Anime & Manga > Lady Oscar
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Autore: Darty    07/05/2022    15 recensioni
“Tutti gli amori felici si somigliano; ogni amore infelice è invece difficile a modo suo. In casa De Jarjayes tutto era sottosopra” (e spero che L.S. non se ne abbia a male)
Oscar ed Andrè e la loro “storia terrena” appartengono a Riyoko Ikeda ed un po’ anche a Tadao Nagahama e Osamu Dezaki. Questa fanfiction non ha scopo di lucro, ma terapeutico sì...
I versi di David Bowie sono solo suoi: dell’immortale Duca Bianco.
Si incomincia con il Cavaliere Nero. Buona lettura!
Genere: Avventura, Fluff, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Cause love’s such an old fashioned word
And love dares you to care
for the people
on the edge of the night
And love dares to change
our way of caring about ourselves


(David Bowie & Queen, Under Pressure)

Nella versione con Annie Lennox, 20 aprile 1992, Freddie Mercury Tribute Concert
https://www.youtube.com/watch?v=fCP2-Bfhy04
 
 
“La strada sarebbe stata lunga. Tutte le strade che portano dove desidera il cuore sono lunghe. Ma questa strada, che l'occhio della mia mente vedeva su una carta, in modo professionale, con tutte le sue complicazioni e difficoltà, era però in un certo senso abbastanza semplice. Si è uomini di mare o non lo si è. E io non avevo dubbi di esserlo”
(Joseph Conrad, La linea d’ombra)
 
La seconda condizione. André era in ambasce da settimane, sin dalla partenza in verità. Oscar aveva rivelato l’ignobile aggressione subita dal Duca di Germain la sera del ballo, ma ostinatamente taceva sul contenuto del vile ricatto del duca d’Orleans.

E quando Oscar si chiudeva in sé stessa non c’era tattica migliore che quella di lasciarla stare. Nel suo silenzio avrebbe riflettuto e fatto chiarezza dentro di sé. Ed allora lui avrebbe trovato il momento giusto perché lei potesse confidarsi.

Ma ora aprire la lettera di Fersen era più urgente.

Mia carissima Amica”, così iniziava la lettera di Fersen. “Ho avuto modo di riferire alla Nostra Luce le vostre parole, che hanno alleviato le sue pene e dissolto i suoi tormentosi dubbi, alimentati dalle voci maligne dei cortigiani. Ora sa come procedere, per accogliervi al vostro ritorno.”

Le parole di colui che, non dubitavano, fosse un amico sincero, comparivano, lettera per lettera dall’attenta trascrizione dal testo criptato che Oscar e André stavano compitando.

Un sospiro di sollievo. La Regina era stata informata e sarebbe stata solidale, al ritorno dalla missione.

Proseguirono impazienti a tradurre il testo codificato con il  libro VIII dell’Eneide: Ut belli signum Laurenti Turnus ab arce extulit et rauco strepuerunt cornua cantu utque acris concussit...[1]

Non si aspettavano invero che quelle parole annunciassero davvero battaglia, ma lo fecero, quando la supplica di Fersen emerse dalle lettere scomposte e ricomposte: “Tuttavia, da questo rigo in poi, vi chiedo di leggere questa mia lettera in segreto.”

“Proseguiamo”, aveva esclamato risoluta Oscar, rispondendo allo sguardo interrogativo di André.

La frase successiva li colse alla sprovvista, come il più inatteso degli agguati:
Non ignoro la fiducia che vi lega al vostro attendente ed il fatto che, nella conduzione di questa missione condividete, probabilmente, lo sforzo di questa corrispondenza cifrata, ma ve ne prego.”

Mentre Oscar ripeteva a bassa voce “ve ne prego”, André si stava già allontanando. “Mi stavo dimenticando che devo pulire le pistole, Oscar.

Cosa pensi di sapere, Fersen?”, si domandò con amarezza Oscar. Mentre a stento tratteneva il disappunto.

Fersen la considerava il suo miglior amico. Lo aveva affermato chiaramente, mentre le sue dita indugiavano sulla sua schiena nuda. Non era avvezza a scoprire la sua pelle, non era avvezza a volteggiare fra le braccia di un uomo. Non era avvezza. Non era lei, quella disgraziata sera. Chiuse gli occhi, sforzandosi di dimenticare.

Fersen per lei era un amico, un amico sincero di cui si era innamorata. Ma non era mai stato il suo miglior amico. Perché quel posto, anche quel posto, lo aveva sempre occupato André.

