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Autore: Adeia Di Elferas    07/05/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Vitellozzo Vitelli lanciò un ultimo sguardo alle sue spalle, verso Arezzo. La Porta Calcitrone era per lui come un valico sacro: il mese prima vi era passato da vincitore, come nuovo padrone della città – seppur per conto del Valentino – mentre ora era costretto a uscirne per cedere il passo a un francese.

Il rumore sferragliante dei carriaggi che lo accompagnavano non bastava a distrarlo dai suoi pensieri cupi. Era fine luglio, faceva molto caldo, e da un paio di giorni non c'era nemmeno un refolo d'aria con cui ristorarsi. Era stanco, sudato e sfiduciato.

Imbault Rivoire avrebbe preso stabilmente il suo posto senza averne merito e, quello che ancora era peggio, nessuno, nemmeno gli alleati, sembravano decisi a riconoscere a Vitellozzo i suoi meriti in quella guerra.

Forse, pensava il condottiero, aveva ragione Oliverotto da Fermo, quando si lamentava della gestione della campagna fatta da Cesare Borja. L'Euffreducci aveva fatto la voce grossa con Vitellozzo, con il Baglioni e anche con Giambattista Orsini per far loro aprire gli occhi, ma per il momento nessuno, nemmeno il Vitelli, aveva voluto dargli corda.

Oliverotto, ora e solo ora Vitellozzo cominciava ad ammetterlo con se stesso, aveva ragione: il figlio del papa non stava riconoscendo loro nulla, nemmeno sul piano economico. Li stava sfruttando e, probabilmente, alla fine avrebbe fatto di loro carne da cannone.

Tanto per cominciare, non era un mistero che Oliverotto, per rientrare almeno in parte delle ingenti spese sostenute nelle battaglie contro Camerino, avesse dovuto ingegnarsi per conto suo. Tornato a Fermo, aveva festeggiato la vittoria ottenuta sul campo e aveva ospitato in casa sua Girolamo Azzolini e Paolo Tabor, uomini facoltosi che, apparentemente, avevano nei suoi confronti dei debiti, e si era così impadronito delle loro ingenti ricchezze.

Vitellozzo, purtroppo, non aveva nessuno da avvelenare e spennare come aveva fatto l'amico, e così si trovava a far di conto anche mentre lasciava Arezzo. Certo, si era impossessato delle campane della cittadella e di buona parte dei beni del Monte di Pietà, ma di certo non si trattava di un indennizzo sufficiente a ripagarlo di tutte le spese sostenute... Perfino le quattro passavolanti che stava portando via con sé sembravano ricordargli quanti soldi avesse perso in quella guerra, senza, alla fine, ricavarne granché. Quei quattro pezzi di pregio e tutta l'artiglieria minore, perfino, era stata reclamata più volte dai fiorentini, ma il Vitelli non aveva alcuna intenzione di devolvere un bene tanto prezioso a qualcuno che gli aveva cannoneggiato contro fino al giorno prima.

Il resto del suo esercito sarebbe uscito da Porta Santo Spirito per sua volontà: preferiva non dare agli aretini l'impressione che stesse scappando. A quel modo, invece, spezzettando la colonna, avrebbe solo dato l'idea di essere in fase di spostamento e riorganizzazione.

“Che brutto spettacolo...” gli disse il suo secondo, avvicinandosi con discrezione e mettendosi a cavalcare lentamente accanto a lui: “E pensare che se i francesi non si fossero messi di mezzo con questa storia di tener buona Firenze...”

“Non è dei francesi la colpa, né di Firenze...” si trovò a ribattere, con amarezza, Vitellozzo: “Io credo bene che sia il Duca, quello che ha più colpe...”

Sentendo l'altro rispondere con un sonoro silenzio, il Vitelli temette all'improvviso di aver osato troppo e di aver detto qualcosa che non andava per nessun motivo nemmeno insinuato. Dando un po' di speroni alla sua bestia, quindi, fece un cenno e si mosse avanti, per impedirsi di parlare troppo. Non ebbe nemmeno il coraggio di controllare che espressione avesse fatto il suo luogotenente.

