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Autore: Europa91    08/05/2022    3 recensioni
Otto anni dopo l’incidente di Suribachi, Verlaine viene informato della morte di Rimbaud.
“Arthur era morto. Il partner che lo aveva salvato dal laboratorio del Fauno e la persona che aveva tradito. (…)
Lo avrebbe salvato, avrebbe trovato un modo per riaverlo nella sua vita.”

Qualche stagione prima di Dazai e Odasaku, c’era stato qualcun altro che aveva provato a cambiare il corso del destino.
[Spin off di “In Order to Save You”]
[Contiene Spoiler della Novel Stormbringer]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Arthur Rimbaud, Chuuya Nakahara, Nuovo personaggio, Paul Verlaine
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People Exist To Save Themselves'
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Note autrice: Finalmente mi sono decisa a postare il primo capitolo del “famoso” spin off di “In Order To Save You” di cui nessuno aveva bisogno XD. Tutto è partito come sempre dalla seconda lettura di Stormbringer al termine della quale me ne sono uscita con un: per me Dazai e Verlaine hanno parecchio in comune dovrebbero interagire di più.

Nonostante queste premesse è una storia che si può leggere benissimo a sé, visto che è tutta incentrata sul personaggio di Verlaine e ovviamente Rimbaud. Il racconto inizia molti anni prima e almeno per i primi capitoli si concentra sul passato di questi personaggi. Solo verso la fine andrà a intrecciarsi con il sequel di “In Order” (perché si, ha un seguito). Per chi non lo sapesse io adoro il personaggio di Paul Verlaine e attendo il giorno in cui verrà animato così tutto il fandom verrà a conoscenza della sua esistenza XD

P.s. Il titolo viene da un poema di Rimbaud


 


 


 

A Eneri Mess & Ode to Joy

Merci per l’infinita pazienza e sopportazione


 

 


 


 

 

I Stagione - Jadis, si je me souviens bien…


 

«Un soir, j’ai assis la Beauté sur mes genoux. — Et je l’ai trouvée amère. — Et je l’ai injuriée.» Une Saison en Enfer – Jadis, si je me souviens bien






 

 

L’Europa aveva un fascino intrinseco che avrebbe potuto definire solo in un modo, rassicurante. Il vecchio continente era sempre stato prevedibile e questa era una caratteristica che lo aveva sempre in qualche modo confortato. Sebbene fossero al corrente di come l’equilibrio raggiunto al termine della Grande Guerra non fosse destinato a perdurare, le nazioni si crogiolavano nel desiderio di voler mantenere più a lungo possibile quella facciata d’effimera illusione. I fasti dell’epoca passata erano ormai solo un ricordo, memoria di un tempo che non sarebbe più tornato. L’ombra del recente passato era ancora presente nelle menti dei governanti che avevano, invano, cercato di riportare quel mondo a una grandezza ormai sfiorita.

Tra le maggiori Organizzazioni europee, alcune erano uscite vittoriose da quel sanguinoso conflitto, altre meno. Su di un punto però i vari Paesi si erano trovati unanimemente d’accordo: il non voler ripetere gli stessi errori del passato. Si sarebbero impegnati affinché il flagello della guerra rimanesse solo un lontano ricordo, destinato a sbiadire con il passare degli anni.

Con queste poetiche premesse di pace e prosperità era solo questione di tempo prima che una nuova tempesta tornasse ad abbattersi su di loro. Paul Verlaine aveva deciso che si sarebbe seduto e avrebbe atteso quel momento, con la sola compagnia degli echi di un passato che si divertiva a tormentarlo e consumarlo. In fondo oltre alla propria vita non gli restava altro, solo un mare di ricordi di stagioni ormai lontane.


 

 

***

 

 

Francia


- Qualche anno prima -




 

«Davvero non sei mai stato a Parigi?» il moro fissò l’altro bambino per qualche secondo, meditando su quali parole utilizzare per fornire una risposta esaustiva a quella, che più di una domanda, pareva essere un’affermazione e anche abbastanza provocatoria.

Il piccolo abbassò lo sguardo, mettendosi a fissare le punte delle proprie scarpe con rinnovato interesse, mentre ancora cercava un modo con cui ribattere.

Il suo amico aveva ragione, non era mai stato nella capitale, aveva sempre vissuto nelle Ardenne ma presto si sarebbe trasferito. Parigi era il suo sogno, la vita di campagna non faceva per lui. Sapeva di essere destinato ad altro, anche se nell’immediato doveva solo fornire una risposta al proprio compagno di giochi che lo fissava ancora dall’alto in basso, complici quei pochi centimetri d’altezza che li separavano.

«Ci andrò l’anno prossimo Charlie» rispose cercando di fare il possibile per suonare convincente, ma quello che uscì dalle sue labbra su solo un sussurro. Simile al miagolio di un gattino spaventato.