“Cosa pensi di saperne, Fersen, del legame che mi unisce ad André, del legame che ci ha sempre unito”, si disse.

“Lo faremo dopo, insieme. Ora proseguiamo André!”

Nessuna titubanza, nessun tremito nella sua voce.

André, che le aveva già voltato le spalle, si girò e ritornò sui suoi passi, fissandola negli occhi.

Nessuna indecisione, nessun rimpianto in quegli occhi, solo la tenerezza infinita del sorriso che incurvò le sue labbra.

La trascrizione riprese.

“Sono rammaricato. Per non avere reso onore alla vostra natura di donna. Ora non riesco a pensare che a Voi, al dolore che vi ho arrecato, per non avere compreso, per non avere capito, quale Donna foste, quale Donna siate.”

André rilesse la frase tradotta. Sollevò il mento di un Oscar accigliata e disse: “Vedi, Fersen è stato incauto, ma non ha mai voluto ferirti ...”

Oscar lo guardò. Ancora pensierosa rispose.  “Continuo a non capire, André. Queste parole mi sembrano così fuori luogo, adesso...”

Ripresero in fretta la trascrizione, ansiosi e inquieti di conoscere il seguito.

“Non riesco a pensare che a questo: mi amavate?  Io amo la mia Luce, di un amore immenso, tanto immenso da essere incolmabile. E come potrebbe essere diversamente? Ma voi mi amate ancora?

Si incrinò appena la voce di André, mentre rileggeva: “Ma voi mi amate ancora?”. Abbassò la testa.

“Tu l’hai sempre saputo, vero André”, gli chiese sottovoce Oscar. “Tu l’hai sempre saputo che mi ero innamorata di Fersen?”

Ho sempre temuto che avresti sofferto, Oscar. Avrei dato la mia vita per evitarti ogni dolore ...”

Non mi hai risposto, André ...”

“Fersen ama la Regina. Non potrà amare nessun’altra, senza condannare all’infelicità la donna che ama e la donna che si sforzerebbe di amare ...anche se quest’ultima fosse la più degna di essere riamata, come te ...”

“Continui ad eludere la mia domanda, André ...” sussurrò Oscar, mentre afferrava le mani, insolitamente fredde, di André.

“Vuoi davvero continuare a leggere questa lettera, Oscar?”

Lei annuì.

“Forse vuoi farlo da sola?”

“Non potrei farlo, André.”

L’inchiostrò vergò nuove parole. Che ingaggiarono battaglia. “... utque impulit arma, extemplo turbati animi[2], recitò a memoria nella sua testa, André.

“Ecco, perché forse esistono anche amori colmabili, semplici, appaganti. Vorrei aver trattenuto con più forza il vostro polso sottile, la sera del ballo.

“Un ripiego, sarei stata solo un ripiego...”

Scosse la testa André. Ricacciando indietro la rabbia sottile che gli aveva procurato l’immagine di Fersen, che tratteneva a forza il polso delicato della sua Oscar. E perché sapeva di averlo già avvertito il Conte ... di non infrangerle il cuore.

No Oscar, perché in cuor tuo avevi già deciso...”, le rispose quindi André, mentre con i pollici sfiorava dolcemente le sottili vene azzurre che solcavano la pelle bianca di Oscar, fra l’orlo delle maniche della camicia ed il palmo delle mani.

Lo scrutò con un po’ di soggezione, pareva che lui anticipasse i suoi pensieri. “Come ho fatto a non accorgermi di te, André?”

“Vuoi che risponda alla tua domanda di prima Oscar? Lo farò, se prometti che non mi prenderai per un folle insolente ...”

Sorrise Oscar.

“Ho pregato Iddio che tu lo dimenticassi Oscar. Perché in cuor mio sapevo che non era vero amore, quello che provavi per lui, perché noi due eravamo legati e perché il mio amore per te, ecco...io l’ho sempre saputo Oscar, che il mio amore inespresso, tu lo ricambiavi, dal profondo della tua anima.”

Ed era proprio così. In un gioco di specchi può capitare, si disse Oscar. Per specchiarsi, disporre di uno specchio non è sufficiente.

Lei si era specchiata in Fersen: nel suo orgoglioso coraggio, genuflesso a Luigi XV tanti anni prima; nella sua aristocratica devozione, asservita ad un amore impossibile; nello splendore di una rinuncia, sancita dalla partenza per una guerra lontana.

Aveva trascurato che, senza la luce, nessuno specchio rende indietro immagine alcuna.

L’umile luce di una candela era tanto più preziosa del più sfarzoso degli specchi.

