resistere alla calura estiva. So benissimo che cronologicamente parlando, dopo la primavera e l'estate, avrebbe più senso che al posto dell'inverno ci fosse l'autunno, ma non posso avere l'ispirazione a comando xD Perciò, in attesa della sua venuta, sollazzatevi (si fa per dire) con questa terza shot semplice, prevedibile e pure - ebbene sì, almeno per i miei standard - tragicamente dolciastra. Sigh.



♦ Kikoku ♦

帰国

~Dove c'è un kotatsu, c'è casa.

 

♪♫Don't worry...be happy, now! Uh-uh-uh-uuuh-uuuh...♪♫
No, perdio, questo no. Spense con un gesto secco la radio da cui risuonava quella musica irritante e, sospirando, staccò per un momento le mani sudaticce dal volante per asciugarsele sui pantaloni. Non che facesse caldo, dato che all'esterno si toccavano appena i tre gradi sopra lo zero e l'atmosfera festosa tutt'intorno a lui preannunciava l'arrivo imminente del Natale.
Era da oltre un anno che non guidava nel senso di marcia giapponese, e iniziava lievemente ad innervosirsi: poc'anzi, ad un dare precedenza, era rimasto convinto fino all'ultimo che fosse un suo sacrosanto diritto il poter passare per primo, ed aveva ignorato la freccia sinistra lampeggiante della Subaru bianca di fronte a sé, reale detentrice del privilegio.
“Ma che cazzo fa, mi taglia la strada?” Aveva pensato stizzito nel notare che la suddetta Subaru non accennava a fermarsi, anzi, aveva pure osato approntare il clacson per sottolineare il suo passaggio, cosa che gli era valsa un paio di coloriti epiteti. Era riuscito ad evitare lo scontro soltanto grazie ad un'inchiodata da manuale e aveva già la mano sulla maniglia della portiera, pronto a scendere per far valere le proprie ragioni, quando improvvisamente aveva afferrato che era lui ad essere nel torto.

E adesso, questo. Si chiese se non fosse colpa del maledetto jet-lag, che lo aveva lasciato stordito per tutte le ventiquattro ore precedenti, inducendolo in uno stato di sonno pesante (o coma leggero, a piacere) intervallato esclusivamente da uno svogliato e caracollante pellegrinaggio in cucina alle dieci di sera per – secondo lui – fare colazione.
Non ricordava che uscire da un parcheggio potesse essere tanto complicato, ma il fatto era che non aveva ancora dimenticato la manualità acquisita nell'utilizzare una macchina col volante posto a sinistra. Esattamente il contrario rispetto a dove era attualmente collocato nella sua Toyota Corolla.
Lo impugnò come avrebbe fatto col timone di un transatlantico e inserì la retromarcia, sbirciando per l'ennesima volta nello specchietto alla ricerca di un'ulteriore conferma della situazione alle sue spalle. Infine, pigiò sull'acceleratore con cautela e iniziò in contemporanea a girare il volante a destra per ruotare l'asse.
No, un attimo, così sarebbe andato contromano. Doveva girarlo a sinistra per poter confluire agevolmente nella circolazione.
Con la coda dell'occhio vide che il flusso di auto sulla strada in cui doveva immettersi aveva ripreso, complice il semaforo verde, e - distratto da questa constatazione e dal fatto che dovesse sbrigarsi ad invertire il suo senso di uscita - non usò la calma necessaria. D'altra parte, lui e la calma non erano mai stati intimi amici.
Nel tentativo di evitare una collisione laterale con il mezzo posteggiato a fianco del suo, sterzò piuttosto bruscamente dalla parte opposta: peccato che, avendo preso male le misure, ormai fosse troppo tardi per qualsivoglia manovra repentina.
Sbadabrang.
Ecco.
Ma cazzo.
Era appena tornato nel suo paese e praticamente la prima cosa che faceva era cioccare un'inerme macchina parcheggiata? E va bene che la guida in Italia era al contrario, ma non credeva di poter avere tutte quelle difficoltà nel riprendere le vecchie abitudini. Guidare non doveva essere come andare in bicicletta, che una volta imparato non lo si scorda più?
Lo sapeva, avrebbe fatto meglio a prendere la metro. Che gli era venuto in mente di motorizzarsi, sfasato com'era? In fin dei conti nulla era cambiato: spostarsi in auto a Tōkyō equivaleva sempre ad un suicidio.
Scomodando con veemenza una buona metà dei santi in paradiso, raddrizzò rabbiosamente la Corolla e scese sbattendo la portiera. Il parafango posteriore destro della Nissan Skyline GT-R34 blu metallizzato faceva sfoggio di un'insigne ammaccatura, che ne sfigurava decisamente la linea impeccabile: ci mancava solo quella, probabilmente era l'auto di un qualche riccone snob appassionato di vetture sportive. La sua Toyota, invece, ne era uscita quasi illesa a parte il fanale anteriore sinistro, i cui resti giacevano sull'asfalto.
Ringhiando a denti stretti l'ennesima serie di improperi – per cui aveva una discreta fantasia nonché un innato talento - rientrò nell'abitacolo e raggiunse il cruscotto, in cerca di un pezzo di carta e di una penna: raccattò un vecchio volantino sul cui retro era possibile scrivere, ma non la penna.
Dominato da uno scazzo di proporzioni ormai drammatiche, stava considerando seriamente l'ipotesi di scrivere il biglietto col sangue pur di andarsene da lì, quando, finalmente, rintracciò una biro finita a terra sotto il tappetino nel posto del passeggero. Con una calligrafia più gallinacea del solito scribacchiò il proprio cognome e il numero di cellulare - un prepagato acquistato poche ore prima -, poi sistemò il messaggio infilandolo fra il tergicristallo e il parabrezza dell'auto incidentata.
Stava per risalire sulla propria quando gli venne da starnutire e si portò istintivamente una mano alla guancia, dove aveva appena sentito depositarsi qualcosa di freddo e bagnato. Alzò lo sguardo al cielo plumbeo, mentre iniziavano a scendere le prime gocce di una pioggia gelida che, con tutta probabilità, si sarebbe presto tramutata in neve.
Proprio un rientro rutilante, non c'era che dire. Bentornato in Giappone.