«Paul sappiamo entrambi che non sarà così, frequenterai la mia stessa scuola, come hanno fatto i nostri genitori prima di noi e come faranno anche i nostri fratelli» dopo aver udito quella, che in fondo era solo l’amara verità, il bambino di neanche sette anni gonfiò le guance arrabbiato prima di prendere fiato per poi annunciare solennemente;

«Un giorno io me ne andrò a Parigi e diventerò qualcuno»

Fu in quel momento che la sua Abilità si attivò per la prima volta e un fascio di luce rossa finì con l’avvolgere entrambi, estendendosi fino alla fine dell’isolato. Fu questione di un attimo ma tanto bastò per terrorizzare loro, e altri poveri passanti.

Charles corse fino a casa in lacrime, mentre Paul restò per qualche minuto a fissare incredulo le proprie mani, incapace di fare qualsiasi cosa.

Un anno dopo, del piccolo Paul Verlaine si sarebbero perse le tracce. Nel frattempo, in una rinomata scuola privata alla periferia della capitale francese, il mondo si preparava a fare la conoscenza del giovane Arthur Rimbaud.


 

***


 

Ogni nazione europea poteva vantare al proprio interno varie Organizzazioni in cui si raggruppavano individui che possedevano delle Abilità Speciali. Tra le più famose spiccavano la Torre dell’Orologio inglese e i Poètes Maudits francesi, per non citare la Guild che da oltreoceano, cercava da sempre di estendere la propria influenza sugli affari del vecchio continente.

Il giovane Rimbaud aveva del talento e possedeva un’Abilità unica nel suo genere, tanto da essere entrato a far parte del gruppo elitario dei Trascendentali. Era uno degli uomini di punta dei Maledetti, come amavano definirsi i possessori d’Abilità d’oltralpe; proprio per questo, a soli diciotto anni, gli venne assegnata un’importante missione top secret.

Era diventato un agente della squadra speciale antiterrorismo, o almeno, quello era il nome ufficiale con cui i Maledetti, avevano deciso di mostrarsi agli occhi del mondo. Rimbaud non poteva ancora saperlo, ma quella operazione avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

Il Fauno era stato sconfitto, insieme al movimento antigovernativo da lui creato. Era stato assassinato dal proprio orgoglio, ucciso dalla creatura che aveva plasmato. Un essere artificiale denominato Black N. 12; un mostro che controllava la gravità a proprio piacimento e grazie a questo poteva annullare tutti gli attacchi fisici. Rimbaud nella sua breve esistenza non aveva mai visto nulla di simile. Quando Black N.12 venne liberato dall’influsso del proprio creatore non ci pensò due volte a vendicarsi e ucciderlo, prima di perdere conoscenza. Era bastato un semplice ed elegante movimento del palmo della sua mano, perché metà struttura svanisse insieme alla parte superiore del corpo di quel uomo così pazzo da averlo creato.

Fu solo in quel momento che Arthur si prese qualche istante per osservare quell’essere; quando dovette caricarselo sulle proprie spalle per portarlo fuori dalla struttura, o da quello che ne rimaneva.

Era un mostro dall’aspetto così umano, forse troppo. Aveva un viso perfetto, incorniciato da sottili e lunghi capelli biondi. Rimbaud non aveva mai visto una pelle tanto bianca o delle ciglia così lunghe. Quello era un angelo che nascondeva un demone sotto la propria pelle.

Qualcuno dei suoi compagni Maledetti lo aveva preso in giro, definendo bonariamente il prigioniero come il “bel principe addormentato”. Rimbaud non gli aveva dato seguito; all’inizio si era limitato ad osservare quel volto, incapace di dare un ordine o definizione ai suoi stessi pensieri o sentimenti. Black N.12 era una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. Era perfettamente consapevole del grado di pericolosità di quell’individuo, eppure in quel frangente, mentre si trovava tra le sue braccia privo di sensi, una parte di lui desiderava proteggerlo da quel mondo che già stava pensando a come sfruttarlo. La mente di Black conteneva codici ed informazioni che i loro nemici avrebbero pagato oro per possedere, così il Governo aveva finito per etichettarlo come risorsa preziosa.

Aveva lasciato il biondo a riposare nella stanza di un hotel economico che avevano messo a loro disposizione. Era stato sedato, per cui la sua assenza non sarebbe certo stata un problema, soprattutto se si trattava di un paio d’ore. La struttura era comunque costantemente monitorata da agenti nelle vicinanze, in modo che la popolazione locale non potesse correre alcun tipo di pericolo.

