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Autore: Aliseia    30/04/2022    3 recensioni
Ora probabilmente stava vedendo lui, ancora a qualche isolato di distanza. Doveva solo decidere se lasciarlo entrare oppure no. E Albus doveva scegliere, se restare nella dolce compagnia dei suoi amici o se concedersi quel veleno.
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: Animali Fantastici e dove trovarli – I Segreti di Dumbledore
Genere: Angst – Romantico
Personaggi: Albus Silente; Gellert Grindelwald
Pairing: Albus/Gellert
Note: SPOILERS. Questo racconto si svolge dopo il film I Segreti di Silente.
Dedica: a Miky. Nessuno resterà solo nella neve. Lo prometto.
A Abby: un piccolo racconto che mi serve per ripristinare un particolare del mio headcanon. Anche in vista di soluzioni future.
Rating: Mature Audience 
Disclaimer: I personaggi e i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me ma a J.K. Rowling e Stevn Kloves e a chi detiene i diritti del franchise.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa. 

 
Heaven
 
Love can heal the sting of the pain
Purify just like the rain
Wash your tears away
And dry them in the sun

How did you get here, my dear?
Isn't it very clear, my dear
When your lips meet mine
It is so divine
And I'm in Heaven

Heaven – Gregory Porter
 
 
Con il cappello calzato sulla fronte, affondato nel cappotto nero e in una scia viscosa di malinconia, Albus Dumbledore lasciava il matrimonio di Jacob e Queenie.
Gli sembrava di sentire ancora sulle labbra il gusto fin troppo soave dei confetti. Sebbene li avesse evitati, lui così goloso di dolci, poiché gustare confetti alla celebrazione dell’unica unione che gli era riuscita… sembrava una cosa troppo crudele. Sicuramente in contrasto con il fiele che gli risaliva da stomaco e gola. Certo se lui, Albus Dumbledore, avesse posato le labbra, caste, amichevoli, su uno degli ospiti, lo avrebbe ustionato con la propria amarezza. Così pensava, mentre si allontanava scuro e pensoso sulla strada candida e deserta. Anche se ora all’aperto, sotto un cielo carico di neve, gli sembrava di tornare più leggero a ogni passo. Anch’egli soave, abbandonato ai capricci del vento.
Merlino, che idiozia. Non era né leggero né soave, ma teso, eccitato, cattivo. Non aveva più nominato Grindelwald. A volte, senza farne il nome, si era concesso persino la finzione di dichiararlo morto, di deriderlo come ormai inoffensivo, dopo l’ennesima uscita di scena da primadonna. Chi ti amerà, ora, Dumbledore?
Amare? Perché usare alati eufemismi? Chi ti scoperà, ora, Albus? Sorrise tra sé perché nessuno dei due avrebbe mai usato simili parole. E poi perché davvero non gli importava il chi e il come. Certo se solo si fosse concesso un’occhiata intorno, tra colleghi e studenti adoranti, incantati dal suo carisma e dalla sua avvenenza, di volontari ne avrebbe trovati a decine. Il problema era lui, che per qualche pazzia che evidentemente era innata, ne voleva uno solo. Per scopare. Per scopare e basta.
Le sue spie gli avevano rivelato il rifugio newyorkese di Gellert (come quello londinese, se è per questo) ed egli conservava il segreto come avrebbe fatto con la mappa di un tesoro, come con la confidenza di un vizio vergognoso, che sarebbe diventata esplosiva se concessa all’ascoltatore sbagliato. In fondo non c’era alcun modo concreto di fermarlo. Certo il domicilio del mago oscuro era coperto da potenti incantesimi e provare a scioglierli sarebbe costato la vita degli incauti auror designati all’impresa. Gellert li avrebbe sentiti arrivare. Li avrebbe visti, con il suo dono di veggente, mentre pallidi e inconsapevoli percorrevano le strade impolverate di neve. Ora probabilmente stava vedendo lui, ancora a qualche isolato di distanza. Doveva solo decidere se lasciarlo entrare oppure no. E Albus doveva scegliere, se restare nella dolce compagnia dei suoi amici o se concedersi quel veleno.
Aveva scelto, alla fine. Dopo aver lasciato scorrere per ore le dita sulla cartina, via e numero civico come la musica di un verso prezioso, la chiave per decifrare un linguaggio segreto. Un viatico per il paradiso. O per l’inferno, era lo stesso.
