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Autore: Adeia Di Elferas    29/04/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il Valentino incrociò le braccia sul petto, guardando il soffitto. Da che si era stabilito al palazzo dei Montefeltro, a Urbino, aveva l'impressione di star solo perdendo tempo.

Certo, per molti motivi preferiva starsene lontano dai soldati che puzzavano di sporcizia e dai disagi del campo militare, tuttavia restarsene per ore e ore a non far nulla, se non aspettare notizie, gli pareva più un'occupazione da inutili donne che non da uomini forti e giovani come era lui.

Inoltre, come aggravante imperdonabile, quella corte era di fatto una corte morta: non c'era nulla da fare. L'unica cosa, se proprio avesse voluto, che avrebbe potuto occupare le sue infinite giornate di noia sarebbe stato risistemare lo Stato e rimettere in piedi l'organizzazione del Ducato intero, ma quella era una questione che lo sfiorava appena e che non gli dava una motivazione concreta per lasciare il suo scranno e la sua caraffa di vino.

Quel 25 luglio, il caldo e il senso di profondo ottundimento che l'inerzia gli infondeva stavano facendo del Valentino una statua sudata. Ogni tanto si versava pigramente da bere, ma il vino era sempre più caldo e ogni sorso gli pareva man mano più acidulo e sgradevole. Era da solo, perché ogni chiacchiera gli dava noia, e così la sua mente tornava di continuo a tre argomenti, che tra loro non sembravano aver molto a che fare, ma che nella sua testa si mescolavano come cera sciolta.

In primis pensava ai Varano. Camerino era caduta, si era ribellata, ma loro erano ostinati e, non si sapeva con l'aiuto di chi, stavano opponendo una strenua resistenza, prolungando la loro agonia e portando sempre di più il Borja a desiderarne il sangue. Se fino a pochi giorni addietro era stato pronto a dirsi magnanimo, a risparmiare – formalmente – loro la vita, facendoli rinchiudere in cella in via permanente, ora era invece risoluto ad ammazzarli, anche con le proprie mani, se necessario, nel momento stesso in cui li avessero catturati.

Da lì cominciava a pensare alla Tigre di Forlì, a come gliela avessero sottratta senza il minimo rispetto. Con il senno di poi, si diceva che avrebbe dovuto ucciderla nel momento stesso del loro arrivo a Roma. Un tuffo nel Tevere, com'era stato per Astorre Manfredi. In fondo, dopo essersi divertito con lei, la cosa più logica da fare sarebbe stata liberarsene... Invece era viva e vegeta e da un momento all'altro avrebbe potuto infangarlo di nuovo davanti al re di Francia, accusandolo di ogni nefandezza e compromettendo la sua posizione nella già difficile alleanza con Luigi XII.

Infine, come terzo chiodo fisso nella sua mente, c'era sua sorella Lucrecia e il suo matrimonio con Alfonso, futuro Duca di Ferrara. Era talmente contrariato dal saperla lontana, prima di tutto, da Roma, e, in secondo luogo, nel sentir parlare dei due sposi come di una coppia felice, incapace, dicevano, di passare una sola notte lontani, che a volte si trovava a ragionare su come fare a uccidere l'Este senza farsene incolpare.

Cesare stava proprio immaginandosi delle mani invisibili strette al collo di Alfonso, e il volto del ferrarese farsi paonazzo, con gli occhi venati di sangue vermiglio, quando la porta alle sue spalle si aprì, facendolo sussultare.

Alzandosi di scatto, sollevò la mano libera dal calice, come se volesse colpire il suo paggio e, con un ringhio, chiese: “Ma non l'hai ancora capito che devi annunciarti, prima di venirmi a cercare, specie quando voglio stare da solo?!”

“Mi sembrava una cosa urgente, mio signore...” si scusò il ragazzo, già abbastanza terrorizzato dal Valentino da non voler certo passare nuovi guai per colpa della sua disattenzione.