Rimbaud aveva deciso di concedersi una piccola pausa ordinando un drink nell’unico bar del paese, sperando in questo modo di staccare un po' la mente dall’individuo che aveva lasciato privo di sensi nella propria camera. Per caso aveva finito con l’incontrare un proprio collega. Si erano scambiati solo poche parole ma erano bastate perché capisse di come Black venisse trattato in quella struttura di ricerca. Arthur non ci voleva né poteva credere, ma in fondo sapeva bene come la crudeltà fosse insita nel cuore degli esseri umani. Black però non lo era. Era un essere artificiale. Un mostro che avrebbe consegnato al più presto nelle mani del governo francese. Non doveva lasciarsi coinvolgere. Una spia non poteva avere legami. Non doveva provare sentimenti.

 

«Come ti chiami?» fu una delle prime cose che la bestia gli chiese, guardandolo per la prima volta negli occhi.

Arthur era appena tornato in albergo e con somma sorpresa aveva trovato Black N. 12 completamente sveglio mentre vagava con fare curioso per la stanza. Sembrava un bambino che osservava l’ambiente intorno a lui con uno sguardo ricolmo di attenzione e sorpresa.

«Dove ci troviamo?»

«A cosa serve questo?»

«Perché siamo qui?» aveva iniziato a riempirlo di domande e per un attimo Arthur trovò la cosa talmente fuori luogo da essere quasi divertente.

In fondo Black era davvero come un bambino. Non conosceva nulla del mondo, e a lui sarebbe toccato il compito di insegnarglielo. All’inizio la cosa lo aveva turbato, non sentendosi adatto a quel compito gravoso, ma ora improvvisamente, quella prospettiva lo stuzzicava. Educazione e supervisione, erano queste le parole esatte scritte nero su bianco nel rapporto che gli era stato consegnato qualche minuto prima. Sentì un brivido di eccitazione crescere dentro di lui.

Fece qualche passo in avanti richiudendosi la porta alle proprie spalle, levandosi anche i paraorecchie ed il pesante cappotto di dosso. Fu scosso da un leggero tremore di freddo che però cessò una volta che le sue iridi incrociarono nuovamente quelle del biondo a pochi metri da lui. Quella fu la prima volta in cui notò con chiarezza di che colore fossero. Durante l’assalto al laboratorio del Fauno, gli occhi di Black erano completamente bianchi, come quelli di una bestia priva di raziocinio o controllo. Ora invece il mostro aveva assunto un aspetto umano, scegliendo le fattezze di un bellissimo angelo caduto creato al solo scopo di portare nel mondo caos e distruzione.

«Allora?» riprese ad incalzarlo vedendo come la spia stesse ancora in silenzio, accanto al ciglio della porta.

«Cosa?» Arthur si era incantato senza volerlo ed era certo di essersi perso qualche parola.

«Ti ho fatto diverse domande ma non hai ancora risposto a nessuna. Quindi cominciamo con qualcosa di semplice, come ti chiami?»

Paul

Già, quello un tempo era stato il suo nome. Un nome che da anni non gli tornava alla mente. Il nome che i suoi genitori gli avevano dato, che gli ricordava il proprio passato, quel pezzo della sua vita che voleva solo dimenticare e seppellire in qualche angolo remoto della propria mente. Un nome che gli suonava quasi estraneo in quel momento, come se non gli appartenesse più, come se avesse negli anni, perso ogni diritto di usarlo. Tornò a posare lo sguardo sulla figura davanti a lui.

Paul

Black N.12 doveva avere un nome, anche quello rientrava nel suo incarico. Doveva essere lui ad assegnarne uno a quell'essere artificiale. Era il primo compito che i suoi superiori gli avevano affidato, era indicato nel rapporto, pagina uno, seconda riga.

«Mi chiamo Arthur» fu tutto ciò che rispose dopo qualche minuto di silenzio. Il biondo non fece una piega e non gli staccò mai gli occhi di dosso.

«Io mi chiamo Arthur Rimbaud» ripeté con calma, prima di aggiungere « mentre tu sei Paul» fu in quel momento che finalmente qualcosa sembrò scalfire la corazza dell’essere artificiale, che assunse quanto di più simile ad un’espressione di pura sorpresa.

«Paul?» chiese confuso inclinando leggermente il volto;

«Da oggi in poi ti chiamerai Paul Verlaine. Ti piace?»

«Perché mi stai dando un nome?» quella reazione lo colse del tutto impreparato. Paul sembrava quasi offeso. Iniziò a comprenderne il motivo poco dopo;

«Io non merito di possedere un nome. Io non sono un essere umano, sono solo un ammasso di dati, una serie di codici...»

Gli tirò uno schiaffo.

Il biondo si portò una mano a coprire la guancia lesa. I suoi occhi bramavano delle risposte. Arthur non era sicuro su come procedere. Lo afferrò per un braccio e lo portò davanti allo specchio da parete posto accanto al letto matrimoniale che da solo occupava praticamente metà di quella stanza.