E ti pareva.
Figurarsi se bastava il freddo pungente, c'era davvero bisogno che pure il diluvio universale venisse a dar manforte a quella giornata partita già abbondantemente col piede sbagliato.
Intenzionato a risparmiarsi una doccia all'aperto il ventidue di Dicembre, raggiunse di corsa la Nissan Skyline e armeggiò qualche secondo con il contenuto delle sue tasche, finché non ripescò le chiavi. Stava per inserirle nella serratura, ma notò un biglietto francobollato al parabrezza: sollevò il tergicristallo e lo afferrò, convinto che si trattasse di pubblicità e pertanto già pronto ad appallottolarlo e gettarlo via. Però...che c'era scritto? Un nome e un numero di telefono?
Ebbe un pessimo presentimento. Dubitava fortemente che potesse trattarsi del tentativo di adescamento messo in atto da qualche fan e, per fugare ogni dubbio, fece velocemente un giro intorno alla macchina.
Eccola. L'ammaccatura era lì, in tutto il suo splendore.
Sbuffò contrariato, esaminando il danno. Niente di irreparabile, tanto più che avrebbe pagato l'assicurazione, ma suo padre sarebbe andato su tutte le furie ugualmente. Era mai possibile che dovesse succedere una cosa simile l'unica volta che prendeva la sua auto preferita senza avvertirlo? Non aveva ritenuto necessario farlo, aveva fretta di sbrigare alcune commissioni noiose oltre ogni dire e poi non l'aveva nemmeno trovato in casa, visto che, come al solito, non ci avrebbe rimesso piede almeno fino a sera inoltrata.
Si consolò pensando che non tutto il male veniva per nuocere. In definitiva gli era andata bene, aveva incontrato una persona onesta che gli aveva lasciato gli estremi.
Concluse che fosse inutile stare ad angustiarsi lì dov'era, meglio farlo in un posto più confortevole: malgrado inizialmente avesse pianificato di evitare la doccia, ormai era quasi completamente fradicio, per cui con un sospiro si decise ad entrare nell'abitacolo.
Una volta dentro si passò una mano fra i capelli, per domare le ciocche ribelli e gocciolanti che gli si attaccavano dispettosamente alla fronte, e si rigirò il biglietto zuppo d'acqua fra le dita, facendo attenzione a non strapparlo. Notò che era scritto su un brandello di carta proveniente dal retro di un volantino che pubblicizzava i piatti di un Izakaya①, ne era visibile anche il nome: Taito, situato nella zona di Roppongi. Ma quel locale non aveva chiuso più di sei mesi fa?
Scosse la testa, chiedendosi perché mai dovesse preoccuparsi di far caso a dettagli così insignificanti, e passò a decifrare il nome, armandosi di pazienza. Aggrottò le sopracciglia, concentrato, mentre tentava di identificare i kanji scarabocchiati da quel guidatore della Domenica che, oltre ad essere un conducente dalle abilità discutibili, pareva avere anche una pessima grafia. Naturalmente l'inchiostro sbavato dalla pioggia non aiutava nella comprensione, ma...sembrava proprio chiamarsi Hy...ūga, sì. Che coincidenza. Comunque non poteva essere lui, in primis perché a quell'ora avrebbe dovuto trovarsi a diecimila chilometri di distanza, e poi perché il numero di cellulare, da quel poco che si capiva, non era il suo.