Il Duca di Valentinois gli strappò via la lettera che gli stava porgendo e, nel momento stesso in cui vide la provenienza – la corte di Ferrara – scacciò il giovane con furia e richiuse la porta, per poter leggere in pace.

Erano poche righe, colme d'angoscia. Si parlava di uno svenimento, di febbre alta, di un'epidemia in città e di una serie di altre cose che nel cervello sovraccarico del Borja sembravano esplodere come una palla di cannone.

Arrivato alla fine del messaggio, l'unica cosa che Cesare sapeva era che sua sorella stava male e che, forse, era molto grave. Si accennava anche a una gravidanza, anche se, leggendo tanto in fretta, non aveva ben capito se fosse o meno collegata al malore. Non gli importava, in quel momento: se la fosse stata, avrebbe ucciso Alfonso per punirlo di quello che aveva fatto a Lucrecia, in caso contrario, l'avrebbe ucciso per non essere stato in grado di proteggerla dall'epidemia di febbri scoppiata a Ferrara.

Muovendosi a scatti, come se fosse febbricitante a sua volta, il Valentino guardò fuori. Stava per scendere la sera. Pensò in fretta: non poteva lasciare Urbino, non così all'improvviso e con una scusa che sarebbe stata vista come un pretesto sciocco dai più. Dopo la batosta personale avuta in Romagna, sapeva bene che certi errori andavano evitati.

Andò quasi di corsa dai suoi luogotenenti migliori e spiegò loro che, per una missione segretissima ordinata dal papa e non differibile, doveva assentarsi per qualche giorno – anzi, si allargò dicendo che non gli sarebbe stata necessaria più di una settimana – e che quindi confidava in loro per tenere la calma in Urbino e per non far circolare la voce che lui fosse assente, in modo da evitare rivolte o colpi di coda dei partigiani dei Montefeltro.

Aspettò che facesse buio, prese con sé un paio di scudieri che riteneva affidabili e pronti a morire per lui, e, travestitosi da cavaliere gerosolimitano, per non far pensare a nessuno che sotto al mantello ci fosse proprio lui, varcò le porte cittadine a gran velocità, diretto senza indugio a Ferrara.

 

Francesco si chiedeva come facesse la Tigre a starsene in quella stanza quasi buia e tanto calda da ricordargli una pentola in ebollizione. Fuori, nella luce sfolgorante di quel finale di luglio, Firenze brulicava di vita, rianimata come se l'allontanarsi dei borgiani avesse dato un respiro nuovo alla Repubblica.

Giusto un paio di giorni prima era arrivata in città la notizia, riferita dall'autorevole voce del Capitano francese Engles, che tutte le terre sottratte a Firenze – eccetto Arezzo – sarebbero tornate seduta stante a Firenze, in segno sia di distensione verso i fiorentini, sia per dare un preciso avvertimento al papa e al Valentino.

Tutti, quindi, sollevati per il pericolo scampato e sentendosi forti di un amico come Luigi XII, non facevano altro che festeggiare e fare progetti per il futuro. Ovviamente a un occhio più disincantato non sarebbero sfuggiti alcuni campanelli d'allarme da non sottovalutare che avrebbero frenato un po' anche il più entusiasta dei cuori, ma in quei giorni sembrava impossibile non farsi contagiare dall'aria di festa che aleggiava ovunque.

Il contrasto, quindi, con la cupezza di quella camera colpiva Fortunati in modo particolare. L'uomo, che si era recato dalla Leonessa allo scopo duplice di mostrarle delle lettere e di provare a convincerla a tornare a vivere alla villa di Castello, restava in piedi davanti a lei, le mani giunte all'altezza dello stomaco, in attesa che la donna vagliasse tutti i messaggi ricevuti.