«Ora guarda e dimmi, cosa vedi?» Paul si voltò con uno scatto che il moro non aveva previsto. Sentì i suoi capelli solleticargli il viso ma lo fermò ed obbligò a concentrarsi sul proprio riflesso;

«Noi» fu la risposta annoiata che ottenne.

«Guarda meglio. Siamo uguali vedi? Sei un essere umano esattamente come me»

Verlaine gli regalò un’espressione da prima donna offesa, che in seguito Arthur avrebbe etichettato come suo marchio di fabbrica. Era lo stesso identico sguardo che avrebbe ritrovato anni dopo sul viso di un ragazzino dai capelli rossi.

«Noi non siamo uguali» sottolineò quasi scocciato;

«Non fare il difficile. Hai capito cosa intendevo. Sei stato creato da un pazzo in un laboratorio e hai vissuto come un burattino nelle sue mani ma ora, ora hai la possibilità di vivere la tua vita. Di decidere quale strada percorrere. Sei il solo artefice del tuo destino» non era propriamente vero. Arthur sapeva bene quali fossero i piani del suo Governo per Paul ma non era ancora il momento perché anche l’interessato li conoscesse. Doveva solo conquistarsi la fiducia di quella bestia, che gli sembrava di minuto in minuto, tutto meno che tale.

«Perché dovrei vivere la mia vita? Io non lo capisco»

Arthur prese un lungo respiro. L’ennesimo di quella giornata. In fondo Paul non aveva tutti i torti, non aveva chiesto lui di venire al mondo, di essere creato, ma questo non gli poteva impedire di vivere.

«Da oggi io ti insegnerò ogni cosa. Ti hanno affidato a me. Diventerai una spia francese e saremo compagni» il biondo osservava ancora il proprio riflesso sullo specchio, come se non gli importasse affatto di quelle parole, limitandosi a lasciarsele scivolare addosso.

Arthur fece un paio di passi indietro, offrendogli del tempo per elaborare il tutto. Quando, inaspettatamente, Verlaine riprese a parlare;

«Perché proprio Paul?» lo aveva nuovamente preso in contropiede;

«Mi sembrava un nome adatto a te» si trovò a rispondere senza esitazione.

«Apparteneva a qualcuno importante vero? Forse, qualcuno a cui tenevi?» Arthur si voltò dandogli le spalle.

Non poteva rispondere a quella domanda, ci sarebbero state delle spiacevoli conseguenze se lo avesse fatto. La spia Rimbaud non poteva concedersi il lusso di provare delle emozioni. Vi aveva rinunciato a sette anni, quando gli uomini del Governo avevano bussato alla sua porta e lo avevano strappato ai suoi affetti. Ripensò al volto di Charles e all’ultima volta che lo aveva visto, attraverso le sbarre di una fredda cella in una prigione. Aveva accettato tutto, scelto un nuovo nome in codice, di condurre una vita nell’ombra, solo per inseguire il suo sogno di bambino. Ripetendosi di averlo fatto anche per gli interessi del proprio Paese.

«Non importa» fu tutto ciò che disse, cercando di terminare al più presto quella conversazione. Questa volta però fu Verlaine a fermarlo afferrandolo con forza per un lembo della camicia.

«Non mi puoi ignorare in questo modo» mormorò offeso

«Primo insegnamento, ti sembrerà strano ma sappi che il mondo non gira intorno a te» il biondo mollò la presa come se si fosse ustionato.

«Perché hai accettato questo incarico?» fu la sola cosa cosa che chiese andando a sedersi sul letto, stando ben attento di evitare qualsiasi contatto visivo.

«Perché invece tu non te ne sei ancora andato? Con la tua Abilità sarebbe un gioco da ragazzi» Paul gli regalò un sorriso stanco, ancora acerbo, prova del fatto che non fosse abituato ad aprirsi in quel modo con qualcuno. In effetti era la prima volta che sosteneva una conversazione così a lungo, non ricordava di aver mai parlato tanto.

«E dove dovrei andare? Sono un esperimento»

«Quando la smetterai di vederti in quel modo?»

«Tu come mi vedi?»

Come un bellissimo demone tentatore al quale devo prestare attenzione ma allo stesso tempo insegnare a vivere.

«Sei il mio partner»

Vedendo come il biondo sollevò un sopracciglio confuso provò a spiegarsi meglio;

«Lavoreremo insieme»

Gli occhi di Verlaine tornarono gelidi in quel momento, poteva avvertire il freddo contenuto in quelle iridi sulla propria pelle. Rimbaud giurò a se stesso che avrebbe fatto il possibile per aiutarlo a vivere, o perlomeno a comprendere come anche la sua esistenza potesse avere un qualche valore.