Ed André era un fulgido sole.

Perciò decise che siccome era vero, lui doveva saperlo. Alzò il capo verso di lui, appoggio le mani sul suo cuore, “Io ti ho amato da sempre, André”, mormorò, prima di baciarlo.

Le parole di Fersen che ancora seguirono, scivolarono via. Sconfitte.

“Mi maledico perché non vi ho inseguito e sono angustiato perché ignoro cosa potrebbe esservi accaduto. E cosa sarebbe potuto accadere, se vi avessi rincorso.”

Forse fate bene a maledirvi, Fersen, forse avreste potuto evitarle un’aggressione”, ricordò con rabbia André, mentre la stringeva a sé.

Sono tormentato perché il fato avrebbe potuto volgere le nostre vite in una più lieta direzione e soprattutto volgere la vostra, verso la felicità, anziché verso perigliosi mari.

“No Fersen, non angustiatevi, questi perigliosi mari mi hanno regalato l’amore. E questo amore mi ha reso felice”, si disse Oscar. Mentre sentiva il cuore di André battere più veloce.

“Amatemi ancora. Ve ne prego. Immaginate che abbia inseguito la vostra pallida figura, incantevole in quelle vesti virginali di candida seta.”

“Fersen, lasciatevelo dire, non avete mai compreso nulla di Oscar”, chiosò fra sé e sé, André, mentre le baciava la nuca.

Tornate presto, Amica mia, io sono qui, ad aspettarvi, le braccia tese ad accogliervi, le labbra impazienti di baciarvi.”

“Spero di tornare presto Fersen, ma se Dio lo vorrà sarò la moglie di André Grandier. Ed anche se Dio non lo vorrà”, pensò Oscar. E pensò ancora, pur continuando a tacere, che era giunta l’ora di confidarsi. Quasi.

Nel frattempo, se ne stette lì, racchiusa nell’abbraccio di André. La lettera di Fersen, intanto, scivolava a terra, volteggiando lentamente.

“Ti amo André Grandier, non potrò mai amare nessun uomo oltre a te!” gli disse alzando un poco la testa.

“Tristi turbatus pectora bello, procubuit seramque dedit per membra quietem”[3], mormorò più tardi, addormentandosi fra le braccia accoglienti del suo André.

 
* * *
 
Attraccati, il decimo giorno del mese di maggio, al porto dell’isola di Tenedo, Oscar e André si erano congedati da Goerso. Avevano trovato nel vecchio timoniere un amico sincero. Che li avrebbe aspettati, anche se la Santo Stefano fosse ripartita.

Sono stanco di navigare. A Chios, il mio amico Paragorio mi ha promesso ospitalità ed un lavoro sicuro. Ma voi non fatevi aspettare troppo a lungo.”

Non abbiamo intenzione di trattenerci a Costantinopoli, solo lo stretto indispensabile per completare la missione”, aveva risposto Oscar.

Qualunque sia la vostra missione, amici miei, pensate a vivere”. Aveva preso le mani di Oscar, strette fra le sue mani callose. “Non ho mai stretto le mani di una contessa. Non avrei mai pensato di poterlo fare. Ma la vera nobiltà è nel profondo del cuore, Oscar. Perciò Voi siete due volte contessa!”

Era arrossita un poco Oscar, mentre scuoteva la testa.

Goerso, io ti sono infinitamente grata, per tutto quello che hai fatto per André, e per me.”

“Al tuo fianco hai una gran donna, André, con qualche anno in meno ed una gamba in più, avresti trovato in me un degno rivale” sogghignò Goerso.

Si era messo a ridere André, l’avambraccio destro piegato dietro la testa.

Allora Oscar si era avvicinata a Goerso e gli aveva stampato un bacio sulla guancia.

Visto André, faccio conquiste! Però ...però”, proseguì Goerso un po’ esitante, prendendo da parte Oscar, abbassando la voce fino a parlarle piano piano nell’orecchio “Anche voi Oscar”, le sussurrò, lanciando uno sguardo ad André che li fissava un po’ stranito “avete al vostro fianco un compagno degno di voi ... che se ora non la smetto di starvi così vicino, mi passa a fil di spada...”

Al nostro ritorno, Goerso...ecco, André ed io vorremmo che tu venissi con noi, a Parigi”.

Era rimasto a bocca aperta Goerso: “Veramente io, ecco ... sì, sarei felice di accettare ..., ma non c’è il mare a Parigi ...”

“Ma c’è la Senna, Goerso!” aveva risposto André. “E’ altrettanto umida...”