In quella penombra, Caterina gli sembrava diafana, quasi un fantasma. Gli piaceva la sua pelle fondamentalmente pallida, e accettava di buon grado il colore candido dei suoi capelli, tuttavia in quel momento scoprirla tanto incolore quasi lo spaventava. Anche i suoi occhi verdi, sempre difficili da decifrare, erano così lontani da sembrare vitrei e le sue labbra, più spente del solito, mormoravano le parole dei messaggi in un modo che al piovano ricordava lo sgranare di maledizioni di una qualche oscura pizia.

“Vuoi che apra gli scuri?” domandò dopo un po' l'uomo, ricordandosi come lei stessa, nei primi giorni della sua permanenza lì, infastidita dall'oscurità, gli avesse chiesto di farlo, benché non fosse del tutto prudente.

“No.” rispose secca la Sforza, senza nemmeno guardarlo.

Contrariato, il fiorentino tornò in posizione di attesa, chiedendosi se quell'isolamento che la milanese si era inflitta da sola non stesse scavando in profondità laddove già la lunga prigionia a Roma aveva lasciato solchi insanabili.

Caterina, intanto, non si accorgeva nemmeno della preoccupazione del piovano. La sua mente e tutti i suoi sensi erano concentrati solo ed esclusivamente sulle pagine che aveva davanti, spiegate, l'una accanto all'altra, sul letto.

Le avevano scritto Gian Piero Landriani, il Cardinale Sansoni Riario e perfino sua nipote Ippolita Sforza. Dicevano cose diverse, con parole e sfumature differenti, ma il succo della questione era sempre lo stesso.

Sembrava che, complice l'azzardo fallito del Valentino e l'abboccamento con Ippolita, re Luigi avesse deciso di mostrarsi malleabile e disponibile nei confronti della Tigre. Il Landriani sosteneva che presso la corte dei francesi, tra Milano e Pavia, si parlasse ormai apertamente di ridarle almeno le terre che erano state sue al nord – nel dettaglio il Bosco e Fortunago – e che anche Gian Giacomo da Trivulzio fosse molto incline a trovare una soluzione che andasse bene per tutti affinché i francesi le ridessero quei territori senza averne alcun danno di immagine o poter essere tacciati di averla favorita solo per prendersi gioco del papa.

Raffaele dava una lettura meno politica alla questione, volendo vedere nell'interessamento del re nei confronti di Caterina una debolezza che già era stata evidente con l'arrivo di Ippolita a Pavia: a Luigi piacevano le donne di un certo tipo, con un determinato piglio, e probabilmente le chiacchiere che aveva sentito negli anni sulla Leonessa avevano acceso la sua fantasia e lo avevano portato a promettere di restituirle perfino Imola e Forlì.

La stessa Ippolita, invece, che aveva avuto modo di parlare direttamente della questione al sovrano, si diceva certa di aver trovato la chiave di volta per convincere il francese a rendere alla zia tanto le terre in Romagna, quanto quelle in Lombardia e che lo avrebbe fatto sia per rendere omaggio alla ferina bellezza sforzesca, sia per cercare alleati futuri. Il progetto – la nipote della Tigre lo suggeriva molto velatamente – di Luigi XII sembrava infatti sfruttare il Valentino fino a quando non gli fosse risultato d'intralcio. A quel punto, per arrivare a Napoli, ragione ultima della sua impresa, avrebbe avuto bisogno di un centro Italia amico e disponibile e quale modo migliore esisteva, per crearsi certe amicizie, se non raddrizzare i torti e restituire a chi di dovere le terre usurpate?

“Riavrò Imola e Forlì.” sussurrò la Sforza, una volta che ebbe riletto tutte le missive almeno tre volte ciascuna.

“Non è detto.” si permise di farle notare il piovano, domandandosi con una certa angoscia se avesse fatto bene a portarle quella corrispondenza, e rispondendosi che non avrebbe avuto comunque alternative, dato che aveva giurato di esserle leale sempre e comunque.