Di colpo una sensazione viscida prese possesso di lui. Non aveva mai avuto davvero paura, fino a quel momento. Certo, conosceva l'ansia della battaglia, l'incertezza dello scontro... Ma questa volta la paura era legata a un nome preciso: Cesare Borja.

Mentre lasciava Arezzo alle sue spalle – sentendo che ormai, davvero questa volta, non gli interessava più nulla di quella città – Vitellozzo si risolse in modo definitivo: si sarebbe ritirato a Città di Castello e, da lì, avrebbe contattato gli altri condottieri che si trovavano nella sua stessa situazione e avrebbe studiato un piano.

Il Duca di Valentinois andava fermato e andava fermato il prima possibile.

 

“Non puoi negare che Torelli l'abbia scritto chiaramente.” si incaponì Caterina, incrociando le braccia sul petto: “L'hai letto anche tu, prima: a Forlì sono in molti che mi rivorrebbero! Dunque, perché non dovrei provare a riprendermi quello che è mio di diritto?!”

La Sforza era tornata alla villa da appena un paio d'ore, eppure, per quanto avrebbe dovuto occuparsi dei bagagli, di dare disposizioni alla servitù, e di andare a vedere le bestie nuove che aveva nella stalla, tutto quello che sembrava intenzionata a fare era parlare della sua possibile restaurazione in Romagna.

Fortunati aveva provato a più riprese a sviare il discorso, a distrarla in qualche modo, aveva perfino tentato di sedurla al solo scopo di farle pensare ad altro per un po', ma nessuna delle sue iniziative aveva portato a risultati concreti. Si limitava, quindi, a seguirla per la casa, ascoltando le sue parole e cercando, di quando in quando, di infilarsi nel discorso per correggerne il tiro e ridimensionarne la magniloquenza.

“Quella lettera – riprese la Leonessa, indicando la missiva che aveva lasciato sul tavolone della sala delle letture – non me la sto sognando: mi rivogliono e io sono pronta a tornare.”

“Non abbiamo ancora avuto conferme da nessuno, né da Gian Piero, né dai tuoi figli circa le reali intenzioni del re di Francia – le ricordò il piovano, stanco – e senza la protezione ufficiale e il permesso di re Luigi, le tue terre non sono tue e basta! Non hai un esercito, non hai soldi e non hai nemmeno più il fisico adatto a certe imprese!”

La donna parve accusare molto il colpo dell'ultima osservazione, tuttavia, accigliata e contrariata, si trovò a ribattere: “Anche Bologna mi aiuterebbe... Se ce ne fosse bisogno, io potrei benissimo convincere tutti i piccoli signori d'Italia a fornirmi uomini e armi.” sembrava convintissima di quello che stava dicendo, e gonfiò perfino il petto, nel concludere: “Tutti sanno che non sarebbe solo il mio riscatto, ma il riscatto di tutti quanti!”

Francesco, che veramente non ne poteva più di ascoltare quelli che gli sembravano pericolosi vaneggiamenti, allargò le braccia e disse: “Mettiamo che trovassi qualcuno pronto a darti armi e uomini...”

“Troverei di certo qualcuno.” fece eco Caterina, decisa a non lasciarsi smontare da un piovano che nella vita non aveva fatto altro se non snocciolare rosari e far di conto.

“Ammettendo che sia così... Non tutti a Forlì sarebbero disposti a ritornare in guerra solo per tuo volere... In più Galeazzo è ancora un ragazzo e non sarebbe pronto a governare con te. Senza contare che devi ancora risolvere la questione dell'eredità di Giovanni, e ottenere la piena legittimazione di Giovannino...” sospirò Fortunati, e, sentendosi scorretto e cattivo nel giocare una carta tanto dolente, affondò il colpo: “E poi avresti subito addosso il Valentino.”

Lo spettro del Borja, evocato con tanta apparente leggerezza, spezzò il fiato della Tigre. Odiandosi per la propria debolezza, la donna si mise a sedere sulla prima poltroncina che trovò e restò in silenzio qualche secondo.

“Voglio che tu chieda di nuovo a Gian Piero e ai miei figli quali sono le reali intenzioni del re di Francia.” sussurrò, appena udibile: “E voglio che tu mi faccia avere una risposta il prima possibile.”