Se lo ricordava ancora chiaramente, nonostante non l'avesse più composto da quando aveva lasciato il paese. Kojirō aveva cambiato numero e si era comprato un nuovo cellulare per essere reperibile in Italia, ma alla fine lo usava di rado per chiamare nella madrepatria, a causa delle tariffe proibitive: ciononostante, era quasi sempre lui a farsi sentire da dove gli capitava, per esempio da una cabina dei giardini pubblici o dal telefono di un bar, con cadenza assolutamente irregolare e incurante del fuso orario. Sovente il suo apparecchio squillava nel cuore della notte, e non poteva neppure ovviare al problema spegnendolo prima di andare a dormire, altrimenti quello avrebbe ripiegato contattandolo sul fisso, svegliando così anche i suoi.
-Non ho sempre il tempo per stare a far telefonate, io – Aveva puntualizzato, con fare alquanto detestabile, la prima volta che gli aveva chiesto di prestare più attenzione alla differenza di fuso – e poi mica dobbiamo raccontarci la storia delle nostre vite. E' giusto per sapere se sei ancora vivo. -
Ottima argomentazione, difatti le loro conversazioni solevano durare un tempo compreso fra i tre e i cinque minuti. Nessuno dei due era affetto dal temibile morbo della Parlantina Feroce e Inarrestabile, grazie al cielo.

Il primo della trafila di starnuti che lo avrebbe colto di lì a poco gli lasciò sottilmente intendere che fosse giunta l'ora di rimettersi in moto verso casa, sospendendo lo sdoganamento di flashback, a meno che non intendesse buscarsi un raffreddore. Mentre ripiegava il biglietto e se lo infilava in tasca, pensò distrattamente a quanto facesse freddo e poi, benché avesse decretato da tempo la completa inutilità dell'arrovellarsi sulla questione, riprese a rimuginare su Kojirō e sul suo modo di eclissarsi elegantemente per giorni interi. Certo, non che gli desse mai la soddisfazione di cercarlo, sia chiaro. Oltretutto l'esiliato non amava particolarmente connettersi ad Internet②, e ciò era un ottimo deterrente per l'uso del computer, che gli avrebbe permesso di sentirsi un po' più spesso.
Eppure, circa una settimana prima, aveva ricevuto una sua mail. Stringata e scritta per metà in italiano, affascinante idioma di cui lui però non spiccicava mezza sillaba: arguendo che non potessero essere cose importanti non gliene aveva chiesto la traduzione, accontentandosi delle scarne informazioni fornitegli in giapponese, per altro piuttosto futili.
Da lì in poi la situazione si era fatta stagnante, perché non ne aveva più avuto notizie. Come da copione, non si era ancora degnato di fargli sapere quando – e se, dato che non si poteva mai dare niente per scontato trattandosi di lui – sarebbe ritornato in Giappone per il break natalizio. Avrebbe voluto chiamare per domandarglielo, ma immaginava che fosse occupato e l'ultima cosa che voleva era disturbarlo.
O meglio, l'ultima cosa che voleva era incominciare a dare evidenti segni di impazienza, facendogli capire anche soltanto vagamente quanto non vedesse l'ora di rivederlo.

Non appena si richiuse la porta alle spalle, Kojirō si rese conto di essere stanchissimo, e non solo per via degli strascichi del famigerato jet-lag o per le seccanti faccende che aveva dovuto sbrigare quel pomeriggio. Doveva essere l'adrenalina che veniva avidamente riassorbita dopo gli svariati contorcimenti di stomaco dovuti alle frecce notate all'ultimo, alle marce grattate con rabbia, ai semafori ansioliticamente sempre troppo lunghi e agli incroci nefasti forieri di tensioni e imprecazioni.
Tutto questo stress per un innocuo giretto in auto di neanche mezz'ora?
Sì, innocuo un par di palle, si disse. Per fortuna non era durato di più, altrimenti chissà cos'altro sarebbe potuto succedere.
Gettò con noncuranza la giacca sull'appendiabiti in corridoio, alzò il termostato di un paio di gradi e si lasciò cadere sul divano, a mo' di bracciante agricolo che si riposa dopo diciotto ore filate di lavoro pesante, intenzionato a sprofondare nel sonno a suon di zapping selvaggio. I suoi fratellini erano al doposcuola e sua madre doveva essere uscita a fare la spesa, quindi per una volta poteva godersi in santa pace l'ambito monopolio del telecomando. Non si sentiva un granché in forma e poltrire ancora un poco gli avrebbe sicuramente giovato, anche perché in fin dei conti non aveva impegni improrogabili per quelle feste.
A parte uno. E non era nemmeno una cosa urgente, dopotutto era appena tornato e di tempo ne avrebbero avuto. Prima di mettersi in contatto con lui stabilì che fosse il caso di di riprendersi un po', e si acclimatò meglio, diventando una specie di tutt'uno col sofà.
Si sarebbe volentieri venduto un rene piuttosto che ammetterlo, ma c'erano stati dei picchi in quell'anno trascorso all'estero in cui si era sentito solo come un dente caduto. I suoi nuovi compagni di squadra si erano rivelati essere veramente odiosi, almeno all'inizio, perché non aveva certo tardato a fargli notare che non aveva scritto “Gioconda” in fronte o “Welcome” sul didietro.
Dei primi tempi ricordava in maniera vivida la sgradevole impressione di avere un bersaglio tatuato sul collo: chi si sarebbe conquistato cinquanta punti con un bel centro perfetto? Ghignò fra sé e sé. L'impatto col calcio professionistico era stato ostico, eccome, ma in un certo senso gli era servito, si era fortificato più di quanto non lo fosse già.
E NO, quella cosa non era affatto urgente, si ripeté muovendosi inquieto contro lo schienale. Fissò per qualche minuto lo schermo, gracchiante amenità pubblicitarie, con gli occhi vacui e la mente completamente altrove.
Senza che ci facesse caso, il suo sguardo inebetito si posò sull'orologio appeso alla parete di fronte. Le cinque e mezza.
Chissà cosa stava facendo. Se l'avesse chiamato adesso, dicendogli che si trovava già in Giappone, sicuramente gli avrebbe fatto una bella sorpresa.
Macché, rifletté scuotendo la testa, gli sarebbe venuto un colpo, altro che effetto sorpresa.
Neanche il tempo di finire di formulare il pensiero che aveva già raggiunto il cordless nell'ingresso e composto il numero, dopo essere balzato su dal divano come spinto da una molla invisibile.