Il portone malridotto come si conviene, l’odore di muffa su per le scale e le pareti scrostate. Non si aspettava niente di meglio. Fece saltare ogni incantesimo di difesa con due, tre gesti nervosi. Non pensava di fermarlo con quelli, vero? Quando fu nell’ingresso buio dell’appartamento lo colpì l’atmosfera, molto diversa dall’esterno. I profumi esotici, il luccichio nella penombra di stoffe preziose, lo spazio enorme che avvertiva e che non aveva previsto da fuori. Un’illusione, una casa giustospaziosa che potesse accogliere l’ego spropositato di quel mago borioso e arrogante.
Fermo sulla soglia di un grande salone fiocamente illuminato, Gellert lo stava fissando. Non si preoccupava nemmeno di stendere una mano impugnando la bacchetta, che teneva distrattamente tra le braccia incrociate. Albus avanzò di un passo. Gli strappò la bacchetta e Gellert lo lasciò fare. Con un gesto accese un lume lontano, in fondo al corridoio. Non voleva vedere tutto, solo indovinare, mentre finalmente posava le propie mani su di lui. La pelle chiara di Gellert, la peluria un po’ più scura sul petto, mentre si lasciava spogliare. Albus vestito di tutto punto, la bacchetta saldamente in pugno. Gellert seminudo, finalmente inerme. La cosa  eccitò Albus ancora di più. Niente “aufero” questa volta, niente incantesimi di lenta e sensuale spoliazione. Solo le mani nervose e delicate del professore, che facevano saltare gli ultimi bottoni, che gli sfilavano la cintura. Un morso che respingeva un accenno di protesta, e poi ancora strappi, altri morsi. Un bacio lunghissimo mentre spingeva Gellert contro il muro. Bloccò le sue mani che salivano per stringerlo e tenendolo a distanza sbottonò solo i propri pantaloni. Poi lo costrinse nella nicchia tra la parete e un’alta cassettiera. Gellert manteneva la sua aria insolente, il ciuffo spettinato sulla fronte, gli occhi che brillavano audaci nella penombra, ma gli lasciò fare tutto, senza parlare, senza gridare. E Albus lo prese senza alcuna preparazione, gli occhi spalancati a scrutare il suo viso, quella smorfia eloquente di dolore e di piacere insieme, quegli occhi senza vergogna finalmente socchiusi, il capo che premeva contro il muro a ogni spinta e ancora quella ciocca di capelli che danzava sulla fronte sudata, mentre dalle labbra usciva un primo, secco lamento. “Guardami…” mormorò Albus.
Gellert sollevò le palpebre su uno sguardo folle e trasognato.
“Non significa niente.” ansimò Albus sulla sua bocca.
“Niente…” confermò Gellert scuotendo la testa. Un’altra parola si perse in un gemito, mentre le spinte di Albus diventavano frenetiche. Si guardarono per un breve istante poi Gellert cercò ancora di baciarlo, ma Albus rifiutò il contatto. Allora Gellert sollevando le braccia e aggrappandosi tra mobile e parete, si arrese e lo lasciò finire.
Gellert si accasciò contro la parete, Albus rimase in piedi sostenendosi al mobile per riprendere fiato.
Il professore si guardò intorno. Il cappotto era a terra insieme al cappello. I pantaloni scesi a metà. Doveva sembrargli ridicolo perché Gellert sorrise.
“Me ne vado.” mormorò Albus mentre abbottonava pantaloni e camicia, evitando lo sguardo dell’altro mentre cercava di afferrare cappotto e cappello.
“No.” rispose Gellert con aria impassibile. ”Non te ne vai.” Più definitivo della mano sulla spalla di Albus fu quello sguardo glaciale, mortalmente serio.
“Mi sembrava di essermi spiegato… - cercò di argomentare Albus senza ritrovare la solita ironia – Abbiamo convenuto che tutto questo non significa nulla.”
“Non voglio che abbia un significato” confermò Gellert con aria vagamente beffarda.
“Devo andare…”
“No, non devi. Vorresti… ma non puoi.”
Albus pensò in fretta a qualcosa da dire. Qualcosa di elegante, ironico, leggero. Qualcosa che lo liberasse dall’incantesimo languido e violento di quell’uomo. Lui che se ne stava seminudo e scarmigliato, un micro sorriso appena accennato e uno sguardo che non aveva pietà del suo imbarazzo.
“Non cambierà mai… tra noi” pensò Albus ad alta voce.
“Non saprei… Ma ora vai di là.” ordinò Gellert che chissà come aveva recuperato la bacchetta. Albus abbozzò un sorriso rassegnato e lo precedette in camera da letto. In fondo, cosa aveva da perdere? Cosa poteva esserci di più scandaloso e imbarazzante di quel rapporto veloce, violento, consumato in piedi in corridoio?