“Va bene.” fece lui, sfinito, ma sapendo che quei due ordini stavano ponendo fine, se non altro per il momento, a una discussione che lo irritava.

“Se però dalla Lombardia dovessero arrivare le notizie che spero – concluse la Tigre, guardando altrove, con voce fredda – allora non dovrai provare in nessun modo a distogliermi dal mio obiettivo.”

“Come vuoi.” sbuffò lui: “Ma sappi che secondo me non ha senso...”

“Tu mi preferisci qui, a fare la vecchia che fissa l'orizzonte e impara a ricamare.” l'attaccò la Sforza, sollevando a fatica gli occhi verdi verso i suoi: “Ma finché avrò anche solo uno spiraglio di speranza, io non rinuncerò a vendicarmi. Fin'ora ho dovuto aspettare e riprendermi, ma adesso che le cose stanno cambiando, non puoi pretendere che me ne stia immobile come una statua, aspettando che arrivi la morte.”

“Non è questo che ti sto chiedendo di fare...” provò ad allentare la tensione lui: “E poi sei ancora bellissima e piena di vita. Senza contare che sei ancora giovane: una donna a trentanove anni non è certo una vecchia!”

“Parli così solo perché hai tre anni più di me.” rimbeccò Caterina, con il volto, però, che andava a distendersi: “Comunque io ho più di trentanove anni... Gli ultimi anni per me sono valsi il doppio, o il triplo. Se mi chiedessi quanti anni ho, ti risponderei con una cifra ben diversa da quella che dici tu...”

“Non hai voglia di vedere i tuoi nuovi cavalli?” chiese, cambiando radicalmente argomento Francesco: “Se uno di loro ti piace particolarmente, potresti cavalcarlo già oggi stesso.”

L'idea sembrò ravvivare l'espressione della milanese che, però, tra il serio e il faceto, alzandosi, si tenne la schiena e commentò: “Andiamo a vederli, ma in quanto a cavalcare, benché ne abbia una gran voglia, mi sa che se ne riparlerà domani... Questa vecchia deve ancora riprendersi dal viaggio da Firenze a qui...”

Nelle stalle, la donna esaminò con occhio critico i cavalli che poteva ormai definire di sua proprietà. Espresse apertamente il suo rammarico nel notare come, probabilmente, nessuno dei cinque sarebbe stato adatto per la guerra, ma poi dovette anche considerare come, in effetti, non avrebbe mai dovuto usarli in tal senso.

Francesco ebbe la netta sensazione che uno fra tutti, uno stallone di media misura, con gli occhi di un tranquillo color castagna, ma con un carattere tutt'altro che docile, avesse catturato l'attenzione della Leonessa. Sapere che si trattava di una bestia regalata da Scipione Riario, poi, parve renderglielo ancora più gradito.

Ripromettendosi di cavalcarlo presto, con il permesso del piovano, la Sforza si decise a tornare alla villa. Camminava lentamente sotto al sole di fine luglio, come a voler prolungare quei momenti di tranquillità.

Tuttavia, quando arrivarono di nuovo al chiuso, forse proprio per il passaggio dalla luce sfolgorante alla relativa penombra della villa, la Tigre parve lasciarsi prendere di nuovo dalla sconforto. Non voleva risultare pesante, ma non riuscì a trattenersi.

Mentre l'uomo dava disposizioni a Creobola affinché gli portasse il suo mantello da viaggio – che era superfluo con quel caldo, ma che lo proteggeva bene dalla polvere sollevata sulla la via – la milanese lo afferrò per un braccio e constatò, con voce dolente: “Forse, se recuperassi le mie terre, potrei ottenere anche Faenza, se Astorre è davvero morto... In fondo, se tutto fosse andato secondo i piani, Faenza sarebbe stata di mia figlia...”

Facendo del suo meglio per non apparire troppo contrariato da quel ritorno a un argomento che credeva chiuso almeno per quel giorno, Fortunati strinse le labbra e poi ribatté: “Davvero sarebbe stata sua? Credevo che alla fine non avresti mai lasciato realmente tua figlia ad Astorre...”