Quando Jun aveva letto il nome sul display, gli era quasi scappato il ricevitore di mano.
Era tornato da poco, ma ci aveva messo meno di un minuto a sbarazzarsi della fastidiosa presenza degli abiti umidi e appicicaticci, che parevano esserglisi incollati alla pelle serica. Constatò con una smorfia che i suoi capelli emanavano una velata fragranza di Cane Bagnato N.5, e gongolò all'idea di concedersi un profumato e bollente bagno ristoratore “caratterizzato dall'esotico sentore di Vetiver, che assicura alla toilette maschile una freschezza intensa e dinamizzante i cui benefici persistono a lungo” -, come recitava soave l'etichetta del flacone③. Confidando in questa promessa ne versò un consistente quantitativo nell'acqua, dalla cui superficie iniziò a lievitare una schiuma voluttuosamente soffice dall'aroma avvolgente.
Ottimo, i presupposti per riuscire a distendersi c'erano tutti. Si ostinava a prenderla con divina imperturbabilità, ma si stava rivelando essere assai snervante avere come sovrano incontrastato dei propri pensieri una certa persona attualmente lontana. Avvertiva il bisogno impellente di distogliere l'attenzione, fosse anche per un unico quarto d'ora di illusoria serenità.
Aveva già un piede nella vasca quando udì il telefono trillare e, manco a dirlo, in casa non c'era nessuno che potesse rispondere al posto suo.
Rivolgendo un silenzioso anatema al meraviglioso tempismo di certa gente, si legò un asciugamano in vita e percorse rapido l'interminabile corridoio per raggiungere il cordless, rassegnato a rimandare di qualche istante i propri propositi rilassanti.
Di certo non si aspettava che potesse essere proprio lui, che per giunta lo chiamava ad un orario umanamente accettabile.
Non solo. Da casa.
Resosi conto della cosa, aveva esitato un paio di squilli più del necessario per ripigliarsi e darsi il tempo di calmare il batticuore.
Quel deficiente era già rimpatriato.
Difatti, lo accolse la sua voce tracimante di boria, probabilmente convinto di aver organizzato la sorpresa del secolo.
-Indovina dove sono.
-A casa tua. Lo vedo dal numero, genio.

Di fronte a quella replica pacata e laconica, Kojirō si espresse con un grugnito pregno di significati intrinsechi. Tipico. Sarebbe dovuto arrivarci subito, accidenti a lui e alla sua improvvisa e insensata fretta. Si morse un labbro, rendendosi conto che non aveva affatto pensato a cosa dirgli, sempre per la ragione di cui sopra. Fortunatamente, dopo quella battuta d'arresto, fu l'altro a rompere il momentaneo silenzio che si era creato.
-Bentornato.
Non era stato esattamente un bentornato, anzi. Non gli era successo niente di buono da quando, appena tre ore prima, era uscito dalla catalessi che l'aveva portato a dormire tutta la mattina fino al primo pomeriggio, dopo aver trascorso la notte in bianco giocando alla Playstation, vittima dell'insonnia e con l'opprimente sensazione di avere la testa piena di sabbia per gatti. Ma il tono caldo e morbido con cui pronunciò quell'unica parola gli diede i brividi e gli instillò una dose considerevole di stamina, che spazzò via sia la stanchezza degli ultimi due giorni sia l'indecisione di quell'istante.
Con il cordless in una mano e la giacca già buttata in spalla si infilò le scarpe abbandonate nell'ingresso, esclamando:
-Resta dove sei, vengo da te.
Con studiato pressapochismo, Jun simulò uno sbadiglio e bofonchiò, stiracchiandosi:
-E chi si muove. Sono reduce da un pomeriggio di commissioni tediose oltre i confini dell'umano sentire, non avrei voglia di uscire neanche per vedermi con te. Anzi, men che meno per vedermi con te.
Sì, anche tu mi sei mancato, pensò sarcastico Kojirō prima di rispondergli schioccando la lingua, a metà fra il serio ed il faceto.
-Figuriamoci. Occhio che ti voglio in forma per quando sarò lì, vedi non farti male mentre scendi dal piedistallo. Non so perché, ma ho l'impressione che diventi sempre più alto.