“Tutti ne sembrano convinti.” insistette lei, indicando le lettere: “E... E avrebbe senso. In fondo al francese serve che io torni in Romagna...”

“Caterina...” cominciò a dire Francesco, allungando una mano verso di lei, per frenarla, ma la donna stava cominciando a camminare per la stanza, senza una meta, ossessiva come l'espressione che si stava impadronendo del suo viso.

“Se riavrò il mio Stato – iniziò a pontificare la Leonessa – mio figlio Galeazzo avrà un futuro, e anche Bernardino... Anche lui sarà più facile da sistemare. E anche Sforzino. E potrò riprendermi Giovannino e tenerlo con me al sicuro: nessuno riuscirebbe a strapparmelo, se fossimo ancora nella mia rocca! E per Bianca sarà molto, molto più semplice far finire bene le cose. E poi... E poi io riavrò il mio esercito e il mio governo, e allora il figlio del papa non avrà più alcuna forza, perché il re di Francia lo vorrà distruggere, e io mi metterò alla guida dei miei uomini e marcerò contro quell'animale. Marcerò su Urbino, su Camerino, su ovunque si vada a rintanare! Sono pronta a marciare perfino su Roma! Io raderò al suolo Castel Sant'Angelo, se necessario! Lo stanerò e lo ucciderò con le mie mani, come ho fatto con tanti prima di lui!”

Man mano che parlava, la voce della donna si faceva sempre più alta e violenta, i suoi gesti più rigidi e il suo sguardo assumeva una sfumatura folle che terrorizzò Fortunati.

“Caterina, calmati...” provò a dirle, cercando di afferrarla per un braccio, ma rimediando solo uno schiaffo sulla mano.

“Io non mi calmo! Non puoi chiedermi di calmarmi! Posso riavere tutto quello che mi è stato tolto e, soprattutto, posso vendicarmi!” urlò lei, mostrando i denti, come una bestia selvatica.

Il fiorentino conosceva ormai quel lato della donna che amava e voleva imparare a fronteggiarlo.

Così, imponendosi come di rado aveva fatto in vita sua, riprovò ad afferrarla e, anche quando lei oppose di nuovo resistenza, non la lasciò. La fissò in viso e la esortò di nuovo a calmarsi e ad ascoltarlo.

“Caterina, io ho dovuto farti leggere queste missive, ma tu non stai ragionando. Pensa a come le avresti interpretate se le avessi lette qualche anno fa.” il richiamo al periodo che aveva preceduto la sua disfatta fece crollare di colpo la Leonessa.

Indietreggiando e sedendosi sul letto, proprio accanto ai messaggi che tanto l'avevano esaltata, la donna restò muta e immobile, in attesa che Francesco continuasse a parlarle.

Mettendosi seduto accanto a lei, dopo aver raccolto e ripiegato le lettere, Fortunati le prese una mano nelle sue e le sussurrò: “Io spero con tutto me stesso che non siano solo false illusioni, ma, ti prego, tu, che sei sempre stata bravissima nel capire e nel vedere oltre, quando si parla di politica e guerra...” fece un sospiro, cercando le parole per continuare, ma la pazienza lasciò il posto a una punta di insofferenza, legata anche all'aria chiusa di quella stanza, al caldo e alla disperazione nel vedere la sua donna affranta, senza sapere come aiutarla: “Santo Cielo, Caterina... Se il re di Francia avesse voluto davvero ridarti le tue terre, anche se davvero avesse voluto ridartele così, per capriccio, all'improvviso, ebbene prima di tutto avrebbe cercato di mettersi direttamente in contatto con te... Questa è solo una spacconata da francesi! Un modo per farsi bello con tua nipote, per farsi lodare dal Cardinale e per apparire un signore generoso a Gian Piero, che aspira a entrare nella nuova cerchia di governo milanese... Non ha stilato nessun documento, non ha firmato dichiarazioni...”

In quel momento, con le occhiaie pesanti e le rughe severe che le segnavano il volto, la Tigre sembrava essere invecchiata di colpo di almeno dieci anni.