 

***


 

- Quattro anni dopo -




Parigi era meravigliosa, con le sue luci, i colori e le atmosfere da sogno che solo la capitale francese sapeva regalare. La Ville Lumière era un gioiello tanto unico quanto irripetibile, in grado di conservare il proprio fascino in qualsiasi stagione. Erano anni che Rimbaud viveva nella capitale, aveva provato sulla propria pelle, il gelo delle mattine invernali, quando alle prime luci dell’alba una leggera nebbiolina si levava lungo i canali della Senna, conferendole un’aura magica e misteriosa. Odiava la calura delle giornate estive, lungo i sempre affollati Champs Élysées mentre per contro, amava la quiete autunnale, con i suoi tappeti di fogliame multicolore. La sua stagione preferita però rimaneva la primavera. Quando la natura si risvegliava dal proprio sonno, e i fiori tornavano con i propri colori ad ispirare i pittori di Montmatre. La città si riempiva di vita e calore, esattamente come aveva amato dipingerla nelle proprie fantasie infantili.

Ed era proprio in primavera che cadeva il compleanno di Paul. In realtà non era un vero e proprio compleanno, ma il giorno in cui quattro anni prima il compagno aveva ucciso il Fauno liberandosi della sua influenza. Il giorno in cui si erano incontrati.

Non lo avevano mai festeggiato prima, ed era da un po’ che Arthur desiderava fare qualcosa di speciale per il proprio partner. Presto sarebbero dovuti partire per un’importante quanto pericolosa missione, dalla quale non aveva la certezza che sarebbero tornati.

Il loro obiettivo era un soggetto dotato di Abilità che nonostante avesse l’aspetto di un ragazzino, possedeva tutte le caratteristiche per diventare una minaccia a livello globale. Era un essere che nascondeva dentro di sé il potere per distruggere il mondo, in fondo, si trovò involontariamente a pensare Rimbaud, non era tanto dissimile da Paul.

Accantonò quell’idea, decidendo di non dargli troppa importanza. Con il senno del poi fu il suo primo errore.

Rimbaud si era impegnato per rendere quella giornata indimenticabile. I compleanni erano ricorrenze importanti e come tali andavano festeggiati.

Una parte della sua mente lo riportò all’ultimo che aveva trascorso con i propri familiari, in quel piccolo paesino delle Ardenne, che per sette anni era stato la sua casa. Ricordava di come Charles quel giorno gli avesse fatto uno scherzo facendogli credere che tutti se ne fossero dimenticati. Una parte di Rimbaud provava ancora una sorta di nostalgia verso il proprio passato. Nonostante avesse cercato di sotterrare nelle profondità del proprio animo certi sentimenti, questi tornavano alla luce con prepotenza quando meno se lo aspettava, mettendo in discussione tutte le sue convinzioni.

Quel giorno, aveva semplicemente deciso di presentarsi al loro nascondiglio con del vino sottobraccio ed un budino, comprato in una delle migliori pasticcerie della capitale. Sarebbero partiti l’indomani, non aveva saputo trovare di meglio visto il poco tempo a sua disposizione. Verlaine gli aveva aperto la porta e si era limitato a fissarlo, più sospettoso che sorpreso.

Non riusciva a capire perché gli esseri umani volessero tanto festeggiare il giorno in cui erano venuti al mondo.

«Perché?» fu tutto ciò che chiese;

«Vale la pena festeggiare la tua nascita» Arthur come sempre aveva provato a spiegarglielo. Una parte di Paul lo odiava per questo, per il mondo in cui disperatamente cercava di farlo sentire umano.

Rimbaud aveva continuato a sorridere, mentre gli porgeva la bombetta che aveva fatto creare appositamente per lui. Era il suo regalo, un qualcosa che potesse aiutare il biondo a controllare finalmente quella bestia nascosta dentro di lui.

«Indossando questo cappello potrai obbedire solo alla tua volontà» aveva concluso versandogli un bicchiere di vino. Verlaine però non pensava a quello, ma al fatto che in questo modo Arthur non sarebbe più stato indispensabile. Il Governo avrebbe potuto affidargli un altro partner. Non seppe spiegarsi bene il perché ma quella possibilità non gli piaceva.

 

 

***


 

Quel giorno fu la prima volta in cui Paul vide il proprio compagno sotto una luce diversa. Aveva notato il leggero rossore che aveva colorato le guance pallide di Arthur quando le loro mani si erano sfiorate, alla consegna dei regali. Era sempre stato attento a questi dettagli. Nel mondo segreto dell’intelligence per completare una missione una brava spia doveva imparare a mettere da parte le proprie emozioni. Verlaine non aveva prestato particolare attenzione a quella lezione. Il biondo continuava a soffrire il fatto di essere un essere artificiale, non riusciva a definirsi umano e, anche per questo, credeva di essere totalmente immune dal provare sentimenti.