Col cavolo che stavolta avrebbe usato la Corolla, si disse uscendo dalla propria abitazione senza curarsi di prendere un ombrello o di controllare di aver chiuso bene porte e finestre. Un incidente al giorno bastava e avanzava, grazie.
Come da consuetudine invernale, la coltre di buio era già calata, nonostante fossero a malapena le sei di sera. La fioca luce dei lampioni illuminava la strada, brulicante di salary-men sulla via di casa, studenti tiratardi e massaie cariche di borse della spesa. A testa bassa e a passo svelto, con la visiera del berretto calcata sugli occhi – unica protezione che si era concesso contro vento e pioggia -, dribblò agilmente i passanti e raggiunse la stazione della metro più vicina, infilandosi velocemente in quegli anfratti sotterranei non riscaldati.
Rabbrividendo, si sfregò le mani intirizzite. Aveva scordato di riesumare i guanti dalla valigia, e faceva un freschino degno di nota. Certo che l'esimio Signor Gelo si stava impegnando sul serio, quel giorno! Il respiro tiepido si condensava sospeso a mezz'aria, convergendo in una nube evanescente e tessendo tortuose volute prima di disperdersi: la temperatura si era abbassata ulteriormente e doveva essere ormai prossima allo zero, a giudicare anche dalla ex-pioggia trasformatasi in nevischio rarefatto. Niente di nuovo, da un paio di settimane l'intero paese si trovava in balia di una morsa siberiana che faceva fioccare cifre bassissime, peggio che durante i saldi di fine stagione.
Attese qualche minuto l'arrivo del treno e gli parve di rinascere non appena prese posto sul vagone squisitamente climatizzato. Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal piacevole tran-tran, beandosi del teporino quasi commovente che sprigionava il suo sedile④.
Sì, gli era mancato. I duelli verbali, le frecciatine vicendevoli, la sottile intesa di fondo, il capirsi alle volte semplicemente scambiandosi uno sguardo. Tutte cose che, attraverso un freddo ed impersonale apparecchio telefonico, andavano un po' perse, per non parlare poi del contatto fisico, che gli era mancato in un modo persino doloroso.
Decisamente, l'ascetismo non faceva per lui.