“Torna alla villa.” affondò il colpo il piovano, sentendosi un verme nell'approfittare di quella momentanea debolezza della milanese, ma sapendo che agiva per il suo bene: “Ti prego.”

La donna deglutì, senza dire nulla. Era combattuta, confusa. Non sapeva cosa fare. Avrebbe voluto chiamare a sé Galeazzo, e chiedergli di aiutarla a decidere come muoversi, di aiutarla a capire le parole di quelle missive che l'avevano quasi ingannata del tutto... Ma non voleva essere vista così dal suo figlio prediletto, il più coraggioso, il più intelligente di tutta la nidiata.

“Ti farò uscire: troverò il modo per riuscire a farti uscire nei boschi senza che nessuno possa rimproverarti o sfruttare questa minima libertà contro di te.” promise il fiorentino.

“Voglio andare a cavallo.” mormorò la Leonessa, sollevando appena gli occhi verdi verso quelli del suo amante.

Francesco ci pensò un momento: in fondo, ormai, alla villa qualche cavallo c'era. Si trattava di regali, nessuno poteva contestarne la presenza o la proprietà... Forse restava un rischio, perché Lorenzo era infido e avrebbe potuto usare la notizia di una Caterina Sforza a cavallo nei boschi in modo inaspettato, magari accusandola di essere in fase di addestramento per una qualche azione bellica o chissà che altra assurdità... Però non poteva più vedere la Tigre in quello stato di prostrazione...

“Va bene.” concluse, annuendo poi una volta sola, come a siglare un accordo particolarmente formale.

“Allora torno.” ribatté subito Caterina.

Oltremodo felice di sentirglielo dire, Fortunati pregò che non si trattasse solo di una decisione momentanea destinata a essere presto cambiata. Anzi, volendo approfittare di quello spiraglio, rimarcò subito la cosa e promise che avrebbe fatto in modo di organizzare la partenza il prima possibile.

“Ora che Firenze è fuori pericolo – soggiunse, come a voler far capire alla Tigre quanto fosse corretta la sua scelta – i francesi o altri potrebbero aver da ridire sulla tua assenza. È bene che torni alla villa, dove...”

“Dove potranno tornare a controllarmi.” concluse la donna, con un velo di angoscia che, comunque, cercò di ricacciare subito indietro: “Ora, se tu devi andare, io andrei un po' di là, nel salone, coi miei figli...”

Il piovano, che non si era aspettato di sentirsi congedare tanto repentinamente, sollevò le sopracciglia e annuì: “Certo, certo... E poi è un bene se stai un po' con loro, invece di stare qui al buio...”

A quelle parole, la donna si guardò attorno, quasi si accorgesse solo in quel momento dell'oscurità che attanagliava la sua stanza, e poi, con un cenno infastidito, allungò la mano e ordinò: “Lasciami le lettere, comunque.”

Il fiorentino, che nel frattempo aveva fatto scivolare le missive nella sua scarsella, le estrasse di nuovo, un po' riluttante e gliele porse, trattenendosi proprio all'ultimo dal raccomandarsi con lei di non farsi di nuovo forviare da quelle parole che, per quanto giungessero da penne amiche, erano ugualmente da prendere con cautela.

Dopo essersi alzata, la Leonessa attese che Francesco facesse altrettanto e poi, con un distacco che lasciava intendere quanto ancora fosse persa nei suoi pensieri, gli diede un bacio e gli chiese di farle sapere, se possibile, con un piccolo anticipo quando sarebbe ripartita alla volta della villa, in modo da essere pronta.

Non l'accompagnò all'uscita, ma attese ancora qualche minuto in camera, scrutando nella penombra. In realtà non aveva alcuna voglia di unirsi ai suoi figli nel salone, ma sapeva che era una cosa che le avrebbe fatto bene.