“Infatti non mi riferivo al loro matrimonio, ma a quello che si sarebbe celebrato tra Bianca e Ottaviano Manfredi.” precisò la Leonessa.

Quel richiamo al defunto Ottaviano raggelò Francesco, che, nel profondo, non si era mai tolto di dosso il senso di colpa per la sua morte, malgrado fosse cosciente di non aver mai avuto possibilità di salvarlo dall'agguato in cui era caduto sulla via per Firenze.

“Se solo non fosse morto...” riprese a dire la donna, ma il piovano la frenò.

Con un tono brusco che non era nelle sue corde, il fiorentino chiese: “E che avrei dovuto fare? Mi sarei dovuto offrire ai suoi assassini, in modo che potesse scappare e mettersi in salvo mentre trucidavano me?”

Caterina rimase un attimo in silenzio. Non ebbe il coraggio di dire un 'sì' a voce, ma il suo sguardo tradiva la tentazione di farlo. Si rendeva conto della crudeltà di quello che stava suggerendo e maledisse silenziosamente Fortunati per averle messo in testa quell'immagine.

Francesco, fingendo di non accorgersi della reazione incerta della donna che amava, deglutì un paio di volte, prese il mantello recuperato, finalmente, da Creobola e concluse: “Torno in città, ma domattina sarò di nuovo qui, se vuoi. Così... Così potrai uscire a cavallo. E nel frattempo scriverò anche ai tuoi figli e non solo: vediamo se qualcuno sa dirci qualcosa di più sulle reali intenzioni del re di Francia.”

“Perché non resti qui anche stanotte?” chiese la Sforza, provando a rabbonire a quel modo il fiorentino.

Questi parve pensarci qualcosa istante, poi, con gesti secchi e distaccati, scosse il capo: “No, no, meglio di no... Ci vediamo domani.” e detto ciò uscì senza aggiungere altro.

Lungo la via che lo riportava al suo alloggio in città, il piovano non sapeva darsi pace e si tormentava come un martire all'idea che, invece di essere per strada e al caldo di luglio, avrebbe potuto essere con la sua Caterina, tranquillo, relativamente al fresco, in attesa di una notte d'amore con lei. Eppure, più ci ragionava più si diceva di aver fatto la cosa giusta, allontanandosi. Prima di tutto, doveva concentrarsi per scrivere le lettere che la Tigre gli aveva chiesto di spedire ai figli e a Gian Piero in merito alle concrete intenzioni del re di Francia, e, in secondo luogo, non voleva averla a quel modo. Aveva capito anche troppo bene che la proposta di passare la notte assieme era uscita dalle labbra della Sforza solo come tentativo di farsi perdonare per aver evocato il fantasma di Ottaviano Manfredi.

Francesco, mentre arrivava a destinazione e si ritirava subito nella sua camera da letto per mettersi alla scrivania, continuava a pensare di essere, forse, troppo categorico, ma non vedeva altro modo possibile, per lui, per vivere quella relazione. Finché si trattava di offrirsi alla donna che amava per soddisfare i suoi bisogni e impedirle di stare male, o per assecondare il suo sincero desiderio, gli stava bene, ma per lui si trattava di una cosa troppo importante, per svilirla a quel modo, per usarla come un passatempo... Per Caterina aveva infranto un voto che aveva sempre considerato inviolabile, e dunque voleva almeno che il principio per cui l'aveva fatto fosse giusto.

Mentre si apprestava a scrivere la prima lettera del breve elenco che si era prefissato, l'uomo si allentò un po' il colletto dell'abito scuro e sollevò lo sguardo verso il soffitto. Faceva sempre più fatica a gestire i sentimenti che provava verso la Leonessa e, negli ultimi giorni, gli risultava ancor più complicato ridimensionare le reazioni eccessive della donna alle vaghe notizie arrivate dal nord.

Probabilmente, pensò, solo se avesse sentito dalla viva voce dei suoi figli che re Luigi non era davvero interessato a ridarle Forlì, si sarebbe data pace. Al momento gli sembrava solo una scheggia impazzita che, da un momento all'altro, avrebbe potuto schizzare via e andare a infilarsi nei posti meno indicati.