Avrebbe capito in seguito come quel giorno fosse stato semplicemente l’inizio di tutto.

In quella pallida mattina di marzo, Paul aveva allungato una mano, non per afferrare la bottiglia di vino, ma quella del proprio partner. Arthur non si era sottratto a quel tocco gentile. Si era limitato a fissare il compagno cercando di scorgere in quegli occhi di solito gelidi e indifferenti un qualche tipo di risposta. Rimasero così per parecchi secondi, specchiandosi l’uno nelle iridi dell’altro.

In quel momento Verlaine si sentiva completamente tranquillo. Non provava nessuna particolare emozione. Ancora non gli era molto chiara tutta la faccenda riguardante il compleanno o il ricevere regali, sapeva solo quanto la visita, e la compagnia di Arthur gli avessero fatto piacere. Uno strano calore lo aveva raggiunto. Era una sensazione nuova ma non per questo sgradevole, quasi rassicurante. Era la stessa che gli donava il moro con la sua sola presenza.

«Cosa bisogna dire in questi casi?» domandò con una punta d’incertezza, mentre finiva di gustarsi l’ennesimo bicchiere. In fondo era pur sempre il suo primo compleanno. Arthur aveva sorriso prima di abbandonare la presa ma solo per potersi versare dell’altro vino.

«Non c’è una risposta giusta o una sbagliata. Di solito si ringrazia per i regali ricevuti. Ti sono piaciuti almeno?» Era calata nuovamente una patina di silenzio ed erano tornati a fissarsi. Arthur si preparò a ricevere una risposta negativa. Per esperienza sapeva bene che nonostante il tempo trascorso insieme, vi erano ancora troppe barriere che lo separavano da Paul. Dal comprendere i suoi pensieri.

Verlaine aveva solo bisogno di tempo per poter rispondere a quella semplice domanda. Il budino che l’altro gli aveva offerto era buono e pure il cappello sembrava avere una sua utilità.

Arthur interpretò questo silenzio in altro modo.

«Non importa ora sarà meglio che vada, ho ancora dei dettagli da definire prima della missione»

Il biondo tornò a fissarlo più confuso di prima, cercando di capire cosa avesse fatto di sbagliato.

«Resta» quelle parole uscirono dalla sua bocca con una facilità disarmante.

«Non abbiamo ancora finito il vino» aggiunse come se sentisse il dovere di fornire un’ulteriore giustificazione.

Arthur lo fissò di sottecchi ma si rimise a sedere, versando altri due bicchieri.

«Vedo che ti piace » aggiunse dopo un po’, indicando la bottiglia ormai vuota. Verlaine rispose con un’alzata di spalle;

«Sono francese» entrambi risero.

Restarono così per qualche minuto, continuando a bere in silenzio. Fu il biondo ad interrompere quella situazione di stallo;

«Questo compleanno è stato interessante»

«Interessante?»

«Si. Penso che possa essere considerato l’ennesimo passo verso la mia ricerca di umanità»

«Tu sei un essere umano Paul» Arthur ne era certo, doveva solo riuscire a convincere il suo testardo compagno.

Verlaine era il primo a dubitare della sua stessa natura. Era perfettamente consapevole del mostro che nascondeva sotto la propria pelle, come della morte e distruzione che avrebbe potuto provocare. Una parte di lui non poteva fare a meno di odiare quel lato del carattere di Arthur. La spia non aveva mai cercato veramente di capirlo.

«Perché fai tutto questo per me?» fu tutto ciò che riuscì a dire. C’erano delle volte in cui i gesti del compagno sfuggivano alla sua comprensione.

«Non lo so, forse perché desidero solo che tu sia libero»

«Un essere artificiale non ha questo diritto» Arthur gli aveva regalato solo un sorriso stanco, accompagnato dall’ennesimo sospiro. Non si sarebbe arreso, un giorno sarebbe riuscito a fargli cambiare idea.

«Cerca di riposare, domani partiremo per la missione. Verrò a chiamarti alla solita ora» fu tutto ciò che aggiunse, prima di indossare il proprio cappotto e raggiungere la porta.

Se quel giorno, Paul avesse saputo cosa avrebbero trovato in Giappone, avrebbe dato ascolto a quella voce nella propria testa che gli suggeriva di trattenere Arthur, di non lasciarlo andare via così. Quella consapevolezza lo avrebbe raggiunto molti anni dopo, quando ormai ogni cosa aveva finito col perdere d’importanza.