-Cosa mangi in Italia? Sei grasso come un lardino.
Giust'appunto, a proposito di punzecchiatine e compagnia bella. Non che sperasse di venire accolto con un abbraccio vinavilitico o un bacio passionale in stile “Via col Vento”, comunque.
Aveva messo su qualche etto, va bene, di muscoli, per lo più. Lui tutto quel grasso mica lo vedeva.
Gli allungò cappotto e cappello mentre si toglieva le scarpe da ginnastica bagnate, lasciandole alla rinfusa sulla pedana del vestibolo. Gli scoccò un'occhiata al vetriolo e, inarcando un sopracciglio, borbottò:
-Wow, non hai perso il tuo simpatico aplomb, vedo. A parte che non è lardo, fidati che se assaggiassi la vera cucina italiana non ti sorprenderesti.
Jun afferrò le cose che gli porgeva e sorrise sardonico senza aggiungere nulla, veleggiando dalla parte opposta della stanza per sistemarle sull'appendiabiti. Lo osservò sedersi sull'ampio divano della sala con un tonfo – lui sì che aveva fatto del non formalizzarsi un'arte - per poi poggiare comodamente i piedi sopra il basso tavolino da salotto in pregiato legno noce massello, con le sponde sagomate e il vetro smerigliato. Se l'avesse visto sua madre, probabilmente avrebbe avuto un mezzo mancamento.
Lui stesso in un'altra occasione forse l'avrebbe ripreso, se non altro per imprinting: era una reazione quasi automatica, dopo tutte le volte in cui in passato la genitrice gli aveva amabilmente rotto le scatole, intimandogli di fare attenzione a non sgualcire quel dannato tavolinetto dall'inutile funzione puramente decorativa.
Ma lei non c'era. Non c'era nessun altro, se non l'unica persona che realmente gli interessasse.
-Allora, proprio ti faceva schifo avvertirmi per tempo, vero? Scommetto che come minimo sarai arrivato ieri – gli fece con nonchalance, sedendoglisi vicino e accomodando i piedi accanto ai suoi.
Kojirō tossicchiò, biascicando che non faceva alcuna differenza ai fini dello scopo, poi non si trattenne dal lanciare un poderoso starnuto. A dire il vero gliel'aveva preannunciato, in quella famosa mail scritta mezza in italiano. Nella parte in italiano, appunto.
Stava per farglielo presente, pregustando già un po' di sano sfottò da perpetrare ai danni della sua ignoranza verso una lingua di cui lui, invece, masticava qualcosa, quando l'altro propose:
-Senti, accendo il kotatsu, che ne dici? Non ho bisogno di beccarmi anche i tuoi germi, ne ho già abbastanza dei miei. Credo di essermi buscato un mezzo raffreddore, oggi.
Il kotatsu. Una delle gioie della vita. Abbandonò seduta stante l'idea di bullarsi di lui - anzi, aveva smesso di ascoltarlo da quando aveva pronunciato la fatidica parola - e lo guardò con occhi acquosi, mentre gli tornava alla memoria che da oltre un anno non ne vedeva uno. Che nostalgia.
Si accomodarono in un'altra stanza, più piccola e fredda rispetto alla precedente – dotata di un impianto di climatizzazione stellare -, nel cui centro campeggiava l'unico oggetto utile a riscaldarsi in quell'ambiente, ovvero un tavolino basso accerchiato da un paio di morbidi strati di futon. Kojirō non diede il tempo al dispositivo integrato di fare il proprio dovere, ossia di riscaldare la coperta ad hoc, perché vi si infilò sotto a gambe incrociate non appena il padrone di casa lo accese. Fu una specie di ritorno alle origini, completato dallo stravaccamento inconsulto a faccia in giù sul liscio legno lucido e da un languido sospiro melodrammatico. Jun sogghignò e gli si accoccolò di fianco, appoggiando anch'egli una guancia sul tavolo.
Rimasero per un po' a scrutarsi in quella posizione assurda, gli sguardi pieni di una sorta di estatica contemplazione, mentre fuori la neve si era fatta più consistente e la parte inferiore dei loro corpi veniva lentamente avvolta da un clima subtropicale – lasciando, per contro, quella superiore immersa nell'Antartide.
-Lo sai? - Esordì Kojirō ad un certo punto, semi perso in quel tripudio di beatitudine – Sarà anche per poco, ma avevo davvero voglia di tornare. Non tanto per il Natale o quelle altre cazzate lì, quanto perché alla fine non esiste posto migliore di casa propria.
Jun lo ascoltò pontificare senza proferire commenti, limitandosi ad annuire. Era vero. Lui non aveva avuto grandi esperienze di vita all'estero, né le bramava, ma condivideva il suo pensiero. Seguendo un impulso allungò una mano e gliela passò fra i capelli corvini, infrangendo così l'impalpabile vetro infinitesimalmente sottile, ma al contempo fastidiosamente oppressivo, che si era interposto fra di loro. Non si erano neppure sfiorati da quando si erano rivisti, come se persistesse, a livello metafisico, un'inspiegabile distanza e un vago disagio che straniva entrambi. Poco ci era mancato che non si fossero salutati con una virile e nerboruta stretta di mano.
Era da tanto che non provavano quella sensazione, avevano quasi dimenticato che potesse esistere, ma era bastato quel semplice gesto spontaneo per dissolverla come neve al sole.
Fu un attimo, e Jun si ritrovò avvolto da un abbraccio che non ricordava. O meglio, che non ricordava perché in tutto quel tempo si era imposto di non rievocarlo, per salvaguardarsi. Per non soffrire troppo.

Tante volte se l'era detto.
Difficilmente si può dire di conoscere fino in fondo qualcuno.
Quante persone conosceva? Parecchie, senza dubbio.
E quante di loro poteva dire di conoscere appieno?
Poche, pochissime. Forse nessuna.
Certi aspetti della personalità umana sono imperscrutabili, e spesso o sono sconosciuti anche a sé stessi, oppure ci si guarda bene dal rivelarli a qualcuno. Persino chi all'apparenza è più cristallino e candido può nascondere dei lati oscuri inaspettati capaci di spiazzare il prossimo.
Gli era anche capitato, diverse volte, di avere a che fare con gente dalla psiche insondabile.
C'era qualcuno, però, che non gli aveva mai mentito, che si era sempre mostrato per come era realmente, che non aveva mai fatto mistero delle proprie debolezze, affrontandole anzi con una forza degna di un bulldozer.
“Sono fatto così, lasciami in pace. Se non ti sta bene, quella è la porta.”
Così gli aveva detto un giorno, dopo che si era permesso di fargli un appunto su...cos'era? Probabilmente una sciocchezza, non lo ricordava neanche.
Permaloso, poco garbato, testardo.
Ma sincero, sempre e comunque dannatamente sincero.
Lo sentiva. Così come riusciva facilmente ad intuire l'artificiosità di un sorriso o di uno sguardo, allo stesso modo percepiva la sua assoluta sincerità, la genuinità delle sue reazioni e la visceralità delle sue emozioni.
Una persona che non recitava mai, che non indossava maschere, fossero di sopravvivenza, di convenienza o volte al nascondere i cosiddetti “lati oscuri”. Tutti, prima o poi, ne facevano uso, compreso lui stesso, se le circostanze lo imponevano.
E adesso quella persona era lì con lui, dopo tanto tempo. Ne aveva ritrovato le braccia calde e avvolgenti, che lo avvinghiavano stretto, forte come mai avevano fatto.