Era stato così faticoso e pericoloso permetterle di mettersi in salvo dal Valentino, da Roma, dal papa... Non poteva permettersi di lasciarle rovinare tutto solo per una falsa speranza.

Così, intingendo la punta della penna nell'inchiostro, decise di partire dalla missiva destinata a Ottaviano. Benché ormai anche lui, come tutti gli altri, lo ritenesse una testa di legno, la sua esperienza come padre confessore gli aveva permesso, negli anni, di vedere nel Riario un figlio alla disperata ricerca dell'affetto e dell'attenzione della madre. Forse facendo leva su una sua – poco probabile – influenza sulla Tigre, Francesco sarebbe riuscito a fargli fare quello che voleva.

'Io non vo ho da dire se non che parendo ad monsig.re vostro R.mo voi torniate a vostra posta: ma chiaritevi bene prima se questi franzesi dicono da dovero, o sono per farci bene, et non dondolarci o non ad ciò non pigliassi un granchio – iniziò, senza mezzi termini, in modo che Ottaviano capisse non solo la serietà del messaggio, ma anche l'importanza che gli veniva attribuita dal piovano, che gli si appellava come se davvero potesse essere l'unico a far la differenza – questo vi dico S. mio perchè le lettere di Corte ce dicono che ad questa hora sono certi ce sareno insignoriti de tucte le cose nostre, et per ancora non se ne vede pure segno et e Franzesi hanno ogni cosa in mano, che vi prometto S.re ce da che pensare non poco, non per dubio di loro, ma per cognoscere chel cie chi va differendo ogni nostro bene, che dio gliel perdoni se lo merita'.

Lasciandosi andare a un momento di scoramento, Fortunati volle aggiungere ancora qualche frase, giusto per far capire ai fratelli Riario quanto la loro madre fosse rimasta turbata e ottenebrata dalle notizie arrivate dal nord. Volle anche, in uno slancio di egoismo che in realtà lo metteva profondamente a disagio, aggiungere notizie sulla propria condizione di difficoltà.

'Vostra madre – scrisse, quasi di getto – non può essere peggio contenta, et io sto como potete pensare: et è forza torniate almeno uno di voi, che io per me non posso più di questa altra settimana.'.

Concluse con una frase di commiato e mise luogo e data: Florentie die 30 Iulij 1502.

Rilesse tutto tre volte, sentendosi soddisfatto della propria capacità di sintetizzare i concetti che gli premeva veicolare a Ottaviano e, di rimando, anche a Cesare. Firmò con un informale: F. F. Plebanus.

“Dopotutto, non posso certo continuare all'infinito a distrarla con i suoi nuovi cavalli...” borbottò tra sé, mentre chiudeva la lettera, sigillandola.

 

Troilo De Rossi si lasciò cadere pesantemente sulla sedia che Gian Piero gli stava offrendo e poi, premendosi le mani contro le tempie, disse: “Ho la testa che scoppia... Non sono abituato a eccedere così con il vino.”

“Ma il re di Francia lo è, e dunque è stato un bene, per una volta, che anche tu abbia buttato giù qualche calice di troppo...” commentò il Trivulzio, mentre anche il Landriani annuiva.

L'emiliano guardò entrambi a lungo. Le loro canizie, alla luce tremula delle candele gli sembravano delle nuvole che ondeggiavano senza sosta nella stanza. Chiuse gli occhi, cercando di mettere un freno a quella sgradevole sensazione di essere su una barca in mezzo a un mare in tempesta, ma, nel farlo, sentì solo montare la nausea.

“Avrò anche bevuto come re Luigi – disse, il volto di un rubino acceso, che veniva esaltato dalla cornicie biondo rossiccia della barba che stava ricrescendo e dei capelli corti e curati – ma non credo di averlo convinto più di tanto.”

“Secondo me, invece, gli state simpatico.” si azzardò a dire Gian Piero, che, giunto a Pavia non appena Gian Giacomo gli aveva chiesto di unirsi a loro, si sentiva pieno di speranze per quella delicata missione in cui era stato coinvolto.