***


 

 

Inghilterra


- Otto anni dopo -



 

Quel giorno Londra si era risvegliata completamente imbiancata. La neve era caduta fitta per tutta la notte, regalando alla città un’atmosfera fiabesca. A Paul Verlaine, la capitale inglese non era mai piaciuta, come del resto i suoi abitanti. Forse perché la sua mente lo portava sempre a fare paragoni con la sua amata Parigi. Erano passati diversi anni da quando aveva scelto di abbandonare la Francia. Più precisamente dopo la missione in Giappone.

Ogni dettaglio di quei giorni era scolpito nella sua mente.

Aveva sparato ad Arthur, poi l’aveva ucciso.

Era tornato in Francia con quella consapevolezza, insieme ad strana sensazione che gli opprimeva il petto e non gli dava un attimo di tregua. Un mostro come lui non sarebbe mai dovuto venire al mondo. Sarebbe dovuto morire quel giorno di tanti anni prima, in quel laboratorio, insieme al proprio creatore. Se l’avesse fatto, Arthur sarebbe stato ancora vivo.

Era stato Paul il primo a tradirlo.

Il peso di quel ricordo lo schiacciava. Rivedeva Arthur correre davanti a lui nella base nemica; se chiudeva gli occhi poteva sentire ancora il peso di un esile corpo sulle proprie spalle. Si trattava della missione che dovevano completare. Arahabaki.

Verlaine ricordava di essersi fermato al centro del corridoio, incapace di proseguire.

«Dobbiamo sbrigarci, le guardie saranno qui tra poco» Arthur lo aveva guardato confuso, non capendo quale fosse il problema. L’aveva odiato, l’aveva odiato perché ancora nonostante tutto, non riusciva a comprenderlo. Non ci provava nemmeno.

«Non posso lasciare alla Francia questo bambino. Non lo voglio consegnare a nessuno, posso crescerlo in campagna, senza che arrivi mai a conoscere la verità sulle sue origini»

Quella fu la prima e unica volta in cui vide un’ombra di delusione comparire sul viso di Arthur.

«Questo ragazzino è come te. Per questo deve venire con noi, solo in questo modo possiamo proteggerlo»

Era inutile. Rimbaud non lo capiva. Per quanto potesse sforzarsi il suo partner non sarebbe mai riuscito a comprendere le ferite del suo animo. E per questo lo odiava.

«Non riesci ad immaginare come il sapere di non essere umano potrebbe influenzare la tua vita? Le tue scelte? Sapere che la propria esistenza non è opera di Dio ma solo il risultato di calcoli e formule matematiche. Che la nostra anima come il nostro corpo è fredda, artificiale. È la stessa sensazione che si può provare a stare sul fondo di un burrone, talmente oscuro che nemmeno la luce della luna riesce ad illuminarlo»

«Sei umano...» Arthur aveva cercato di convincerlo ma Paul era stanco, stanco di sentire quella frase, non ne poteva più.

Hai intenzione di sparare, Paul?

Verlaine ricordava di aver impugnato la pistola, come anche il rumore di un colpo, l’odore della polvere da sparo. Poi le immagini diventavano sempre più confuse e distorte. Era come se un buco nero avesse finito con l’avvolgerlo, facendolo annegare in un oceano fatto d’oscurità.

Una volta ripreso la prima cosa che vide fu il riflesso della luna che si specchiava sul mare della baia di Yokohama. Tutto intorno a lui vi erano solo macerie. Una distruzione provocata da una bestia che non sarebbe mai dovuta venire al mondo.

Non vi era alcuna traccia di Arthur. Per diverso tempo l’aveva creduto morto in quell’esplosione. Fu solo grazie alla propria rete di contatti che un mese dopo scoprì come in un’Organizzazione mafiosa locale, fosse entrato un dotato di Abilità che corrispondeva in tutto e per tutto alla descrizione del proprio partner.

Un flebile barlume di speranza si accese dentro di lui. Se Rimbaud era vivo forse lo era anche il ragazzino possessore di Arahabaki.

Così Verlaine si era limitato ad osservare la nuova vita di Arthur nell’ombra. Una parte di lui non riusciva a comprendere come mai il partner avesse deciso di stabilirsi in Giappone invece che tornare in Francia – da lui.

Trovò la sua risposta solo qualche anno dopo, quando uno dei propri contatti lo informò di come Arthur avesse completamente perso la memoria.

Randou, così si faceva chiamare ora, lavorava per un’Organizzazione chiamata Port Mafia. Era un’occupazione al di sotto delle sue capacità. Più di una volta Verlaine aveva resistito alla tentazione di raggiungerlo. Avrebbe voluto scusarsi per il proprio comportamento, ma sarebbe stato inutile, Arthur aveva perso ogni ricordo del tempo trascorso insieme.

Otto anni dopo l’incidente di Suribachi, Verlaine venne informato della morte di Arthur Rimbaud.

Il Re degli Assassini non ci poteva né voleva credere.