La gentilezza, per esempio. Il modo attento e delicato con cui Gellert ricominciava a spogliarlo. Lentamente, senza mai lasciare il suo sguardo. La tenerezza giocosa con cui lo spingeva sul materasso, il modo languido con cui abbassandosi su di lui cominciava a baciarlo. E i suoi capelli che sfioravano il viso di Albus… E le sue mani. Merlino, le sue mani. Come aveva potuto pensare di esserne già appagato? Un lungo brivido risvegliò i suoi sensi mentre le labbra sensuali dell’antico amante indugiavano sulla sua bocca, sulla gola, alla base del collo. Gellert lo gratificò di un sorriso ancora più allusivo scendendo poi a mordergli i capezzoli, giocò ancora un po’ con lui in attesa del primo sospiro… E quando Albus ricambiò le attenzioni inarcandosi a chiederne di più, Gellert gliele concesse. Lente, estenuanti, poi più prepotenti. Albus adeguò il ritmo delle proprie risposte. Lo faceva avvampare la propria sottomissione, ma si disse che nessuno poteva resistere a un tiranno tanto premuroso. E passionale, e instancabile, capace di consumarlo e lasciarlo in agonia, restando immobile dentro di lui per un istante interminabile per poi ricominciare. Albus sentì di perdere ogni freno, venne prima di lui che invece restava eccitato, come se non potesse lasciarlo stare, come se quella amorosa intrusione non dovesse mai finire. Albus si contraeva e sospirava, le unghie ficcate nella sua schiena, onde di eccitazione che tornavano a salire… e finalmente, quando chiamò il nome del suo antico amore, anche il suo compagno si concesse con lui il sollievo di un nuovo orgasmo. Negli umori che si confondevano, mentre crollavano insieme, esausti e sudati, non seppe mai se Gellert avesse intercettato le sue lacrime. E fu nel momento in cui ogni tensione tra loro si scioglieva, e ogni amarezza svaniva, che Albus capì in cosa consisteva la sua condanna. E con quanta soave crudeltà gli fosse stata inflitta.
Restò un momento con la testa riversa sul cuscino, Gellert accasciato a sua volta gli voltava le spalle. Continuò a fissare il soffitto pur avvertendo che l’altro si alzava. Immaginò che recuperasse gli abiti in corridoio, avverti qualche rumore in cucina. Allora si sollevò di scatto, indossò in fretta camicia e pantaloni.
Era l’alba quando lasciò l’appartamento. Gellert sorbiva il suo tè in piedi nel salotto. Lo sguardo fisso nel vetro della finestra, sembrava seguire le lente evoluzioni degli ultimi fiocchi di neve. Sul tavolo aveva lasciato il bollitore, un’altra tazza, le immancabili zollette di zucchero (un tempo lo divertiva molto la passione di Albus per i dolci, non perdeva una mossa quando con grande delicatezza il suo amante portava quelle piccole delizie alle labbra). Ma Albus non voleva nulla, avendo avuto molto più di quello che cercava. E quella dolcezza tra le lenzuola, entrambi lo sapevano, l’avrebbero pagata cara.
Il professore uscì senza una parola, Gellert non si voltò. Il suo sguardo riflesso nel vetro sembrava concentrato nel nulla di quel cielo ovattato. Non indossava la camicia, sulla schiena le sottili ferite che Albus aveva lasciato con le sue unghie ben curate.
Ormai fuori, Albus sfiorò istintivamente il morso che l’altro aveva impresso a sangue sul suo collo. Gellert lo aveva guardato quasi stupito dal proprio gesto, costernato perché non voleva fargli male. Aveva baciato la piccola ferita e poi portando alle labbra le proprie dita e quelle dell’altro, aveva assaggiato il sangue di entrambi. Quindi, intrecciando le mani con le sue, aveva raccolto nel palmo quelle stille, rosse come rubini.
*
Gellert si voltò solo quando sentì richiudere la porta. Tornando in camera da letto fissò l’oggetto che Albus aveva lasciato sul comodino, non sapeva se con l’intenzione di ferirlo o di rivolgergli un rimprovero: una minuscola ampolla incastonata nell’oro bianco, il vetro al centro irrimediabilmente crepato, la filigrana spezzata sui due lati. Alzò la bacchetta e dall’altra mano sembrò raccogliere due o tre gocce scarlatte. Ondeggiarono appena come i fiocchi di neve fuori della finestra, ma poi al contrario di quelli presero una precisa direzione finendo proprio al centro del gioiello spezzato. Con un colpo di bacchetta Gellert riparò il vetro. Un altro tocco riallacciò l’intreccio della filigrana. Dentro l’ampolla il loro sangue riunito trascolorò dal rosso al bianco iridescente.
Albus tirò su il collo del cappotto, la neve sfiorava la sua barba senza bagnarla. Solo sulle labbra si posava e ne sentiva la dolcezza, come il sapore perduto di un lontano paradiso.
  
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