Nell'ottica di favorire presso il re il De Rossi, poi, il Landriani si stava convincendo di potar fare qualcosa di concreto anche per Caterina. Si diceva che, con la giusta attenzione, avrebbe potuto trasformare le promesse di Luigi in realtà e, appoggiandosi anche ai Bentivoglio di Bologna, che grazie a Ippolita si stavano riscoprendo scettici verso il Valentino e favorevoli alla causa sforzesca, sarebbe riuscito a far restituire alla Tigre almeno Forlì.

“Certo che gli sta simpatico!” esclamò il Trivulzio, che riteneva la serata più che riuscita: “Di questo pesso, andremo ben oltre le mie aspettative!”

Secondo il Trivulzio, infatti, non sarebbe stato sufficiente far sì che Troilo venisse lodato per le sue innegabili virtù belliche dal re, ma doveva anche entrare con lui in sintonia a livello personale. Solo a quel modo, una volta che tutti loro fossero stati certi della morte di Astorre Manfredi – ormai abbastanza conclamata, ma non ancora ammessa e ratificata da Roma – Gian Giacomo avrebbe potuto proporre di far sposare all'amico Bianca Riario, spacciando quell'unione come un'ulteriore beffa alla Tigre e come un modo arzigogolato, ma legalmente accettabile, di rendere in modo stabile buona parte delle terre rossiane a Troilo, sottraendole alle influenza di altri De Rossi e dei francesi.

In effetti re Luigi sembrava aver apprezzato molto sia il fare compito dell'emiliano, sia la sua disponibilità a bere assieme a lui, lasciandosi trascinare – seppur controvoglia – in una sorta di sfida a chi faceva la battuta più volgare e sboccata. Anche se il De Rossi non amava quel genere di intrattenimenti, facendo da sempre il soldato ne aveva sentite di cotte e crude e dunque gli era bastato tradurle nel francese migliore che il vino gli aveva permesso di rispolverare. Il sovrano ne era rimasto entuasta e, solo quando aveva visto Troilo davvero in difficoltà e cadente di sonno, gli aveva concesso di andare a riposare, ma strappandogli la promessa di una nuova notte brava.

Per l'emiliano era stato un vero sollievo, specie perché aveva capito che il re voleva terminare la nottata in compagnia di alcune cortigiane offertegli dai pavesi e lui, per quanto alticcio, non aveva alcuna intenzione di spingersi fino a quel punto solo per avere la possibilità di far breccia nelle simpatie di un borioso francese.

“A dirla tutta, secondo me – disse proprio il condottiero, appoggiando il gomito alla cornice del camino spento – il re di Francia farà di più e ti concederà il titolo di Marchese. Così sarai Conte e Marchese di San Secondo: una posizione inattaccabile.”

Troilo si accigliò abbandonandosi ancora di più allo schienale della sedia: “Conte e Marchese...” si trovò a ripetere per due o tre volte, come se la cosa gli suonasse strana, e poi, colto da un moto di disperazione acuita dal troppo vino, soffiò: “Io voglio solo rivedere Bianca...”

Gian Piero, al quale ufficialmente non era stata spiegata nel dettaglio tutta la questione, ma che aveva ben intuito che l'interesse del De Rossi non era solo economico o politico, né tanto meno legato a una mera infatuazione, ma a una passione molto più terrena e concreta, si trovò in imbarazzo nel sentire quelle parole. Anche se Bianca non era di fatto sua nipote, lui l'aveva sempre considerata tale e il fatto che avesse lo stesso nome della figlia che aveva perso, gliela rendeva ancora più cara.

“Non potrò nemmeno vedere nostro figlio appena nato...” continuò Troilo, dimentico dei due uomini che erano lì con lui.

“Il nostro amico ha bevuto davvero troppo...” sospirò il Trivulzio, fingendo che le parole dell'emiliano fossero solo farneticazioni da ubriaco: “Venite di là con me, Gian Piero... Lasciamo il nostro amico in pace, e andiamo a discutere degli ultimi dettagli. Secondo me gli faremo avere il Marchesato già prima della fine di questo torrido agosto...”

Il Landriani non se lo fece ripetere, ma, prima di uscire, ebbe l'accortezza di dire a Troilo: “Vi manderò un paio di servi, affinché vi aiutino a raggiungere la vostra camera da letto...”

   
 
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