Arthur era stato sconfitto da due ragazzini; Osamu Dazai, il Demone prodigio della Port Mafia, la cui peculiare Abilità di annullamento era conosciuta e temuta anche nel vecchio continente; e Nakahara Chuuya, il Re delle Pecore, manipolatore della Gravità.

«Chuuya» lo aveva trovato. Il ragazzino per il quale aveva perso tutto. L’anima che aveva cercato disperatamente di salvare da un destino di infelicità.

Desiderava incontrarlo, condividere con lui quel fato che li accomunava. La tragedia di due anime artificiali condannate a vivere un’esistenza che sentivano di non meritare. Chuuya era l’unico al mondo che potesse capirlo, e lo avrebbe fatto. Non come Arthur.

Fu in quel momento che Paul Verlaine comprese il reale peso dell’informazione che aveva ottenuto.

Arthur era morto. Il partner che lo aveva salvato dal laboratorio del Fauno e la persona che aveva tradito.

Per la prima volta da quando aveva memoria, Verlaine pianse.

Rimbaud era morto, non avrebbe più avuto modo di parlare con lui, di scusarsi per quanto successo. Non avrebbe più udito la sua voce. Incrociato il suo sguardo.

Si sentì uno stupido ad aver sprecato tutti quegli anni lontano da lui. Cercando di fuggire dai propri errori. Non avrebbe mai ammesso di essersi sbagliato. Nonostante tutto andava fiero della propria decisione. Avrebbe solo desiderato che anche Arthur la condividesse.

Uccise un paio di guardie della Torre dell’Orologio, solo per farsi beffe di loro. Voleva lasciare qualche traccia del proprio passaggio nella capitale inglese. La propria firma. Un regalo d’addio alla vecchia Europa.

Aveva un certo piano in mente, se avesse funzionato avrebbe potuto rimediare al proprio passato.

Non sarebbe stato facile, come non lo era accettare la morte del proprio compagno ma in qualche modo ci sarebbe riuscito. La parola fallimento non era contemplata nel suo vocabolario.

 

***

 

Paul Verlaine aveva deciso di rifiutare la morte di Arthur Rimbaud. Non si trattava di fingere che non fosse successa quanto di porvi rimedio. C’era solo una persona che poteva aiutarlo nel mettere in pratica quel folle piano, che ormai occupava la quasi totalità dei suoi pensieri. Se mai avesse funzionato, avrebbe potuto salvare non solo Arthur ma anche il ragazzino portatore di Arahabaki, Nakahara Chuuya.

Verlaine conosceva l’uomo che avrebbe potuto aiutarlo a riavere Arthur. Non avrebbe voluto fare affidamento su di lui ma non sapeva a chi altri rivolgersi. A mali estremi. Non si sarebbe arreso. Non poteva.

Se fosse stato un buon allievo si sarebbe reso conto di essere completamente in balia delle proprie emozioni. Verlaine però non si era mai considerato una buona spia, ci aveva provato, ma aveva trovato la propria vocazione solo come Re degli Assassini. Lui era stato creato per portare morte e distruzione, quella era la sua natura. Era nato così.

Questo era stato solo uno degli innumerevoli errori di Arthur, il volerlo cambiare. Paul sapeva di non poterlo fare. Lui era un mostro, e i mostri non stanno dalla parte dei buoni. Era questo che veniva da sempre raccontato nelle favole per bambini, nelle storie con cui sicuramente anche Arthur era cresciuto.

Realizzò in quel momento di non conoscere nulla di lui. Non sapeva niente del passato del proprio compagno. Ricordava solo un nome, Charles. L’aveva letto di sfuggita tra i vari appunti sulla scrivania di Arthur. Rimbaud teneva un taccuino su cui annotava ogni cosa, probabilmente aveva scritto pure di lui. Ormai non aveva importanza.

 


 

***


 

Aveva passato ancora una settimana a Londra, concludendo velocemente qualsiasi affare avesse in sospeso nella capitale inglese. Un solo pensiero ad occupargli la mente: Arthur.

Lo avrebbe salvato, avrebbe trovato un modo per riaverlo nella propria vita. Tutto sarebbe tornato come prima dell’incidente di Suribachi, prima del Giappone, di Arahabaki e Nakahara Chuuya.

Prese dalla tasca del proprio completo un cellulare usa e getta che aveva comprato quella mattina. Compose velocemente un numero. Attese il tempo di due squilli.

«Sarò a Parigi tra qualche giorno. Si, al solito posto. Farò quanto in mio potere per riaverlo. No. Non mi importa nulla. Adieu»

Nemmeno la morte avrebbe potuto separarlo da Arthur. Una stagione della sua vita si era appena conclusa e presto una nuova sarebbe iniziata.

Quello non era che l’inizio.



 

  
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