Jun sapeva di pulito, di bagno appena fatto, era la piacevolezza impersonificata.
Lui, forse, dopo la tensione del pomeriggio in auto e la corsa per arrivare lì, un po' meno.
E comunque non importava un granché a nessuno dei due, in quel frangente.
Aspirò il suo profumo, lasciando che gli riempisse le narici, prima di cedere ad un bacio che non aveva proprio niente da invidiare alla sopracitata saga di “Via col Vento”.
Passò dalle labbra al collo, impossessandosene con un impeto ferino, senza risparmiarsi un morso o due. Dal modo in cui l'altro gli respirava sulla spalla, come se fosse stata l'unica riserva di ossigeno in tutta la stanza, capì quanto avessero bisogno di quel tipo di contatto. Se ne erano privati fin troppo a lungo, non era più il caso di rimandare. Gli era perfino venuto caldo, complici i trenta gradi e rotti che sprigionava il kotatsu.
Aveva sperato che quello potesse essere il suo ultimo pensiero razionale prima di indurre la propria coscienza a disertare, quando lo udì mormorare, col volto sprofondato nella sua clavicola: -Senti...senti. Fermiamoci un attimo.-
Mh? Kojirō sollevò la testa e lo guardò allucinato, il viso atteggiato in un'espressione alla “Questa è bella, ma se non abbiamo neanche iniziato!”
Un paio di risoluti occhi color Novembre si piantarono nei suoi.
-Mio padre non ci sarà fino a stasera, ma mia madre non ho la più pallida idea di dove sia. Potrebbe rincasare in qualsiasi momento.
Kojirō, recalcitrante ad immedesimarsi nel ruolo del chierichetto proprio adesso che gli si erano risvegliati certi salubri istinti, abbaiò in risposta che allora avrebbe anche potuto metterci ore, per quello che ne sapeva lui.
-Quando torna smetteremo. Non c'è da preoccuparsi.
Jun, conoscendolo, sapeva che quello “smettere” non sarebbe stato così facile come voleva dargli a bere, quindi decise di porre subito fine alle effusioni. Era troppo poco sicuro lasciarsi andare alle passioni ancestrali in casa sua, non in quel giorno in cui sua madre, non essendo fuori per lavoro ma per chissà cosa, costituiva una minaccia incombente.

Difficilmente il sesto senso del Principe sbagliava un colpo: come volevasi dimostrare, la signora Misugi, che si scoprì essere uscita per recarsi dalla suocera, rincasò di lì a poco.
Era un donna minuta, bella e raffinata che, come tutte le orientali, possedeva la mistica peculiarità di saper fluttuare nel tempo, facendosi scivolare gli anni di dosso con una disinvoltura disarmante. O magari, più semplicemente, era scesa a patti col diavolo, perché dimostrava una qualunque età compresa fra i trentacinque e i cinquantacinque anni.
Aveva salutato Kojirō sorridendo con il suo piglio signorile e compassato, e gli aveva posto qualche domanda - di pura cortesia – circa la sua esperienza italiana. Lui aveva risposto altrettanto educatamente, incollandosi un sorriso posticcio in faccia e maledicendola in cuor suo per essere tornata così presto, mentre Jun era rimasto ad osservare il quadretto un po' in disparte, ghignando sotto i baffi. Non sapeva dire bene perché, ma quella scenetta, ai suoi occhi, aveva un che di farsesco.
Fu in quell'istante che si ricordò dell'auto ammaccata di suo padre. Prima di metterne al corrente sua madre, avrebbe fatto bene a contattare quel tipo.
Raggiunse l'appendiabiti e rovistò nelle tasche del cappotto per ripescare il biglietto: si disse che avrebbe potuto chiamare in quel mentre, in fondo non si trattava nient'altro che di mettersi d'accordo per incontrarsi da qualche parte a compilare la procedura di constatazione amichevole.
Compose il numero e si ritirò in una stanza vicino, lasciando Kojirō e sua madre a raccontarsela. Sghignazzò sommessamente ripensando all'occhiata per metà terrorizzata e per metà furibonda con cui lo aveva pugnalato il compagno, alla mercé di quella conversazione forzata dal retrogusto imbarazzante.
Un momento. Era un cellulare, quello che sentiva squillare dal salotto?
Le coincidenze iniziavano ad essere un po' troppe, difatti gli rispose la voce dello stesso Kojirō che aveva lasciato di là poco prima.
-Non ci posso credere. Sei stato tu ad ammaccare la macchina di mio padre.
-Eh?- Fece l'altro, cascando dal pero. Poi anch'egli realizzò, e mugugnò in uno strascico di parole: -Però. Proprio un rientro col botto.
Jun ridacchiò. Quante probabilità esistevano di scontrarsi con l'auto di un conoscente, a Tōkyō? Una su dodici milioni, grosso modo.
E comunque, questo spiegava anche il vecchio volantino di quel locale chiuso da mesi, che il suo intuito gli aveva fatto notare fin da subito come un particolare un po' “anomalo”.
Doveva essere disperso nei meandri della sua auto da tempo immemore, fin da prima che lasciasse il paese.
-Ma che numero è quello scritto sul biglietto?
-Ho preferito far disattivare la vecchia scheda quando sono partito, non sapendo per quanto sarei stato all'estero. Per ora ne ho preso uno prepagato, per questo non ce l'avevi.
Ci pensò su un secondo poi aggiunse: -Ma si può sapere quante macchine avete? Questa mi mancava.
Jun non sapeva se mettersi a ridere per l'assurdità della situazione o se elargirgli affettuosamente qualche stoccatina ironica, poi si ricordò che stavano ancora parlando mediante il cellulare.
Cosa ancor più ridicola, considerato che, per una volta, si trovavano a pochi metri di distanza.
Finalmente.