Quando arrivò, trovò Sforzino che, con una calma serafica che un po' le ricordava frate Lauro, stava cercando di spiegare a Bernardino alcune regole di grammatica latina, senza forse rendersi conto che al ragazzino mancavano le basi necessarie per seguirlo nel suo discorso.

Galeazzo, invece, paziente e statuario, era in piedi, vicino al muro, le mani dietro la schiena e gli occhi verdi persi a fissare un punto indefinito del pavimento. Quell'immagine diede a Caterina l'esatta cifra della noia infinita e spaventosa che stava imponendo ai suoi figli nel vivere così ritirati.

Aveva mille volte ragione Fortunati: si doveva tornare alla villa. Anche se pure là erano in mezzo al nulla, potevano uscire nel cortile, muoversi di più e, magari, scambiare due parole con la servitù...

Le spiaceva indicibilmente vedere il figlio in quello stato. Non lo si poteva definire triste, né nervoso... Era solo apatico. Il tempo pareva scorrergli sulla pelle come una pioggia fresca, senza lasciare traccia del suo passaggio. Poteva permettersi un ragazzo forte e promettente come lui di perdere così tanti giorni facendo, a malapena qualche esercizio sul posto o qualche gioco di memoria? No, si trattava di uno spreco equiparabile a un peccato mortale.

“Galeazzo...” fece Caterina, avvicinandosi a lui e risvegliandolo dai suoi pensieri: “Dovresti fare una cosa per me...”

Il sedicenne, raddrizzando la schiena, annuì subito, in attesa di ordini, rendendo ancor più evidente la sua voglia di fare, mai sopita, ma fiammeggiante sotto le ceneri che sembravano spente solo a un occhio distratto.

“Dovresti leggere queste – continuò la Sforza, mostrandogli le lettere – e dirmi cosa ne pensi.”

“Lo faccio subito.” ribatté lui, tradendo come non mai la smania di tenersi occupato.

Proprio per prolungare quel compito e anche per ottenere da lui un aiuto il più possibile concreto, la donna lo frenò: “Devi leggerle con calma, più e più volte. In queste ore, in questi giorni... Pensa bene a cosa c'è scritto sopra e poi, quando saremo di nuovo a Castello, mi saprai dire cosa ne pensi.”

“Torneremo alla villa?” chiese il ragazzo, mentre un vago sorriso riaffiorava sulle sue labbra.

“Sì.” ammise la Leonessa, sentendo anche gli occhi di Sforzino e Bernardino addosso: “Ma intanto fai quello che ti ho detto.”

Il Riario chinò il capo, in segno di obbedienza e poi, chiedendone il permesso, si sistemò sulla poltrona e cominciò subito a leggere.

Quella notte, mentre si rigirava nel letto senza riuscire a prendere sonno, troppo agitata nel ripensare alle promesse del re di Francia e a immaginarsi di ritorno in Romagna, Caterina sentì bussare alla porta. Mettendosi subito a sedere chiese a voce alta chi la cercasse, pensando a Creobola, venuta, magari, a veicolare qualche nuovo messaggio.

Si sorprese, perciò, nel sentire la voce di Galeazzo rispondere: “Sono io.”

Lasciatolo entrare, la donna accese qualche candela e poi restò in attesa. Il ragazzo era ancora vestito come quel giorno e teneva in mano le lettere di Ippolita, Raffaele e Gian Piero.

“So che mi avevate chiesto di aspettare, ma...” iniziò il Riario.

“Parla: dimmi cosa ne pensi.” lo incalzò Caterina, curiosa, in realtà, di avere subito il suo parere.

“Io credo che il re di Francia si sia lasciato scappare questa promessa sull'onda dell'entusiasmo e per spaventare il Valentino.” spiegò il ragazzo, cercando di mettere in ordine tutte le intuizioni che si erano accese man mano che ragionava: “Probabilmente anche a Roma ormai sanno tutto. Il fatto che non abbia messo nulla per iscritto, però, deve farci essere molto cauti, perché se noi ci muovessimo troppo in fretta, il re potrebbe sempre prendere le distanze e fare in modo che il papa ripiombi su di noi per punirci.”