“Goerso, ma dimmi ... qual è il tuo vero nome?” aveva chiesto Oscar.

“Prometto di rivelarvelo, al vostro ritorno, amici!”

E così si erano lasciati.  A mezzodì si erano imbarcati su una galera ottomana che faceva spola tra l’isola di Tenedo ed Istanbul, attraverso lo stretto dei Dardanelli fino al Mar di Marmara.

Solo loro quattro: il Conte Jules de Saint, Monsieur Jacques Preux, Monsieur Domenico Sestini e l’Abate Lazzaro Spallanzani.

Accompagnati dal loro incommensurabile amore, i primi due. E dalla volontà ferrea di riuscire e tornare indietro, per liberare il Generale.

Assillato dall’ansia di conoscere e sapere, il buon Domenico. E disposto pure a perdersi, in Oriente.

Ossessionato dal desiderio di riscattarsi, Lazzaro. E pronto a tutto, per tornare a casa, coperto di onori e gloria.

Il Capitano Zane li osservò salire sulla tozza galera ottomana, tanto diversa dal suo agile brigantino.

Oscar gli sembrava proprio un ragazzo, soffocato in vesti turche troppo ampie per la sua esile figura, con il volto di un angelo come quelli dipinti da Fra’ Angelico che una volta aveva ammirato in qualche chiesa, non si ricordava più né dove né quando. Ma con lo sguardo fiero di un generale.

André non aveva il portamento di un precettore, piuttosto quello di un soldato, con il suo incedere saldo e sicuro.  Ma con gli occhi gentili di un poeta.

Avrebbero fatto meglio a guardarsi poco, quei due.

In cuor suo augurò loro ogni bene. Decise che era meglio farsi una bevuta e si rinchiuse in cabina a sbronzarsi.

* * *
 
Dopo due giorni di navigazione lenta, afflitti da un’aria calda e afosa, Istanbul li sorprese, in tutta la sua esotica magnificenza.

Distesa sulle acque del Bosforo, la città splendeva ammantata dalla luce dorata del sole al tramonto, emergendo dalle montagne dell’Asia minore che le facevano da quinta. Minareti, mura, torri e cupole. E fra tutte lo sguardo era catturato da una gigantesca cupola sorvegliata da quattro svettanti minareti, come sentinelle.

La moschea di Aya Sofya”, spiegò Domenico.

La prima volta che arrivai qui”, aggiunse Lazzaro, “questa vista mi ha commosso e lo spettacolo superava di molto la mia attesa. Penso che sia così anche per voi”.

Li osservò di sottecchi. Gli sfuggì un sorriso. Oscar e André tacevano, assorti a rimirare quello straordinario paesaggio. Le dita delle loro mani che si cercavano, per sfiorarsi appena, non potendo esporsi di più.

Peccato però che quando scenderete a terra, anche voi resterete delusi”, concluse. E poi si tacque. Afferrò il rosario ed iniziò a sgranarlo.

Un corvo, scorto il luccichio dell’argento e delle pietre di ametista, virò in picchiata.

Sorpreso ed impaurito, Lazzaro lo scartò.  Il corvo, dalle penne lucenti e nere, beccò le dita bianche della mano destra di Oscar e gracchiando riprese il suo volo.

Piccole gocce di sangue stillarono a terra.

“Be that word our sign of parting, bird or fiend!” I shrieked, upstarting / “Get thee back into the tempest and the Night’s Plutonian shore! /Leave no black plume as a token of that lie thy soul hath spoken! / Leave my loneliness unbroken!—quit the bust above my door! /Take thy beak from out my heart, and take thy form from off my door!”
Quoth the Raven “Nevermore.”[4]

(Edgar Allan Poe, The Raven)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

[1] Come Turno innalzò dalla rocca il segnale di guerra ed i corni con rauco canto rimbombarono (il libro convenuto per criptare il testo è il libro VIII dell’Eneide, che inizia così).
[2] e come agitò le armi, subito gli animi si scossero
[3] turbato in cuore per la triste guerra, si sdraiò e concesse un tardo riposo alle membra
[4] - “Sia questa parola il nostro saluto d'addio, uccello o demone!” - io urlai, balzando in piedi. /” Ritorna nella tempesta e sulla riva infernale della notte! / Non lasciare nessuna piuma nera come una traccia della menzogna che la tua anima ha pronunciato! / Lascia inviolata la mia solitudine! /Togli il tuo becco dal mio cuore e leva il tuo busto dalla mia porta!”
Rispose il corvo: “Mai più”.
  
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