 


 

APPUNTI FINALI OZIOSI E SALOTTIERI

Oh Gesù, Giuseppe e Maria. Stavolta credo di aver toccato picchi di melensaggine alquanto infamanti per la mia persona, notoriamente cinica e spietata (dehihiohoh.) Forse dovevo rifarmi dopo l'ultima shot, in cui li ho fatti mezzo mollare. Mah. E comunque per me le scene hot sono e saranno sempre una croce da scrivere, per questo le tronco prima che l'atmosfera si scaldi troppo, mwahaha xD
Poi, ho preso una piccola licenza poetica circa la presunta patente di Koji e Jun. Non mi pare che nel manga la cosa venga mai accennata (o magari mi sbaglio, la mia memoria è un colabrodo).
E sì, Jun è una fottuta checca sostenuta.
Dimenticavo, il titolo nipponico è un vocabolo evocativo, che in italiano si può rendere come “ritorno a casa, al paese d'origine”. Non mi soddisfaceva la traduzione, quindi ho pensato di lasciarlo così. A dire il vero non mi soddisfa comunque, ma ormai ho rinunciato a trovarne di migliori U__U
A proposito del sottotitolo credo che non ci sia bisogno di spiegare niente, tutti ricorderanno lo spot della Barilla ^^;
Grazie di cuore per lo stoicismo che mi dimostrate leggendo, e per tutti i commenti ricevuti finora. Sigh, mi commuovete ;__;
In particolare grazie al prezioso betaggio di Kara (ti stronco se ti sento dire ancora che non ci sai xD), che mi ha aiutato a dissipare alcuni dubbi linguistici e svariati incartamenti verbali, perchè l'italiano è un sadico bastardo, a volte. Per quanto tu, dall'alto della tua spocchia di madrelingua, possa pensare di conoscerlo bene, quando meno te l'aspetti ti pone di fronte a dilemmi che ti lasciano impotente e con la faccia così ಠ_ಠ
Grassie infine anche a Rel e a Ken, che hanno diligentemente anteprimizzato. Vi Vi Ti Bi *__*


NOTE

①Per questo vi rimando all'onnipotente Google, io sono troppo pigra. Stesso dicasi anche per la definizione di kotatsu, googlate e avrete ogni risposta xD Comunque, sappiate che quei malefici tavolinetti riscaldati sono la perdizione totale. Punto. 

②Dall'Italia al Giappone le opzioni sono soltanto due: o chiamare direttamente – ma va tenuto presente che pochi telefonini giapponesi funzionano in Europa, e viceversa – , oppure inviare mail da un computer alla casella di posta elettronica immancabilmente associata ad ogni numero nipponico di telefonia mobile, che il destinatario riceverà in tempo reale sul proprio cellulare. Questo perché là non esistono gli sms, dubito che abbiano anche mai solo saputo cosa fossero; anzi, probabilmente sono ancora lì che ridono della nostra arretratezza tecnologica, dato che è dall'avvento degli apparecchi cellulari che comunicano utilizzando le e-mail, senza limiti di caratteri e con l'aggiunta di deliziosi set di iconcine e disegnini inutili – ma kawaiiii – da spedire come allegati.
Certo, dall'Italia uno potrebbe anche inviare le mail tramite la connessione Internet del proprio telefonino, ma spesso (da quel che ne so io SEMPRE) le tariffe sono esorbitanti, quindi alla fine conviene usare solamente il pc.

③Bagnoschiuma “L'Erbolario”. Direttamente dalla toilette di casa mia.

④Che ci crediate oppure no, in Giappone i sedili sono riscaldati. E' paradisiaco sedervicisi dopo aver vagato nel freddo più assoluto e sconfortante.

  
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