La Tigre ascoltava in silenzio, come sempre compiaciuta nel trovare nel figlio una mente molto agile. Le piaceva il modo in cui aveva sintetizzato il tutto senza problemi e proprio per queste sue capacità le spiaceva ancor di più trovarsi a dargli ragione: senza la possibilità concreta di riavere il loro Stato, come avrebbe impiegato tanta intelligenza?

“Tuttavia – riprese il Riario – io credo che la situazione possa essere usata a nostro favore, ma per farlo bisogno prima di tutto capire che clima c'è a Forlì e a Imola, e poi, nel caso in cui ci fosse terreno fertile per un vostro ritorno, bisogna tirare dalla nostra parte quante più famiglie importanti possibile, cominciando magari da quelle che più stanno soffrendo l'avanzata del Valentino, come i Montefeltro... O i Bentivoglio, che sono anche nostri parenti e si trovano a metà tra le terre del Borja e quelle dei francesi, e che quindi potrebbe iniziare a temere per la loro sorte.”

“Se mai ci imbarcassimo davvero in questa impresa – chiese a quel punto Caterina, con voce grave e autorevole – tu saresti al mio fianco?”

“Sì.” la risposta arrivò istantanea, senza indugio, con una fermezza che lasciava trasparire senza fatica il genere di uomo che Galeazzo sarebbe diventato di lì a qualche anno.

“E se riuscissimo nel nostro ambizioso intento, saresti disposto a governare affianco a me e poi al mio posto?” questa volta nelle parole della Tigre c'era un lieve tremito a indicare quanto le stesse a cuore quell'aspetto.

Il Riario, che pure già più volte si era sentito scegliere apertamente dalla madre come suo naturale successore, ebbe a sua volta un fremito di emozione, ma rispose senza esitazioni: “Sì. E sarei al vostro fianco anche se morissimo nel tentativo.”

Muovendo un paio di passi verso di lui, la donna gli accarezzò il viso, reso un po' ispido dalla barba rada che a quell'ora tarda tornava a mettersi in mostra, e poi lo abbracciò per un lungo istante.

“Non parlarne, per ora, coi tuoi fratelli.” lo redarguì la Sforza: “Prima faremo come hai suggerito e sonderemo gli animi in Romagna, e poi vedremo come muoverci...”

Galeazzo si disse d'accordo e poi, appoggiando le lettere sul letto sfatto della madre, le augurò una buona notte e tornò alla porta.

“Dormi bene anche tu.” lo salutò la donna e poi, appena prima che la lasciasse, aggiunse: “E grazie.”

 

Lucrecia, in dormiveglia e ancora febbricitante, schiuse appena gli occhi, cercando di interpretare l'ombra che si muoveva davanti a lei. Non sapeva dire se fosse giorno o notte, sapeva solo che la testa le doleva da impazzire, che si sentiva debole e che avrebbe voluto vomitare, benché sapesse di avere lo stomaco completamente vuoto.

“Non mi riconosci?” la voce di Cesare, profonda e calda, era inconfondibile, eppure, nell'immediato, alla Borja parve un'ipotesi così assurda, che suo fratello fosse lì, che credette di avere un'allucinazione dovuta alle febbri.

“Maria...” chiamò, sperando che la voce di Cesare si trasformasse in quella della serva che si stava prendendo cura di lei senza sosta.

“Stai molto peggio di quanto dicono, se non riconosci nemmeno il tuo amatissimo fratello.” ribatté il Valentino, posandole una mano sulla fronte.

Quel contatto improvviso e un barlume di ritrovata lucidità la fecero sussultare e chiedere, con la voce resa acuta dalla sorpresa e dalla debolezza: “Che cosa ci fai qui? Come hai fatto a entrare? E dove sono le mie serve?!”

“Stai tranquilla...” sbuffò l'uomo, che – ora Lucrecia poteva vederlo meglio – indossava ancora gli abiti da cavaliere gerosolimitano che aveva portato per tutto il viaggio: “Sono il Duca di Valentinois e sono tuo fratello: perché non avrebbero dovuto lasciarmi entrare? E per quanto riguarda le tue schiavette, ho concesso loro un paio d'ore di libertà.”

La ragazza guardava il bel viso del fratello, in parte deturpato dalle cicatrici che, tuttavia, quel giorno si vedevano appena. In fondo le era mancato, anche se si vergognava ad ammetterlo, e tuttavia ora che l'aveva davanti a sé non desiderava altro che saperlo lontano.

“Quando riparti?” le parole le scivolarono fuori dalla bocca prima che potesse fermarle, ma Cesare non si arrabbiò, anzi, decise di interpretarle in modo molto diverso da come avrebbe dovuto.

“Lo so che vorresti che restassi qui per giorni... Ma, purtroppo, tra al massimo due ore devo ripartire...” ammise, sinceramente affranto: “Devo andare con tuo marito a Milano.”

“E perché?” chiese subito Lucrecia, sentendo la febbre rimontare, assieme a una viscerale paura nel sapere il marito solo con Cesare.

L'ultima volta che aveva commesso l'imprudenza di lasciare il suo sposo con il fratello – si trattava di un altro Alfonso, il suo adorato Alfonso d'Aragona – non l'aveva mai più rivisto vivo...

“Appena sono arrivato, tuo suocero mi ha tempestato di pretese...” soffiò e riprese: “Siccome la moglie di Alessandro Bentivoglio si è vista restituire delle terre dal re, Ercole pretende che io lo convinca a concedere qualcosa anche a Ferrara... Come se potessi far entrare qualcosa nella testa dura di Luigi...”

La Borja non lo ascoltava più. Era tornata in uno stato di simil incoscienza che le permetteva, almeno, di sottrarsi alle chiacchiere false del fratello. In realtà Cesare aveva deciso di andare subito a Milano e di farsi accompagnare dal cognato solo per un proprio tornaconto personale. Al suo arrivo era stato raggiunto da una staffetta che gli faceva presente come Luigi avesse in animo di restituire alcune terre ai vecchi proprietari, probabilmente per crearsi degli Stati amici a cui chiedere in cambio enormi favori e tra questi signori in via di restaurazione pareva esserci anche Caterina Sforza.

Ciò che a Cesare premeva era impedire in ogni modo che il sovrano rimettesse la Leonessa di Romagna al suo posto e, parallelamente, che smettesse di fargli quella guerra sotterranea che gli toglieva credibilità e potere. Farsi accompagnare da un uomo super partes come il figlio del Duca di Ferrara gli sembrava un'idea geniale.

“Riposa tranquilla, sorella mia...” sussurrò il Valentino, dopo averla vegliata per le due ore che aveva deciso di concedersi: “Riprenditi da questa maledetta febbre e non preoccuparti: quando tornerò, con me ci sarà anche tuo marito. Al momento non mi conviene, liberarmi di lui...”

La Borja non poteva sentirlo, preda dei suoi incubi febbrili, eppure, mentre l'uomo diceva quelle parole, gli era parso di vederle fare una smorfia che poteva essere tanto di rabbia, quanto di minaccia.

Le diede un rapido bacio sulla fronte che scottava e poi, uscendo, diede ordine che qualcuno andasse subito a rinfrescarla e badare a lei, e fece presente, con il tono tracotante che aveva tante volte sentito usare dal padre, che a breve sarebbero arrivati dei 'veri' medici pagati da lui: “Perché ad aspettare i vostri ciarlatani ferraresi, la figlia del papa rischierebbe di morire per un raffreddore!”

 

   
 
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